CULTURA

All’estero tanti musei dell’immigrazione, ma a Parigi è mal collocato e chiuso

A Parigi il museo nazionale della storia dell’immigrazione è stato inserito proprio nell’area che ospitò l’esposizione dell’Impero coloniale francese ed è chiuso da parecchio tempo per una ristrutturazione e un’auspicabile riconversione. Come noto, l’impero coloniale francese, un secolo fa, riguardava quasi il dieci per cento delle terre emerse, circa 13 milioni di chilometri quadrati distribuiti in tutti i popolosi continenti oltre quello europeo: Asia, Africa, Americhe (soprattutto settentrionale e caraibica). La Francia e l’Inghilterra iniziarono a conquistare il mondo e a fondare colonie dopo Spagna e Portogallo e vi dedicarono grande forza; vi è una lunga storia di rivalità e concorrenze, di conflitti e soprusi. Il colonialismo è una pagina nera nella storia europea, depauperò ecosistemi biologici e schiavizzò comunità umane, costituì un’immigrazione forzata e provocò emigrazioni forzate. L’impero francese si formò per fasi, le “conquiste” concentrate nella prima metà del Settecento e nella seconda metà dell’Ottocento, ovviamente con in mezzo l’imperiale periodo napoleonico, specifico nelle ambizioni e nella transitorietà istituzionale (la storia costituzionale francese ha meritato studi emblematici).

I “possedimenti” francesi durarono fino alla seconda metà del Novecento, la decolonizzazione fu spesso ottenuta con lotte d’indipendenza e guerre, da ultimo in Algeria e Indocina. Nel 1931 la Francia organizzò a Parigi una Exposition Coloniale, unici grandi assenti gli inglesi fra i diversi altri paesi coloniali europei; con il regime fascista italiano le relazioni politiche iniziavano già a essere molto complesse, comunque l’Italia aderì e strutturò vari padiglioni. La manifestazione presentava le stesse caratteristiche di tutte le Esposizioni Universali, pure coloniali, sin dalla loro nascita, dominate da un generale spirito di “propaganda”, con una prepotente magnificenza nelle forme e un esotismo prevaricante nei contenuti, una sorta di vera e propria ricostruzione scenografica di paesaggi e usi dei paesi conquistati adibiti a “colonie”, così come dei cosiddetti villaggi indigeni o, addirittura, zoo umani.

L’Esposizione coloniale internazionale ebbe luogo nel parco di Vincennes ai confini degli arroindissement (del dodicesimo, periferia sud-est) dal 6 maggio al 15 novembre 1931, definita come apoteosi del pensiero coloniale francese.L’imperioso Palais de la Porte Dorée fu impostato nel 1928 e terminato nel 1931, proprio per “introdurre” l’esposizione coloniale con esuberanti bassorilievi di stile antico e ospitare una parte delle installazioni al proprio interno. Una volta terminata la manifestazione, gli oggetti prestati da musei o collezionisti venivano restituiti e si ipotizzò di fondare nel palazzo un Museo Coloniale. Il diplomatico incaricato era vicino al Fronte Popolare e chiese consiglio all’etnologo museografo che contemporaneamente stava ristrutturando il museo etnografico del Trocadéro.

Dopo visite mirate nei due più grandi musei coloniali d'Europa (ad Amsterdam e nei pressi di Bruxelles), aperture provvisorie e lunghe istituzionali riflessioni collettive, un nuovo museo fu inaugurato nel gennaio 1935, denominato Musée de la France d’outre-mer, annesso all'Istituto nazionale di agronomia della Francia d'oltremare (INAFOM) sotto la supervisione del ministero delle Colonie. Nel 1960, in conseguenza della decolonizzazione, passò alle amministrazioni culturali e fu ancora ribattezzato come Musée des arts africains et océaniens, sempre attorno a tre sezioni principali (l'acquario tropicale, la sezione storica e la sezione economica). Dal 2009, negli stessi spazi del palazzo originario, tra molte complicazioni, polemiche e interruzioni, è stato ora inopportunamente collocato il Musée national de l’histoire de l’immigration (separato dall’acquario che è restato in funzione).

Il museo ha conosciuto due decenni travagliati prima e dopo l’apertura, non è stato mai realizzato un catalogo e da molto tempo le gallerie permanenti sono chiuse, non vi sono comunicazioni dettagliate e indicazioni precise, forse potrebbero riaprire a giugno, all’inizio della prossima estate (qui si può verificare:). Colpisce quel che si può comunque vedere in permanenza: il grande plastico dell’esposizione del 1931 estesa in tutta l’area circostante, il parco e altri edifici, anche con monumenti e statue; i due enormi saloni dei protagonisti del 1931, il maresciallo Lyautey (Asia) e il ministro Reynaud (Africa); il maestoso scenografico decorato Salone des fêtes, con pannelli e affreschi colorati, ricco di rappresentazioni animali e umane proprie dell’ideologia coloniale; insomma il programma iconografico che negli anni Venti e Trenta (un secolo fa) motivava la missione “civilizzatrice” della Francia e il carattere indispensabile dell’Impero francese.

Non possono che esserci urto e torsione rispetto all’obiettivo dichiarato istituzionalmente dal museo parigino di valorizzare gli apporti positivi della più recente immigrazione in Francia, in particolare attraverso quella che era stata presentata (e per un po’ proposta) come la Galerie des dons oppure con periodiche vivaci mostre artistiche. Aspettiamo con curiosità la riapertura, auspicando la correzione di limiti e criticità. Raccogliere storie e oggetti dell’umano migrare, fisicamente o virtualmente che sia, richiede un radicale ripensamento della stessa idea di museo, lo abbiamo già sottolineato. In Italia si sono fatti soprattutto musei della nostra emigrazione, all’estero soprattutto musei dell’immigrazione altrui; tuttavia, non si può descrivere la storia di un italiano in Argentina senza parlare nello stesso contesto della penisola nel Mediterraneo e dell’ecosistema di arrivo, in almeno due lingue e molti più dialetti. In Italia si sottolinea soprattutto il tempo storico e sociale della partenza; all’estero soprattutto il periodo storico e sociale dell’arrivo; tuttavia, residenza originaria, transiti e residenza successiva riguardano momenti diacronici della vita, esperienze delocalizzate del trascorrere del tempo.

La museologia delle migrazioni costituisce davvero un tema appassionante della vita culturale contemporanea. Non si tratta più di qualcosa di eccentrico, i musei relativi ci fanno riflettere sul modo stesso di essere museo, frutto della raccolta di relazioni e materie peregrinanti, impossibili forse da cristallizzare una volta per tutte. Così, se andate a Parigi (ogni ragione è buona:) potete visitare il museo davvero essenziale per capire qualcosa delle nostre migrazioni (anche moderne e contemporanee), fu avviato proprio negli anni Trenta al Trocadéro, se ne è accennato. Lasciatevi qualche ora per seguire il percorso (interagendo) del Musée de l’Homme, riferito appunto alla sopravvivenza e alla riproduzione, all’evoluzione e alle migrazioni del genere Homo, con tante specie umane vissute prima o accanto rispetto a noi sapiens, così come è stato splendidamente riorganizzato nel 2015.

Qualche anno fa è uscito comunque un bel testo che, facendo tesoro del lavoro di alcune riviste e siti specialistici, ha avviato la trattazione garbata e competente della museologia delle migrazioni: Anna Chiara Cimoli, Approdi. Musei delle migrazioni in Europa, Clueb Bologna 2018, pag. 297 euro 28. Il primo pioneristico caso di museo dedicato alle migrazioni nel mondo è quello rimasto aperto nel porto di New York dal 1972 al 1991; poi ad Adelaide fu inaugurato nel 1986, a Ellis Island nel 1990, a San Paolo nel 1998, a Halifax nel 1999, a Città del Capo nel 2000, a Buenos Aires nel 2009, fra gli altri. In Europa il primo è quello di San Marino che risale al 1997; poi a Fafe in Portogallo fu inaugurato nel 2001, a Gualdo Tadino (regionale umbro) nel 2003, a Bremerhaven in Germania e vicino Barcellona (“regionale” catalano) nel 2004, a Parigi come detto nel 2009, fra gli altri.

Accanto a quelli più grandi e nazionali, vi è stata fin dal principio una rete minuta e capillare di piccoli centri di ricerca con una sezione espositiva, a volta intermittente e perlopiù legata a esperienze locali. Solo in Italia si contano quasi una trentina di musei, alcuni di dimensioni minuscole (case-museo), quasi tutti senza trattare le migrazioni dal punto di vista dei flussi in entrata (a differenza che nella maggior parte dei paesi occidentali), mentre alcuni trattano il tema delle migrazioni in modo tangenziale. In sostanza, una classificazione è prematura, meglio partire dalla situazione europea, con passione civile e capacità di comparazione critica. Anna Chiara Cimoli, brava ricercatrice di storia dell’arte e dell’architettura, esperta museologa milanese, ha pubblicato un testo utile sulla museologia connessa al diacronico e asimmetrico fenomeno migratorio.

Il volume è strutturato in cinque parti: un lungo colto saggio iniziale che segnala un interesse tematico di lungo periodo e riconosce la difficoltà di inventariare le pratiche innovative riguardanti i migranti etichettandole dentro schemi disciplinari; le “pratiche”, ovvero l’analisi concreta di sette specifici musei europei delle migrazioni (immigrazione Catalogna; immigrazione Danimarca; emigrazione Germania; mare Genova, sezione migrazioni; immigrazione Francia; mare Anversa; emigrazione Polonia), con una scheda ben articolata sulla base di una visita dell’autrice e l’ulteriore contributo di un responsabile o di una responsabile dell’istituzione; le “letture” teoriche, ovvero tre brevi saggi o articoli usciti negli ultimi dieci anni su riviste specializzate (uno dell’autrice stessa); le “voci” delle diverse possibili discipline interessate, ovvero otto riflessioni in materia come stralci di narrazioni varie, interviste, testi sollecitati; l’epilogo (“tempo di nuove pratiche”, riferito più complessivamente al lavoro interculturale) cui seguono gli utili apparati iconografico (foto) e bibliografico (parziale) e l’elenco provvisorio di una quarantina di musei delle migrazioni nel mondo (undici per l’Italia).

In più punti del volume si sottolinea che la migrazione risulta una leva fondamentale dell’umanità fin dalle sue origini (acuti e opportuni i riferimenti a Lampedusa) e che è inevitabile una certa “torsione” nei musei per rappresentarla senza confini. In tal senso, il testo è assai ricco di spunti e volutamente incompleto, sollecita approfondimenti e lancia reti, lasciando intanto purtroppo spesso prevalere il punto di vista dell’impatto strettamente espositivo rispetto alle premesse e ai nessi di carattere biologico, antropologico, geografico, storico, sociologico e statistico del comparato meticcio fenomeno migratorio umano, in sostanza rispetto a cosa sono la libertà di migrare e il diritto di restare, a un approccio al migrare scientifico e multidisciplinare. Il museo è un luogo ora visitabile o un sito ora disponibile, le migrazioni hanno più luoghi e più tempi, il loro contenuto non è mai unidirezionale o scadenzato, anche per questo risulta abbastanza fuorviante intitolare una raccolta espositiva solo all’emigrazione o solo all’immigrazione.

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