SOCIETÀ

Biocarburanti: UE, inversione di rotta?

Rilevanti questioni di interesse socio-economico intrecciano la strada della ricerca e della produzione di biocarburanti, una delle strategie su cui i governi hanno puntato per diminuire le immissioni inquinanti nell’aria derivanti dai trasporti. Il biocarburante, prodotto raffinato a partire dalle biomasse (grano, mais, bietole, canna da zucchero e soia tra i più usati), da scarti di materiale agricolo o da alghe (è questo il caso dei biocarburanti di seconda e terza generazione) ha un impatto su tre ambiti di notevole interesse: cibo, clima ed energia. In questo periodo sono soprattutto le bioenergie di prima generazione, quelle che implicano la sottrazione di terreni agricoli alla produzione alimentare a essere al centro di una accesa discussione in ambito europeo e non solo. Questo perché il loro ciclo di realizzazione non sarebbe esente, considerando tutti i fattori implicati, da effetti collaterali di natura climatica ed economica. La crescente domanda di questo tipo di combustibile sta generando dei conflitti sull’uso stesso del territorio: il biofuel comporta un cambiamento indiretto della terra (Indirect land use change - Iluc ). Da una parte i terreni vengono convertiti a produzione esclusiva di biomasse, sottraendo risorse alimentari alla popolazione, dall’altra aree non agricole (come praterie, torbiere o boschi) vengono convertite alla produzione  agricola, creando danni maggiori rispetto ai ricavi. In termini ambientali ciò si traduce in importanti immissioni di Co2 nell’aria, dal momento che questo tipo di terreni e la vegetazione che li ricopriva trattengono al loro interno ingenti quantità di gas serra, liberate poi nell’aria. Ma la coltivazione intensiva di prodotti destinati ai biofuel, come i cereali, comporta anche un aumento generalizzato dei prezzi agricoli che poi si riflettono sul consumatore finale e sui paesi in via di sviluppo. Argomento particolarmente scottante dopo che l’estate appena trascorsa ha decimato i granai del mondo, dando alla siccità una dimensione globale. Le preoccupazioni si sono levate fin dal 2008, quando il boom della produzione di biofuel era ancora in fase embrionale, e sono state confermate in un rapporto della Fao (Food and agriculture organization) del 2011 sulla volatilità dei prezzi e sulla sicurezza alimentare. La Fao rimarca come l’aumento della domanda di colture cerealicole o di oli vegetali da parte dell’industria del biocarburante e l’uso da parte di Stati Uniti e Unione europea di blocchi dell’export e misure di incentivazione alla produzione dei biofuel abbia determinato uno “shock” della domanda, che va considerato come la principale causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime. Secondo l’organizzazione dell’Onu la nuova domanda di prodotti derivati dall’agricoltura, che può danneggiare i paesi poveri e le popolazioni con scarse risorse alimentari, metterebbe in luce una tensione tra la potenziale domanda illimitata (di energia) e la limitatezza delle risorse alimentari disponibili nel mondo. Le conclusioni sono chiare: il rapporto chiede che il Consiglio della Fao faccia pressione sui governi affinché cancellino gli obiettivi per l’utilizzo dei biocarburanti e rimuovano i sussidi economici per la loro produzione. 

L’Unione europea pare aver recepito le raccomandazioni della Fao. È del 17 ottobre scorso la proposta della Commissione europea di modificare due direttive comunitarie: la 98/70/CE in materia di qualità dei carburanti e la 2009/28/CE sulla promozione delle energie rinnovabili.

I nuovi obiettivi della Commissione vanno a mutare, profondamente, quelli fissati al 2020, anno in cui i governi dell’Ue dovrebbero fare in modo che il 10% dei carburanti utilizzati provenisse da energie rinnovabili. Ora l’Europa propone di ridurre gli incentivi ai biocombustibili derivanti da colture alimentari (mais, colza, zucchero e altri: la prima generazione insomma), limitando la loro immissione nel mercato a una quota massima del 5%, e di sostenere, invece, i biocarburanti alternativi (seconda e terza generazione) per i quali non c’è sfruttamento del suolo e di colture edibili. Chiede poi di aumentare la soglia minima di riduzione dei gas ad effetto serra per i nuovi impianti di produzione dei biocarburanti al 60%, “al fine di migliorare - si legge nel testo - l’efficienza dei processi e scoraggiare ulteriori investimenti in impianti che danno scarsi risultati nella riduzione delle emissioni”. Infine, chiede di valutare l’impatto complessivo del cambio di destinazione d’uso dei terreni in termini di emissione di gas serra per capire se i benefici derivanti dai biocarburanti siano vanificati dall’aumento della Co2 nell’aria. “Se vogliamo che ci aiutino a contrastare i cambiamenti climatici - spiega la commissaria per l’Azione per il clima Connie Hedegaard - i biocarburanti che usiamo devono essere autenticamente sostenibili e senza fare concorrenza alla produzione alimentare”. Dal 2020, infine, la Ue imporrà che gli incentivi finanziari vadano solo a chi produce biofuel che comporti una reale riduzione del gas serra e non legati a colture destinate al consumo umano e animale. 

Si tratta, insomma, di un sostanziale passo indietro nelle politiche comunitarie, volto a salvaguardare la distribuzione del cibo (e del suo costo) a livello mondiale. D’altronde Stati Uniti, Unione europea e Brasile sono tra i massimi produttori e consumatori di carburante da fonti rinnovabili. Nel triennio 2007-2009 gli Usa hanno prodotto 34 miliardi e 890 milioni di litri di biocarburante, l’Ue è arrivata a 12 miliardi di litri, il Brasile a poco più di 24 miliardi di litri. L’industria americana del biofuel usa circa il 40% della produzione di grano e l’Ue 2/3 di quella di olii di origine vegetale. 

La decisione di puntare maggiormente alle fonti rinnovabili non di origine alimentare appare quasi scontata. “Servono strade diverse dall’uso del terreno agricolo”, spiega il professor Giuliano Mosca del dipartimento di Agraria dell’università di Padova. “Questo settore primario - prosegue - non deve essere colpito, ma si devono usare altre risorse che non vadano a intaccare lo sfruttamento del suolo o il cibo”. Il docente indica la strada: “Integrare e valorizzare gli scarti”, come quelli dei rifiuti urbani del verde pubblico oppure “recuperare i reflui oleari dalle industrie produttrici di prodotti fritti”, prima di toccare soia e colza. O sperimentare i carburanti “eco” di ultima generazione, come quelli prodotti a partire dalle alghe e che sono in fase di test in questi ultimi anni. 

Mattia Sopelsa

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