SCIENZA E RICERCA
Alluvioni in Italia: scenari di rischio e strategie di mitigazione
Foto: Reuters
A quasi due settimane dall’alluvione che ha devastato un’ampia area dell’Emilia-Romagna provocando la morte di 15 persone, migliaia di sfollati e danni per diversi miliardi di euro tra strade, infrastrutture, abitazioni private, impianti produttivi e aziende agricole, il ritorno alla normalità è ancora complesso.
Dei circa 100 comuni coinvolti (una quarantina direttamente dall’alluvione, gli altri dagli eventi franosi che hanno interessato montagna e collina) ce ne sono alcuni, come Conselice, paese di circa 9 mila abitanti della provincia di Ravenna, in cui non si riesce ad allontanare l'acqua stagnante e la paura adesso è per possibili rischi sanitari e altri come Casola Valsenio, sempre nel ravennate, o Monterenzio, in provincia di Bologna, che sono rimasti quasi completamente isolati a causa delle frane.
Nelle province più colpite sono caduti in poche ore tra i 100 e gli oltre 200mm di pioggia, un quantitativo che solitamente viene raggiunto in diversi mesi. Le precipitazioni torrenziali cominciate nella mattinata del 16 maggio hanno inoltre insistito in un’area in cui i terreni erano già saturi di acqua perché, dopo un lunghissimo periodo di siccità, tra l’1 e il 3 maggio erano stati interessati da una precedente forte ondata di maltempo, con piogge che anche in quel caso erano state particolarmente consistenti.
Di fatto quindi si è trattato di due precipitazioni definibili come eventi estremi per intensità e quantitativi di pioggia caduti. Il grande salto di scala, come sottolineato da diversi esperti, è stato però che non si erano mai verificati due eventi di tale portata in un arco di tempo così ravvicinato.
Parlando in termini generali l'Italia è più esposta di molti paesi europei al rischio alluvioni per via del suo peculiare intreccio di caratteristiche meteo-climatiche, topografiche, morfologiche e geologiche, nel quale rientra anche il fatto che in caso di esondazioni l’acqua ha poco spazio per defluire. La spinta verso una forte espansione dei centri abitati e delle aree produttive e industriali che si è verificata negli ultimi decenni ha aggravato questa condizione di fragilità perché il consumo di suolo porta inevitabilmente a una riduzione dei terreni permeabili, quelli cioè che possono assorbire la pioggia. E parallelamente l’incremento delle aree urbanizzate, ha portato a un considerevole aumento dell’esposizione al rischio, in termini di beni e persone presenti in aree soggette a pericolosità per frane e alluvioni.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio di frane, alluvioni ed erosione costiera e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad alta pericolosità per questo tipo di eventi. Se ci si focalizza sul rischio alluvioni la popolazione residente in aree a pericolosità idraulica elevata o media supera i 9 milioni di persone, a cui bisogna aggiungere oltre 12 milioni di persone che vivono in aree a pericolosità bassa.
Il tempo medio che può intercorrere tra il verificarsi di due eventi successivi di entità uguale o superiore è l'elemento utilizzato da Ispra per delineare tre possibili scenari di rischio idraulico. Le aree classificate come a rischio alto sono quelle in cui si stima che un'alluvione possa ripetersi ogni 20-50 anni, quelle a rischio medio tra i 100 e i 200 anni, mentre quelle le aree a rischio basso possono essere colpite da alluvioni con una frequenza di ritorno superiore ai 200 anni.
A livello nazionale il 14% del territorio ricade in aree considerate a pericolosità bassa, il 10% è in aree a pericolosità media e il 5,4% in aree a rischio elevato. La parte restante di territorio – quindi la grande maggioranza – non è considerata a rischio.
Se si analizzano più da vicino i dati della mosaicatura nazionale della pericolosità idraulica emerge che tra le regioni con il rischio maggiore c'è proprio l’Emilia-Romagna dove, come si può vedere anche dalla mappa, quasi tutti i comuni si trovano in aree a pericolosità idrica media o elevata. Le altre regioni in cui le percentuali di territorio potenzialmente allagabile per i tre scenari di pericolosità/probabilità risultano superiori rispetto al dato medio nazionale sono Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Toscana e Calabria (quest'ultima è particolarmente esposta allo scenario di rischio elevato).
In Emilia-Romagna le province con maggiori percentuali di territorio inondabile sono Ravenna e Ferrara con percentuali che arrivano rispettivamente all’80% e quasi al 100% in caso di scenario di pericolosità media da alluvioni. In provincia di Modena la percentuale di aree allagabili supera il 41%, in quella di Bologna è il 50% mentre a Forlì-Cesena è pari al 20.6%. A livello nazionale l'anali dei dati provinciali rivela che Rovigo è la seconda provincia italiana (dopo la già citata Ferrara) per quota di territorio esposto a rischio alluvioni (99,1% delle superfici). La soglia del 50% del territorio potenzialmente inondabile viene superata anche dalle province di Venezia, Mantova e Reggio Emilia.
L'Emilia-Romagna è prima anche per numero di abitanti potenzialmente coinvolti in frane e alluvioni. I dati dell’ultima rilevazione di Ispra dicono che 428mila persone vivono in aree a pericolosità elevata, 2,3 milioni di persone in aree a pericolosità media e meno di 300mila in aree almeno a pericolosità bassa. Come spiega l’istituto, la notevole estensione delle aree allagabili in Emilia-Romagna è legata alla presenza di una complessa rete di corsi d’acqua che si sviluppano su ampie aree morfologicamente depresse, cioè a un livello più basso rispetto al suolo. Inoltre spesso i canali sono pensili, cioè il letto è sopraelevato rispetto al piano di campagna. Le Regioni con percentuali di popolazione esposta a rischio di alluvione superiori ai valori calcolati alla scala nazionale per tutti gli scenari di pericolosità, sono Veneto, Liguria, Emilia-Romagna e Toscana.
L'Emilia-Romagna è dunque una delle aree d'Italia con il maggiore rischio di alluvioni ma ci sono alcuni aspetti che concorrono a rendere l'ultimo evento definibile come "straordinario". In primo luogo, come già detto, la combinazione di forti piogge ravvicinate, con due ondate di maltempo in 15 giorni entrambe caratterizzate da importanti accumuli pluviometrici. Piogge non solo intense ma anche persistenti, favorite da una particolare configurazione meteorologica, definita "effetto Stau". Dalle prime analisi dei dati storici, osserva il Politecnico di Torino, sembra addirittura che’entità della precipitazione in 36 ore su quelle aree potrebbe non avere precedenti in tutto il periodo di osservazione, iniziato nel 1920.
E poi l'estensione dell'areale colpito, da Bologna alla Romagna, con l'esondazione di ben 23 fiumi, in alcuni casi anche di quelli protetti dalle casse di espansione. Questi bacini, che durante le piene consentono di raccogliere temporaneamente l'acqua in eccesso, sono presenti in misura maggiore nella pianura emiliana dove cominciarono ad essere installate a seguito dell'alluvione che nel 1973 colpì Reggio Emilia. In Romagna, considerata storicamente un territorio meno soggetto alle alluvioni, hanno cominciato a diffondersi in tempi più recenti e alcune di quelle che funzionano a pieno regime (come quelle costruite a Forlì lungo il corso del fiume Montone o la vasca di laminazione che si trova nel parco Golfera a Lugo) non sono state sufficienti a gestire in sicurezza la piena.
Se si analizzano i dati delle alluvioni in Italia negli ultimi 20 anni è comunque facile accorgersi che sono ben poche le regioni che non siano state interessate da almeno un episodio di rilievo. E andando più indietro nel tempo il pensiero va immediatamente ai drammatici eventi del Polesine del 1951 o all'alluvione del 4 novembre 1966 che mandò sott'acqua Firenze, Venezia e una buona parte del Veneto.
E' insomma inevitabile domandarsi se il nostro Paese stia gestendo il rischio idrogeologico in modo adeguato: più di dieci milioni di italiani vivono in zone esposte alla probabilità di fenomeni alluvionali (unendo i tre livelli di pericolosità stabiliti da Ispra) e la pianificazione territoriale non sempre ne tiene sufficientemente conto. A questo si unisce la necessità di rafforzare le misure preventive, sia attraverso opere strutturali sia con interventi non strutturali che comprendono, ad esempio, l'aggiornamento dei piani di emergenza e iniziative di sensibilizzazione rivolte alla popolazione.
Di queste tematiche abbiamo parlato con Andrea D'Alpaos, docente del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova ed esperto di ambienti fluviali e con Luca Carniello, docente del dipartimento di Ingegneria civile, edile e ambientale dell'università di Padova.
Andrea D'Alpaos e Luca Carniello approfondiscono il tema del rischio idraulico e i principali interventi di mitigazione. Servizio, riprese e montaggio di Barbara Paknazar
"Il territorio italiano per l'effetto combinato di caratteristiche idrologiche, in particolare un'estensione dei fiumi relativamente modesta rispetto ad altri contesti europei, caratteristiche geologiche e morfologiche è soggetto a fenomeni di dissesto idraulico e geologico. Le alluvioni si verificano quando eventi di precipitazione particolarmente importanti dal punto di vista della durata e dell’intensità producono portate che non possono essere convogliare verso valle dai corsi d’acqua. Il livello all’interno dei corsi d’acqua provoca così delle esondazioni, con l’allagamento delle superfici adiacenti, o addirittura delle rotture arginali con effetti ancora maggiori", introduce Andrea D'Alpaos, professore del dipartimento di Geoscienze dell'università di Padova.
La mappatura dell'Ispra
Per quanto riguarda l’esposizione del territorio italiano a fenomeni alluvionali la mappatura realizzata nel 2021 da Ispra fornisce un quadro aggiornato per i livelli territoriali amministrativi: nazionale, regionale, provinciale e comunale. L'esposizione alla pericolosità idraulica è infatti soggetta a forti variazioni spaziali, come abbiamo già visto in precedenza soffermandoci sull'Emilia-Romagna. Torniamo su questo punto insieme al professor D'Alpaos, soffermandoci adesso sul Veneto e sulla provincia di Padova. "In Italia le aree caratterizzate da una pericolosità elevata e quindi soggette ad eventi con tempi di ritorno relativamente bassi, tra 20 e 50 anni, sono il 5,4% del territorio. Questa condizione però varia spazialmente e infatti le aree a pericolosità elevata sono il 10% del territorio veneto e il 14% della provincia di Padova. Se poi invece si considerano aree a pericolosità media, quindi con tempi di ritorno tra i 100 e i 200 anni, si arriva al 10% del territorio nazionale, al 13% di quello veneto e al 20% del territorio della provincia di Padova. Se consideriamo eventi ancora più rari, con tempi di ritorno superiori ai 200 anni, la percentuale si alza al 14% per il territorio nazionale, al 32% per la regione Veneto e al 40% nel caso della provincia di Padova. Questo fa emergere come il territorio italiano sia esposto al rischio idraulico", osserva il docente.
Cosa intendiamo per rischio idraulico
Per rischio idraulico si intendono gli effetti indotti sul territorio dal superamento dei livelli idrometrici critici. A determinarlo sono "la pericolosità idraulica, la vulnerabilità e il valore degli elementi esposti. La pericolosità è la probabilità che un evento di una certa intensità si verifichi in un determinato territorio in un certo arco di tempo e questo dipende da sia da fenomeni naturali che dall’effetto di interventi antropici. I fenomeni naturali sono collegati anche alle caratteristiche climatiche di un certo territorio e quindi da questo punto di vista i cambiamenti climatici influiranno sulla pericolosità determinando eventi più intensi e più frequenti in futuro. Anche l’intervento antropico ha la sua influenza perché la gestione del territorio ma anche la sua mancata manutenzione incidono sulla pericolosità. Del resto una pianificazione non sempre attenta alle caratteristiche idrologiche del territorio ha portato ad aumentare la vulnerabilità della popolazione, degli edifici, delle infrastrutture e delle attività economiche", sottolinea il professor D'Alpaos.
Da questo punto di vista la continua trasformazione del territorio in un Paese in cui ogni giorno vengono consumati 16 nuovi ettari di suolo per costruire nuovi edifici e fabbricati ha certamente un suo peso anche in termini di aumentata esposizione al rischio, soprattutto nelle aree a a pericolosità idraulica, da frana e sismica.
Interventi (strutturali e non strutturali) per ridurre il rischio idraulico
Per quanto riguarda le possibilità di ridurre il rischio idraulico le indicazioni che rimangono valide sono sostanzialmente quelle che già la commissione De Marchi aveva stilato dopo gli eventi del 1966 e presentato nel 1970, spiega il professor Luca Carniello. A questi interventi strutturali vanno poi aggiunte le opere non strutturali che consentono di prevedere quando e con che intensità potrebbe avvenire un evento alluvionale, creando canali di comunicazione nella gestione di queste fasi emergenziali e mettendo così in sicurezza la popolazione.
"Le indicazioni sono potenziare e migliorare la stabilità dei rilevati arginali e la loro altezza in modo da poter contenere le piene, creare dei diversivi per distogliere una parte delle portate ed evitare che raggiunga un determinato territorio e costruire dei bacini di laminazione. Quest’ultima era la possibilità più fortemente suggerita dalla commissione", continua il docente del dipartimento Icea dell'università di Padova.
I bacini di laminazione, chiamati anche casse di espansione, sono delle vasche artificiali in cui convogliare, in modo controllato, l'acqua in eccesso quando la portata di un fiume aumenta ed evitare così che avvengano episodi di esondazione. Un ulteriore vantaggio consiste nella possibilità di riutilizzare l'acqua come riserva idrica nei periodi siccitosi.
"Questi interventi possono essere fatti in maniera piuttosto estesa su tutto il territorio. Il Veneto dopo il 2010 ha realizzato alcune di queste opere come la Cassa di Caldogno nel vicentino che è a servizio delle piene del fiume Bacchiglione. Tanto altro è ancora da fare e ci sono, ad esempio, alcuni interventi in fase di progetto, anche molto più importanti, come la Cassa della Grave di Ciano che è un invaso molto grande che potrebbe ospitare circa 30-35 milioni di metri cubi di acqua sul fiume Piave", continua Luca Carniello. Il dipartimento Icea dell'università di Padova è inoltre attualmente coinvolto in uno studio sul comportamento di un tratto del Bacchiglione dove è in programma la realizzazione della cassa di espansione di Viale Diaz, a monte di Vicenza.
Tornando all'alluvione in Emilia-Romagna abbiamo già accennato al fatto che il territorio romagnolo è stato storicamente meno protetto dalla presenza di queste opere rispetto all'area emiliana, ritenuta maggiormente a rischio di alluvioni. E in alcuni casi le casse di espansione presenti non sempre si sono rivelate del tutto efficaci: il punto, sottolineano molti esperti, è che le nuove vasche di laminazione vanno progettate e costruite sulla base di parametri idraulici che tengano conto delle nuove condizioni climatiche.
Un’altra tipologia di intervento strutturale sono i diversivi. "Un esempio famoso in Italia è la galleria Adige-Garda che è stata fatta sul fiume Adige per portare le piene direttamente al lago di Garda senza farle passare da Verona. E’ già entrata in funzione più volte dopo il 1966 e ha prodotto degli effetti benefici. Tornando al territorio veneto un altro esempio è la possibilità di completare l’idrovia Padova-Venezia per utilizzarla come diversivo per le acque del Brenta in modo da poter dare elasticità a tutto il nodo idraulico della città di Padova. Quest'opera consentirebbe di mettere in sicurezza anche il fiume Bacchiglione, riversandone in parte le piene in Brenta attraverso il canale San Gregorio-Piovego", continua il professor Luca Carniello.
L’ultimo intervento è la manutenzione degli argini soprattutto nell’ottica di evitare fenomeni di formazione di brecce. "In questo caso è decisamente importante, anche se difficile, conoscere e monitorare lo stato dei rilevati arginali e sapere in anticipo dove sono più deboli al fine di intervenire per rinforzarli ed evitare che nel corso della piana possano fallire".
Il professor Carniello si sofferma infine anche sugli interventi non strutturali che consentono di produrre allerte utilizzando la modellazione matematica. "A partire dalle previsioni meteo disponibili e applicando a cascata i modelli matematici, quindi idrologici e idraulici, è possibile sapere in anticipo quale sarà la risposta al suolo della perturbazione in arrivo. Questo consente, anche con 72 ore di anticipo, di mettere a disposizione le informazioni alla Protezione civile che a sua volta può mettere in campo una serie di azioni, come l’allerta e la messa in sicurezza delle persone presenti sul territorio".
In seguito agli eventi alluvionali che hanno interessato il Brenta e il Bacchiglione nel 2010 in Veneto un gruppo di scienziati del dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale dell’università di Padova ha sviluppato un sistema modellistico denominato IMAGe (Interfaccia e modello per l’allerta e la gestione delle piene) capace di prevedere in tempo reale l’evoluzione degli eventi di piena e le conseguenze prodotte sui territori adiacenti ai corsi d’acqua principali. "Esiste una catena modellistica che lavora presso il Centro funzionale decentrato della Protezione civile del Veneto con sede a Marghera e che permette appunto con un anticipo di 72 ore di produrre delle mappe e dei bollettini di allerta per pianificare le attività di protezione civile", spiega Carniello.
Per mettere in sicurezza un territorio particolarmente esposto al rischio alluvioni non c'è quindi un'unica soluzione ma una combinazione di interventi che passa anche attraverso la formazione di tecnici esperti nel settore, conclude il professor Andrea D'Alpaos ricordando a tale proposito le lauree in Geologia ambientale e dinamica della terra, presso il dipartimento di Geoscienze, le lauree in Ingegneria civile e idraulica e in Envinronmental engineering al dipartimento Icea e il corso di laurea magistrale in Water and Geological Risk Engineering, svolto in maniera congiunta e interdisciplinare da Icea, Geoscienze e Tesaf.