SOCIETÀ

Il 40% delle donne vive in paesi ad alta discriminazione

Tra meno di sette anni arriverà il 2030, l’anno scelto dalle Nazioni Unite come termine massimo per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (in inglese: Sustainable Development Goals o SDG). Ma come va nel mondo il raggiungimento della parità di genere, ovvero con l’obiettivo numero 5? Non molto bene e il rapporto pubblicato a luglio dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) lo dice chiaramente: “i progressi verso l’uguaglianza di genere rimangono fragili, troppo lenti ed eterogenei”. 

Il documento periodico dell’OCSE si intitola Social Institutions and Gender Index (SIGI) e la sua versione più aggiornata è stata pubblicata a metà dello scorso luglio, in occasione di Women Deliver, un’importante conferenza mondiale periodica sul ruolo delle donne nel mondo, che si è tenuta a Kigali, la capitale del Rwanda. Nel suo discorso di inaugurazione della conferenza, Maliha Khan, presidente e CEO di Women Deliver, ha sottolineato gli sforzi di molti paesi negli ultimi anni, ma non ha potuto tacere alcune critiche a Katalin Novak, presidente dell’Ungheria, presente alla cerimonia di apertura dell’evento: “Sono d’accordo con ben poco di ciò in cui crede la presidente Novak, [...] soprattutto per quanto riguarda il ruolo delle donne, i diritti riproduttivi, la giustizia e altre questioni. Ma è anche importante notare che se vogliamo raggiungere i nostri obiettivi come comunità femminista, dobbiamo parlare con persone con cui non sempre siamo d’accordo”. Una posizione, quella del dialogo anche con chi sembra spingere contro l’emancipazione delle donne, che non è condivisa da tutte le oltre 6 mila partecipanti alla conferenza di Kigali. Una spaccatura che ribadisce ancora una volta la difficoltà di lavorare con l’obiettivo di rendere il mondo più equo ed eliminare alcuni privilegi.

Donne più vulnerabili

Dai dati di SIGI 2023 emerge chiaramente come le donne siano più a rischio, in particolare in determinate situazioni. Per esempio, per il loro ruolo di cura all’interno dei gruppi familiari, le donne sono 14 volte più a rischio di morire in caso di disastro naturale rispetto agli uomini. Non solo, i rischi sono più alti per le donne anche nel periodo immediatamente successivo. Scrivono infatti gli autori del rapporto che “in seguito ai disastri naturali, le donne e le ragazze sono vulnerabili alla violenza sessuale e di genere”. A cui si sommano matrimoni precoci e forzati, perdita dei mezzi di sussistenza, accesso limitato all’istruzione, deterioramento della salute sessuale e riproduttiva, oltre all’aumento del carico di lavoro domestico. In particolare, come è noto da anni di studi e osservazioni, è soprattutto la perdita o la restrizione delle possibilità di ricevere un’educazione a limitare l’autonomia e la possibilità di decisione delle donne.

Un intero capitolo è dedicato al rapporto tra genere e crisi climatica. Secondo quanto riportato dal report SIGI 2023, in continuità con una corposa letteratura scientifica al riguardo, le donne sono più esposte alle conseguenze dei cambiamenti climatici. Come nel caso dei disastri naturali, questo ha a che fare con i diversi ruoli che le donne ricoprono all’interno delle società. Ma si tratta anche di un processo di esclusione: le donne non sono chiamate a partecipare attivamente alla definizione delle politiche, delle strategie e dei programmi di riduzione del rischio.

Il ruolo dei pregiudizi

All’interno del rapporto SIGI sono pubblicati anche i dati che riguardano un sondaggio sul ruolo delle donne condotto nei 179 paesi presi in considerazione. I dati fanno riferimento al 2021 e sono presentati come variazione rispetto alla rilevazione precedente, effettuata nel 2014. Ecco le principali risposte:

Come sottolinea il documento dell’OCSE, ci sono stati anche significativi passi avanti. Per esempio, è diminuita di oltre dieci punti percentuali la porzione di coloro che ritengono giustificata la violenza fisica del marito nei confronti della moglie. Ma si mantengono costanti o quasi le opinioni sull’interruzione di gravidanza, sul rapporto tra lavoro femminile e sofferenza dei figli, sul fatto che essere una casalinga dia le stesse soddisfazioni di un lavoro fuori di casa. Soprattutto, è aumentata la percentuale di coloro che pensano che gli uomini siano politici o dirigenti d’azienda migliori delle donne.

Non è un problema solo dei paesi meno ricchi

Forse vale la pena di sottolinearlo nuovamente: non si tratta di dati che riguardano i paesi più poveri, ma sono dati che riguardano il mondo intero. Per esempio, limitandoci alla sfera lavorativa, in Italia un sondaggio di YouGov del 2021, quindi dello stesso anno dei dati OCSE, il 73% delle persone intervistate sosteneva che le donne sono più favorite sul lavoro rispetto agli uomini. Non solo, emergeva una opinione diffusa sul fatto che alcuni lavori siano più adatti all’uno o all’altro genere: designer decisamente donna, meccanico decisamente uomo, giusto per fare due esempi.

La situazione è ancora più preoccupante quando guardiamo i dati sull’obbligatorietà dell’educazione sessuale all’interno dei curricola scolastici. Nonostante l’Italia sia contemporaneamente un paese europeo e faccia parte dell’OCSE, nel nostro paese l’educazione sessuale non è parte del percorso scolastico obbligatorio. Quindi, sotto questo punto di vista, l’Italia non rientra né nel 58%, né nel 74%. Un sintomo, forse, che misurare il benessere e la ricchezza dei paesi non sia sufficiente a capire quanto avanzati siano in termini di giustizia sociale, diritti civili e cultura della parità.

Serve la volontà di agire

La ricetta è in realtà ben nota e piuttosto semplice. E le raccomandazioni che si trovano nelle conclusioni del rapporto SIGI 2023 sono in linea con quanto già si sapeva: mettere in pratica riforme normative che tutelino e sostengano la parità di genere, e sforzarsi di modificare le norme e i comportamenti sociali. Ovviamente è più facile a dirsi che a farsi, perché ridurre privilegi o modificare consuetudini è sempre complicato. Però la ricetta ha dimostrato di funzionare, come dimostra il caso del Rwanda citato all’inizio. Come riporta il Global Gender Gap Report 2020 pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, “nel 2020 il Rwanda è stato classificato tra i primi 10 paesi per la riduzione del divario di genere”. Se c’è la volontà, i risultati arrivano.

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