Da sinistra: Lorenzo Emo Capodilista, Beatrice Crinò, Gilberto Bernardini, Attilio Colacevich, Daria Bocciarelli
Bruno Benedetto Rossi, nato a Venezia nel 1905, è considerato uno dei giganti della fisica e dell’astrofisica del XX secolo. Dopo gli anni di formazione tra Padova e Bologna, iniziò la sua carriera scientifica tra Firenze e Padova, ma fu costretto ad abbandonare l’Italia nel 1938. Trascorso quindi un breve periodo prima a Copenhagen e poi a Manchester, Rossi andò negli Stati Uniti. Qui fu tra i protagonisti del cosiddetto “Progetto Manhattan” che portò alla realizzazione della prima bomba atomica. Nel 1946 fu infine chiamato al Massachusetts Institute of Technology (Mit), dove rimase per il resto della sua vita. La sua biografia scientifica inizia ad Arcetri, sul Colle di Galileo, “dove - come scrive Rossi nella sua autobiografia - nacqui e crebbi come scienziato”. E il suo legame con Firenze e Arcetri è attestato anche dal fatto che, dopo la sua morte a Cambridge, Massachusetts, nel 1993, venne sepolto al Cimitero delle Porte Sante a San Miniato al Monte.
Firenze, 1928-1932
Dopo aver seguito i primi due anni universitari a Padova, Rossi passa a Bologna dove si laurea nel 1927. Su suggerimento di Rita Brunetti, inizia la sua carriera accademica nel 1928 all’università di Firenze come assistente alla cattedra di fisica sperimentale, collaborando con un gruppo di fisici di cui ricorderà per tutta la vita il valore scientifico e l’amicizia. Citiamo tra questi Gilberto Bernardini, Giulio Racah, Daria Bocciarelli, Lorenzo Emo Capodilista, Guglielmo Righini e Giuseppe (Beppo) Occhialini.
A quel tempo la fisica conosceva un periodo di grande fermento. Ancora nei primi anni 1920 si era convinti che i costituenti ultimi della materia fossero solo l’elettrone e il protone, e faticosamente si era affermata l’idea che anche il fotone, il quanto del campo elettromagnetico, avesse molti caratteri di una particella. Tuttavia subito dopo la formulazione della meccanica quantistica (1925-26), i fisici si trovavano costretti a rivedere le loro idee sulla costituzione della materia e sul numero e la natura delle interazioni fondamentali: lo scenario teorico e le nuove evidenze sperimentali sembravano indicare la necessità di cambiamenti profondi. Un ruolo cruciale in questi sviluppi venne svolto dalla scoperta di Franz Hess che, tra il 1911 e il 1912, aveva messo in evidenza l’esistenza di una nuova sorgente extra-terrestre di radiazioni, chiamata nel 1925 da Robert Millikan “raggi cosmici”, nome ancora oggi in uso. Come si capì in seguito, grazie anche ai contributi di Rossi, i raggi cosmici arrivano sull’atmosfera dallo spazio (radiazione cosmica primaria), interagiscono quindi con i costituenti dell’atmosfera producendo cascate di particelle che vegono rivelate a terra o in atmosfera (radiazione cosmica secondaria).
Per diversi anni si pensò semplicemente che i raggi cosmici primari fossero raggi gamma, ossia fotoni di alta energia, la radiazione più penetrante conosciuta all’epoca, ma nel 1929 un esperimento svolto da Walther Bothe e Werner Kohlhörster aprì prospettive totalmente nuove sulla loro natura. I due fisici tedeschi osservarono le particelle ionizzanti presenti nella radiazione cosmica e ne studiarono il potere di penetrazione. Scoprirono che la maggior parte di queste particelle attraversavano uno schermo d’oro di 4,1 cm di spessore, dimostrandosi quindi enormemente più penetranti delle particelle secondarie che possono essere prodotte dalla radiazione g. Per svolgere l’esperimento, fu determinante l’impiego dei cosiddetti “contatori Geiger” o “Geiger- Müller”. Tali strumenti, già proposti nel 1908 da Hans Geiger e Ernest Rutherford, e perfezionati nel 1928 dallo stesso Geiger e da Walther Müller, erano basati sul potere ionizzante delle particelle cariche, e permettevano di rivelare e contare le particelle, una per una, tramite metodi elettrici. I contatori erano costituiti da un tubo conduttore sul cui asse era teso un filo metallico. Tra tubo e filo era applicata una tensione di alcune centinaia di volt, insufficiente di per sé a innescare una scintilla nel gas a bassa pressione che riempiva lo strumento. Se però il gas veniva attraversato da una particella carica che lo ionizzava, si produceva all’interno del tubo una scarica che veniva registrata da un elettrometro. Questo tipo di contatore conobbe una larga diffusione, e svolse un ruolo cruciale nello studio dei raggi cosmici.
L’esperimento di Bothe e Kohlhörster, segnò l’inizio di un’accesa discussione sulla natura dei raggi cosmici e aprì una controversia sulla loro natura: si trattava di onde elettromagnetiche di grandissima energia ossia raggi gamma, come sostenuto da Robert Millikan, o di corpuscoli? Insomma, come già era avvenuto nel corso del Settecento e fino ai primi decenni dell’Ottocento riguardo alla natura della luce, e ancora nella seconda metà dell’Ottocento in relazione alla natura dei “raggi catodici”, si riproponeva il dilemma onda-corpuscolo a proposito di una nuova fenomenologia fisica.
La scoperta di Bothe e Kohlhörster era una sfida al quadro interpretativo dominante, una sfida che Rossi raccoglie con entusiasmo. Nel giro di poche settimane il giovane scienziato veneziano inventa e pubblica il disegno di un circuito costituito da triodi e da contatori di Geiger-Müller che permette la registrazione automatica delle coincidenze fra diversi contatori. Vale la pena di notare che questo circuito di lì a poco diventerà uno degli elementi base dei moderni calcolatori elettronici (si tratta infatti essenzialmente di una porta AND). È l’inizio dell’utilizzazione dell’elettronica nell’ambito degli esperimenti nella fisica nucleare e subnucleare. Con il nuovo circuito, che sarà largamente utilizzato negli anni successivi da Rossi stesso e da moltissimi dei fisici che si interessano ai raggi cosmici, Rossi evidenzia lo straordinario potere di penetrazione delle particelle della radiazione cosmica attraverso strati di piombo di oltre un metro, e scopre che la radiazione cosmica produce nella materia con inaspettata frequenza gruppi di particelle che diventeranno note con il nome di sciami (in inglese, showers). Quest’ultimo risultato apparve così sorprendente che occorse l’intervento di Werner Heisenberg perché Rossi riuscisse a pubblicarlo qualche anno dopo.
Nell’estate del 1930, grazie a una borsa procuratagli da Garbasso, Rossi prosegue questi esperimenti in Germania nel laboratorio di Bothe al Reichsanstalt. I risultati ottenuti ad Arcetri e in Germania, vengono comunicati da Rossi al congresso di Roma del 1931, il primo congresso internazionale di fisica nucleare, aprendo in questa sede la controversia tra chi, come Rossi e Arthur Compton, sostiene la tesi della natura corpuscolare della radiazione cosmica primaria, e chi, come Millikan, continua a considerare la radiazione cosmica primaria come una radiazione g.
Una possibilità di risolvere la questione viene proposta dallo stesso Rossi mentre ancora si trova a Firenze. Essa è basata sullo studio dell’eventuale azione del campo magnetico terrestre sulla radiazione primaria. Nel caso in cui questa sia costituita da particelle cariche, si dovrebbero osservare due effetti: una diminuzione dell’intensità della radiazione avvicinandosi all’equatore magnetico (“effetto latitudine”), e un’asimmetria della radiazione rispetto al meridiano magnetico (“effetto est-ovest”, cioè una maggiore intensità della radiazione da oriente nel caso di una prevalenza di particelle di carica elettrica negativa, o da occidente per particelle positive). Sulla base della teoria di Rossi, l’asimmetria dovrebbe essere maggiore a minori latitudini geomagnetiche. Rossi stesso tenta subito una verifica sperimentale a Firenze nel 1931, ma invano. In un articolo, pubblicato nel 1933 in collaborazione con Enrico Fermi, il risultato negativo viene interpretato tenendo conto dell’assorbimento atmosferico: alla latitudine di Firenze e al livello del mare non è effettivamente possibile trovare nessuna asimmetria. È indispensabile effettuare le misure a latitudini sufficientemente basse e ad altezze sul livello del mare sufficientemente alte. Rossi propone allora una spedizione in prossimità dell’equatore magnetico, che riuscirà a concretizzare solo alcuni anni dopo.
Enrico Fermi e Bruno Rossi al Convegno di Fisica Nucleare della Regia Accademia d’Italia, Roma 1931
Padova, 1932 - 1938
Nel frattempo, nel 1932, Rossi viene chiamato sulla cattedra di fisica sperimentale dell’università di Padova, e qui introduce immediatamente le ricerche sui raggi cosmici. Si tratta per Padova di un settore completamente nuovo poiché Giuseppe Vicentini, titolare della cattedra di fisica sperimentale fino all’anno precedente, si era essenzialmente dedicato allo studio dei raggi X e alla sismografia. Le lezioni e la ricerca in fisica vengono in quegli anni svolte al Palazzo del Bo, sede storica dell’Università dal XVI secolo.
Nei sei anni di permanenza a Padova, prima di essere costretto a lasciare l’Italia nel 1938, Rossi svolge una fruttuosa attività almeno su tre fronti: la ricerca, la didattica e l’organizzazione. Sul fronte della ricerca consolida lo studio dei raggi cosmici, e inizia la costruzione di una acceleratore da 1 milione di volt che non sarà mai portata a termine; sul fronte della didattica forma una nuova generazione di giovani e valenti fisici; sul fronte infine dell’organizzazione, progetta e segue la realizzazione della costruzione del nuovo Istituto di fisica “Galileo Galilei”, attuale sede del Dipartimento di Fisica e Astronomia in Via Marzolo 8, uno dei più avanzati dell’epoca sia per concezione sia per strumentazione. Vale la pena sottolineare l’amarezza di Rossi nel dover lasciare Padova 1938, quando riceve, come ricorda lui stesso nel 1986, “quel documento che conservo ancora e in cui si dice che possono fare a meno di me all’Università. Un episodio drammatico - anche per il modo in cui si comportarono la stragrande maggioranza dei colleghi patavini - che lo porterà a trascurare negli scritti autobiografici il periodo padovano, menzionando solo di sfuggita le attività che vi svolse.
In realtà Rossi conduce in quegli anni ricerche importanti, naturale sviluppo di quelle iniziate ad Arcetri, di cui cita i risultati in lavori posteriori, evitando però spesso di fare esplicito riferimento a Padova. Basti pensare che risale al 1933 la spedizione in Eritrea finanziata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, intesa proprio a mettere in evidenza “l’effetto latitudine” e “l’effetto est-ovest”. Di fatto, una dipendenza dell’intensità della radiazione cosmica dalla latitudine magnetica era già stata osservata nel 1930 da Jacob Clay e nel 1932 da Compton. Quest’ultimo conduce numerose ricerche in svariate località. La spedizione italiana, diretta dallo stesso Bruno Rossi, conferma durante il viaggio in nave da Spalato a Massaua una graduale diminuzione di intensità della radiazione cosmica all’avvicinarsi dell’equatore magnetico.
Per quanto riguarda l’effetto est-ovest, viene finalmente studiato dalla missione italiana ad Asmara, in Eritrea, a un’altitudine di 2370 metri sopra il livello del mare e a una latitudine geomagnetica di 11°30’ nord. Le esperienze mostrano che, per un dato angolo zenitale, l’intensità dei raggi cosmici provenienti da occidente è decisamente superiore rispetto a quelli provenienti da oriente: si dimostra così che i raggi cosmici sono costituiti in prevalenza da particelle di carica positiva (oggi sappiamo che la stragrande maggioranza sono protoni, circa 90%, e nuclei di elio, circa il 9%). Purtroppo i ritardi con cui partì la spedizione, legati certo al trasferimento di Rossi a Padova ma specialmente alle difficoltà di ottenere per tempo i finanziamenti governativi (un’invariante nella storia del nostro Paese), costano a Rossi, con suo dispiacere, la priorità della scoperta. Infatti, poco prima dell’inizio degli esperimenti italiani, risultati simili vengono ottenuti da altri gruppi, quello di Thomas Johnson e quello di Compton. Tuttavia, secondo Rossi, l’effetto rivelato dagli altri gruppi era notevolmente più piccolo, e lasciava spazio all’ipotesi di Compton secondo cui solo una piccola porzione dei raggi cosmici è costituita di corpuscoli carichi positivamente. L’esperimento di Rossi costitusce in questo senso un contributo decisivo alla definizione della natura della radiazione primaria.
Sempre ad Asmara Bruno Rossi e il suo assistente, Sergio De Benedetti (anche lui come Rossi costretto a lasciare l’Italia qualche anno dopo dal regime fascista), osservano per primi un effetto anomalo che non possono all’epoca interpretare. Rilevano una diminuzione dell’intensità dei raggi cosmici nel passaggio attraverso l’atmosfera decisamente maggiore rispetto alle previsioni. Manifestano la loro perplessità sulla questione, ipotizzando che la radiazione cosmica primaria, oltre ai corpuscoli positivi, contenga in piccola parte anche radiazioni di altra natura. Solo nel 1937 si scoprirà che una parte della radiazione cosmica secondaria, quella caratterizzata dall’alto potere di penetrazione, è costituita da particelle all’epoca sconosciute chiamate allora con vari nomi (il più comune è mesotroni) e oggi note come muoni (leptoni µ). Hans Euler e Werner Heisenberg nel 1938 mostrano che l’ipotesi che si tratti di particelle instabili, con un tempo di decadimento dell’ordine del milionesimo di secondo, implica un’attenuazione anomala nell’atmosfera dovuta al decadimento in volo. Questa attenuazione, osservata da Rossi e De Benedetti nel 1933, verrà ulteriormente studiata da Rossi e David Hall nel 1941 con esperimenti che verificano per la prima volta la dilatazione dei tempi prevista dalla relatività ristretta.
Infine, altro risultato rilevante della spedizione in Eritrea è la prima congettura dell’esistenza nella radiazione secondaria di grandi sciami (o sciami estesi) di particelle generati nell’atmosfera, una congettura legata alla frequenza di coincidenze tra contatori lontani troppo elevata per essere dovuta solo a coincidenze casuali. È proprio Rossi a proporre l’ipotesi che ogni tanto arrivino sugli apparecchi sciami molto estesi di particelle. La conferma dell’ipotesi di Rossi dell’esistenza di sciami estesi arriverà alla fine degli anni 1930 dagli studi di Pierre Auger e Roland Maze, che ne analizzeranno per primi la struttura e le dimensioni. Vale la pena notare che i grandi sciami dell’atmosfera si riveleranno preziosissimi nell’ambito dello studio - svolto dallo stesso Bruno Rossi e dai suoi collaboratori negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni 1940 - della parte dello spettro di radiazione cosmica di alta energia: infatti non disponendo di rivelatori adeguati per particelle di così alta energia (assai superiore al miliardo di eV), le misure sui grandi sciami permetteranno indirettamente di risalire all’energia della particella primaria. Come Rossi scriverà anni dopo, nel 1982, “gli esperimenti sui raggi cosmici in atmosfera costituiscono l’unico mezzo disponibile per rivelare le particelle primarie dei raggi cosmici di altissima energia e per determinare il loro spettro di energia e la loro direzione di provenienza”. E oggi, nel momento in cui la fisica degli acceleratori segna il passo anche a causa degli enormi costi degli impianti, si assiste a un ritorno di interesse nel settore in particolare proprio nell’analisi degli sciami estesi di raggi cosmici a terra: le loro energia sono infatti ben al di sopra di quelle prodotte negli acceleratori di particelle (compreso il Large Hadron Collider di Ginevra).
Oltre agli studi relativi agli esperimenti di Asmara, Rossi svolge a Padova, in collaborazione con giovani ricercatori come De Benedetti e Angelo Drigo, ulteriori ricerche sui raggi cosmici. In particolare, sempre impiegando il metodo dei contatori, conduce una serie di esperimenti sulla generazione degli sciami nella materia mostrando che vengono prevalentemente prodotti non già dalla radiazione penetrante fino ad allora osservata a livello locale, ma da raggi poco penetranti, cioè rapidamente assorbiti, di cui non si conosce la natura. Con l’introduzione della teoria proposta da Hans Albrecht Bethe e Walter Heitler nel 1934, ma soprattutto con i lavori del 1937 di Homi Jehangir Bhabha e Heitler, e di J. F. Carlson e J. Robert Oppenheimer, tali raggi verranno identificati come elettroni e fotoni di alta energia.
Nell’aprile del 1938 Bruno Rossi sposa Nora Lombroso, nipote del noto antropologo Cesare Lombroso. Tuttavia pochi mesi dopo, nel settembre del 1938, Rossi viene privato della sua cattedra a causa delle leggi razziali e costretto a espatriare. Nessuno va a salutarlo salvo il portiere dell’Istituto di Fisica, Mario Calore, al quale Rossi rimarrà sempre riconoscente. Queste vicende segneranno la sua vita e fanno capire la sua presa di distanza dal periodo padovano. E non è un caso che Rossi nel 1987, quando tornerà a Padova in occasione del cinquantennale della fondazione dell’Istituto di Fisica patavino, non vorrà mettervi piede.
Da Padova agli Stati Uniti d’America
I coniugi Rossi lasciano l’Italia in ottobre alla volta di Copenhagen dove vengono accolti all’Istituto di Niels Bohr. Probabilmente anche per dare una mano al giovane collega, Bohr organizza a Copenhagen un convegno che offre l’opportunità a Rossi di incontrare vari fisici che si occupano di raggi cosmici, tra i quali Patrick Blackett che invita lo studioso italiano ad andare a Manchester. Poche settimane dopo Rossi dà seguito all’invito di Blackett. A Manchester Rossi sarà coinvolto in vari esperimenti, e in particolare in uno, svolto con lo scienziato ungherese Lajos (germanizzato in Ludwig) Janossy, nel quale utilizza per la prima volta il metodo dell’anti-coincidenza nella misura di assorbimento di fotoni di alta energia nel piombo.
All’inizio del 1939 Compton invita Rossi a partecipare a una conferenza estiva sui raggi cosmici all’Università di Chicago. Rossi accetta l’invito, ma lui e la moglie non lo fanno a cuor leggero: hanno infatti l’amara consapevolezza che stanno lasciando l’Europa probabilmente per sempre. Rossi arriva quindi negli USA nel giugno del 1939 e, subito dopo la conferenza, propone a Compton di fare un esperimento in alta quota per arrivare a una definitiva risposta riguardo all’instabilità del mesotrone, uno dei temi discussi nella conferenza. Compton non solo accetta la proposta di Rossi, ma suggerisce di non perdere tempo per evitare che con l’arrivo dell’inverno la neve impedisca l’accesso in alta quota. Rossi in poco più di un mese mette a punto l’apparato sperimentale, formato da contatori Geiger-Müller e circuiteria. Con l’aiuto di due giovani assistenti, Norman Hilberry e Barton Hoag, allestisce un autobus per trasportare l’apparato sperimentale, insieme a una tonnellata di piombo e grafite, sulla cima del monte Evans (4348 m) in Colorado raggiungibile con una strada. I dati ottenuti a varie quote, dalla base alla cima della montagna, mostrano che l’intensità di mesotroni si attenua più rapidamente in aria che in un quantitativo equivalente di grafite. L’attenuazione più marcata in aria non può che essere attribuita, come ipotizzato da Euler e Heisenberg, al decadimento in volo dei mesotroni la cui vita media è stimata dell’ordine del milionesimo di secondo: è la prima prova sperimentale dell’instabilità di una particella fondamentale.
Intanto, nell’autunno del 1940, Rossi si sposta alla Cornell University dove Bethe gli ha offerto un posto di professore associato. È qui che Rossi ottiene la prima misura precisa della vita media del mesotrone a riposo. Per realizzare l’esperimento Rossi inventa un altro dispositivo elettronico che si rivelerà di fondamentale importanza per la fisica: il convertitore tempo-ampiezza (oggi noto come TAC, acronimo di “Time-to-Amplitude Converter”). Rossi e un giovane laureato, Norris Nereson, utilizzano un’opportuna configurazione di contatori Geiger-Müller collegati a circuiti di coincidenza e anti-coincidenza per rivelare mesotroni, che vengono fermati in uno strato assorbitore e quindi decadono con l’emissione di elettroni. Il TAC serviva a misurare il tempo che intercorre tra il momento in cui il mesotrone viene fermato nell’assorbitore e il momento in cui decade. In questo modo i due studiosi ottengono un valore della vita media del mesotrone a riposo pari a 2,15 ± 0,07 milionesimi di secondo, in accordo con le migliori stime odierne della vita media del muone. Il TAC sarà uno dei dispositivi utilizzati di lì a poco nelle ricerche segrete condotte a Los Alamos nell’ambito del “Progetto Manhattan” per la realizzazione della bomba atomica, e per questo la pubblicazione dell’articolo che descrive l’invenzione di Rossi avverrà solo nel 1946, dopo la fine della guerra.
Nel 1943 Rossi viene chiamato a Los Alamos. Come scrive nella sua autobiografia:
L’invito a partecipare a Los Alamos mi era stato portato da Hans Bethe ai primi di luglio. Seguì un periodo di grande, penosa incertezza. Potevo facilmente immaginare quello che si stava facendo a Los Alamos, e rifuggivo dall’idea di partecipare allo sviluppo di un ordigno così spaventoso come sarebbe stata la bomba atomica. D’altra parte ero terribilmente preoccupato, così come molti altri, dal pericolo che in Germania, dove era stata scoperta la fissione, si fosse vicini a realizzare la bomba. Essendomi rassegnato al fatto che né accettando né rifiutando la richiesta di Los Alamos potevo sottrarmi a una pesante responsabilità, vidi che la scelta non poteva essere basata che sulla necessità di combattere l’immediato pericolo.
A Los Alamos Rossi viene incaricato di dirigere insieme a Hans Staub il “gruppo dei rivelatori” o “gruppo P6” (il gruppo numero 6 della Divisione di fisica diretta da Robert Bacher), che doveva sviluppare e produrre rivelatori di radiazioni. Senza entrare nella storia del Progetto Manhattan, riportiamo solo le parole con le quali Rossi ricorda nella sua autobiografia il suo stato d’animo quando il 16 luglio 1945, dopo la prima esplosione di una bomba atomica nel deserto vicino alla base di Trinity, sta tornando a Los Alamos:
Poco dopo l’esplosione partii per Los Alamos, un viaggio di circa 350 miglia. Con me in macchina c’erano Benjamin Diven, Otto Frish e una WAC [Corpo ausiliario femminile dell’esercito]. [...] Uno dopo l’altro i miei passeggeri caddero addormentati, e così io venni lasciato solo con i miei pensieri. Fino ad allora, la pressione del lavoro era stata tale che non avevo avuto tempo di riflettere. Ora, il terribile significato di quanto avevamo fatto mi colpì in pieno. Debbo confessare che, di tanto in tanto, provavo una certa soddisfazione per aver partecipato, sia pure in piccola misura, a un’impresa così incredibilmente difficile, di tale importanza storica. Ma questo sentimento veniva presto sopraffatto da un senso di colpa e da una terribile ansietà per le possibili conseguenze del nostro lavoro. Sentimenti questi che vennero riacutizzati quando, alcuni giorni dopo, seppi della distruzione di Hiroshima e di Nagasaki. Io, come molti dei miei colleghi, avevamo sperato che la bomba sarebbe stata usata in una dimostrazione incruenta, per indurre il Giappone alla resa.
Finita la guerra, Rossi accetta un posto di professore al Mit. Intorno a lui si riuniscono da subito molti valenti giovani fisici che avevano dovuto interrompere la formazione post laurea a causa della guerra. Si costituisce così il nucleo di quello che diventerà il gruppo di ricerca sui raggi cosmici al MIT. Alle ricerche del gruppo Rossi inviterà a partecipare negli anni, per periodi più o meno lunghi, giovani laureati o scienziati già affermati provenienti dall’Europa e dall’Asia, come Charles Peyrou, Raymond Stora e Piero Bassi. Si crea in tal modo una comunità cosmopolita nella quale nasceranno durature collaborazioni e relazioni internazionali. I settori su cui Rossi concentra le ricerche del gruppo sono essenzialmente tre. Il primo riguarda la natura, l’origine e lo spettro di energia della radiazione primaria. Il secondo settore è relativo al modo in cui i raggi cosmici si propagano attraverso l’atmosfera. Il terzo, infine, concerne l’individuazione di quali nuove particelle vengano prodotte nelle interazioni di alta energia dei raggi cosmici. Sono tre fondamentali settori sui quali le ricerche erano state interrotte a causa dello scoppio della guerra.
In tutti e tre questi settori il gruppo ottiene risultati rilevanti. Tuttavia la fine degli anni ’50, con l’avvento dei grandi acceleratori, segna anche la fine del predominio dei raggi cosmici nelle ricerche sulle interazioni nucleari di alta energia e sulle particelle create in queste interazioni. Certo, osserva Rossi nella sua autobiografia, rimanevano da esplorare altri aspetti della radiazione cosmica, come gli sciami estesi o le variazioni temporali connesse con l’attività solare o dovute ad altre cause, ma questi problemi “non bastavano a colmare il vuoto lasciato dalle ricerche trasferite agli acceleratori”. In quegli stessi anni però, prosegue Rossi, per una “fortunata coincidenza” si stavano perfezionando le tecniche dei voli spaziali che “aprivano un campo di ricerca completamente nuovo”. Una certa affinità, sia nei problemi scientifici sia nelle tecniche sperimentali, tra le ricerche sui raggi cosmici e quelle di fisica spaziale favorisce il passaggio di molti dei fisici impegnati nei raggi cosmici all’astrofisica. Anche Rossi si impegnerà in questa nuova direzione, concentrandosi sullo studio del plasma interplanetario e sulla ricerca di sorgenti di raggi X esterne al sistema solare, due settori che di fatto vengono inaugurati proprio dai gruppi che lavorano con Rossi al MIT. Nel primo settore, quello del plasma interplanetario, Rossi insieme ad Alberto Bonetti, Herbert Bridge, Alberto Egidi e altri colleghi ottiene nei primi anni 1960 due fondamentali risultati: la prima osservazione diretta del vento solare e una misura della sua velocità; la prima osservazione della “cavità geomagnetica” (una regione dietro la Terra che è schermata dal vento solare dal campo magnetico terrestre) e la misura delle sue dimensioni. Nel campo dell’astronomia a raggi X, Rossi insieme a Riccardo Giacconi, un allievo di Beppo Occhialini che si era trasferito negli Stati Uniti, e altri colleghi individua nel 1962 la prima sorgente di raggi X esterna al sistema solare. I risultati ottenuti in entrambi questi settori segnano l’inizio di campi di ricerca ancora oggi fiorenti anche grazie alla spinta degli epigoni di coloro che avevano intrapreso le originali ricerche con Rossi.
Insieme a Fermi, Rossi è l’altro grande protagonista della rinascita della fisica italiana negli anni 1930. Se il valore della scuola italiana di fisica è oggi di assoluto rilievo a livello internazionale lo si deve prima di tutto a loro. L’eredità lasciata da Rossi e Fermi non risiede solo nel valore indiscutibile dei loro contributi scientifici, ma anche nella loro dedizione alla formazione dei giovani scienziati. Il filo d’Arianna del percorso scientifico di Rossi è quella che Einstein definì nella sua autobiografia la “meraviglia” che “si manifesta quando un’esperienza entra in conflitto con un mondo di concetti che noi consideriamo già sufficientemente stabile. Ogniqualvolta sperimentiamo in modo aspro e intenso un simile conflitto, il nostro mondo intellettuale reagisce in modo decisivo”. Quanto espresso da Einstein è molto simile a quanto Rossi scrive nella Prefazione alla sua autobiografia: “i momenti per me più entusiasmanti sono quelli in cui un mio esperimento ha dato un risultato incompatibile con le previsioni; una prova, questa, di quanto la ricchezza della natura superi l’immaginazione dell’uomo”.