CULTURA

Nostalgia d’Ottobre

A chi studiava russo a metà anni '80 raccontavano fin dalle prime lezioni che i sovietici giravano sempre con una sportina in rete di scorta che chiamavano avos'ka. Il nome derivava da avos, "chissà", testimoniando il fatalismo e l'opportunismo dell'animo russo, sempre pronto a cogliere l'occasione che il destino poteva porgere e tornare a casa con una borsa inopinatamente piena.

Fa piacere ritrovare anche questa borsetta, insieme a molte altre curiosità, nell'elenco degli oggetti sovietici stilata da Gian Piero Piretto in un libro recentemente pubblicato da Sironi. Anzi, cose e non oggetti, spiega Piretto che per “cosa” intende “quel manufatto che implica la presenza di un legame affettivo o relazionale tra prodotto e soggetto”, mentre il termine “oggetto” parla di puro possesso. Ecco quindi emergere la concezione sovietica dell’oggetto, che da tovar (merce) si fa tovarišč (compagno), e rifugge gli orpelli ornamentali e superficiali in favore di una funzionalità che riveli l’essenza dell’oggetto stesso. È la reazione alla paccottiglia borghese, a quell’insano attaccamento al superfluo che dovrà essere spazzato via dal nuovo corso rivoluzionario. Paccottiglia che periodicamente tornerà però anche in epoca sovietica, segno visibile del desiderio eterno di mostrare il proprio status attraverso gli oggetti posseduti ed esibiti.

Il classico samovar poi sostituito da un prosaico kipjatil’nik (la resistenza per scaldare l’acqua in qualsiasi recipiente), le sigarette pestilenziali, l’onnipresente contromarca dei guardaroba, i distributori di acqua gasata con bicchiere in vetro costituiscono oggi un inesauribile repertorio di nostalgia di un tempo trascorso, e diventano spesso merce kitsch dei mercatini di modernariato, ormai pieni di cimeli dell’Armata Rossa, tributo all’intramontabile abitudine della speculazione fino all’ultimo ricordo.

Quel che più interessa allo smaliziato consumatore occidentale del XXI secolo è però proprio il processo di costruzione dell’oggetto e del suo spirito, innovazione sovietica non distante da quello che l’invenzione della marca ha saputo fare in ambito capitalista. La connessione tra byt (vita quotidiana) e design è al centro di un articolo del 1925 di tale Boris Arvatov, critico e storico dell’arte, paladino del movimento costruttivista, che polemizza con i marxisti contemporanei troppo ossessionati dalla tecnologia. Il concetto di cultura materiale è, nella sua idea, più ampio del concetto di tecnologia, perché è il “sistema universale delle Cose”  e comprende sia la produzione sia il consumo dei beni materiali.  È questo il punto fondamentale, l’enfasi sul consumo, e non solo sulla produzione, occupazione tipicamente proletaria. Vita quotidiana e consapevolezza sociale passano proprio da lì, perché “il tipo culturale di una persona è creato da tutto il suo ambiente materiale”, ed è la relazione tra l’individuo  e la Cosa “la più importante e fondamentale delle relazioni sociali”. Come dire che siamo quel che possediamo o almeno quel che usiamo. Le forme materiali di cultura rappresentano “una forza straordinariamente conservatrice conosciuta come byt. Comprendere le tendenze di sviluppo del byt materiale significa essere in grado di dirigerle e trasformarle sistematicamente, e trasformarle in una forza innovatrice”.

Se la Russia sovietica inseguiva ai suoi esordi il nuovo rapporto, completo e organico, con l’intero ciclo di vita dell’oggetto per imprimere nelle persone “il senso più profondo delle Cose”, non può sfuggire comunque la consapevolezza del rapporto emotivo con il bene materiale e il suo enorme potenziale in termini di manipolazione delle folle attraverso la stimolazione dei desideri dell’individuo. Una consapevolezza che si manifestava anche negli esperimenti pubblicitari delle avanguardie, con Majakovskij in testa, con slogan a effetto (Nigde krome kak v Mossel’prome, Lo trovi solo nei magazzini Mossel’prom) ma soprattutto la creazione di una felicità immaginaria, di un ottimismo irreale nelle immagini dei manifesti, con la contadina fiera delle sue galosce impermeabili o il pulito senza precedenti grazie all’elektro-polotër, il lavapavimenti elettrico che “risparmia le forze ed economizza il tempo”.

Se ancora ci stupiamo di fronte alle casalinghe che cantano in tv con i detersivi in mano, ci consoli il fatto che c’erano arrivati prima loro. Il cortocircuito è stato ovviamente inevitabile quando all’entusiasmo collettivo dei primi anni e a una oggettiva cura nel costruire gli oggetti della società della rivoluzione è seguita la penuria perenne di merci, con gli scaffali dei negozi che dichiaravano “niente scarpe”, “niente calzini”, e lo scadimento della qualità e del design dei prodotti da piano quinquennale. Quei prodotti che restavano immutabili e non potevano conoscere miglioramenti perché il cambiamento comprometteva ogni produzione programmata. “Più lunga la durata del piano, più ammorbanti i risultati stilistici”.

Con il risultato finale della sempre maggiore attrattività degli oggetti d’Occidente, proni alle leggi di mercato e quindi sempre più belli, sempre più nuovi, sempre “più bianchi”, e il desiderio di possederli, attraverso il mercato nero prima, l’adesione a un finto capitalismo, magari selvaggio, poi. E dall’altra parte, la creazione di oggetti dell’Est così essenziali e desolanti da possedere un’aura (lo “spirito delle Cose”) e affascinare gli occidentali a caccia di una disintossicante Ostalgie. Nulla si crea, nulla si distrugge.

Cristina Gottardi

Il libro

Gian Piero Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici. 25 storie da un altro mondo. Milano, Sironi, 2012

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