Un fotogramma del film "L'allenatore del pallone" con Lino Banfi
È una domanda antica, e riguarda tutti i linguaggi espressivi: è conciliabile il carattere di autore, con una sua visione del mondo, una sua poetica, con le regole, più o meno strette, di un genere? Interrogativo antico ma anche abbastanza consumato, visto come sono andate storicamente le cose. Ma le opposte fazioni non hanno depositato le armi polemiche.
Permangono, per usare una formula collaudata, gli apocalittici, che negano che la creatività possa stare assieme a un apparato, e gli integrati, che fanno presente la labilità dei confini tra originalità e predisposizione, e hanno compito facile a esibire copiosi esempi lungo tutta la storia dell’arte. Poi ci sono gli entusiasti, che si sono rinforzati negli ultimi anni: tanto più un prodotto rispetta le regole tanto più va apprezzato, fanno anche un ulteriore passo, tanto meglio se c’è sentore di trash. Siamo, per quel che riguarda il cinema, all’apologia dei b-movies, forti magari dell’appoggio di un regista, peraltro discutibile, come Tarantino.
In realtà le cose sono più complesse rispetto a questi schieramenti. Intanto perché costruire bene, o molto bene, un’opera ascrivibile a un genere è già un pregio notevole. Tanto per fare un esempio, si può dire che Il traditore di Bellocchio è un ottimo film di genere; niente di più ma anche niente di meno. Anche perché c’è di mezzo il mestiere, che è una componente che va sempre presa in considerazione. E poi ci sono quelli che mescolano le carte, contaminano le regole, mettono assieme commedia e avventura, giallo e ritratto psicologico, e via dicendo. Operazione spesso originale. Comunque la si pensi, resta il fatto che i generi recepiscono spesso un gusto diffuso, e sono anche una garanzia, più o meno collaudata, di tipo economico. Basti pensare al cinema americano, ma anche a quello italiano.
Riprova di questo è la proposta dell’ultima Mostra del nuovo cinema di Pesaro, cioè di quella che è stata per anni (e in parte lo è ancora) il più significativo appuntamento periodico di casa nostra. Per lungo tempo è stata votata all’autorialità, con fondamentali “scoperte”, e sede di esemplari retrospettive proprio su grandi registi italiani. Quest’anno, a giugno, tutta la rassegna (proiezioni, incontri, convegno) è stata dedicata ai generi nostrani, con l’accompagnamento, come da tradizione, di un ampio volume storico-critico (Pedro Armocida-Boris Sollazzo – a cura – Ieri, oggi, domani. Il cinema di genere in Italia, p. 351, Marsilio editori). Premessa alla lettura è una considerazione non solo “mercantile”: per tanto tempo (anni' 60 e '70) il nostro cinema si è retto, non solo economicamente, in particolare grazie all’apporto dei generi, due in particolare, uno “autoctono”, la commedia (con le “punte” avanzate di Risi, Scola, Monicelli, Comencini, Ferreri, Germi, Pietrangeli, per intederci, e poi i tanti minori)) e uno di importazione “adattata”, il western “all’italiana”.
Il quadro che viene fuori dal libro è complesso. Degli autori citati però, cui si deve un originale ritratto dell’Italia che cambiava, nel libro di parla poco, nella convinzione che c’è un’amplia bibliografia in proposito. Si è preferito rivolgersi ai mestieri meno originali, tutti dentro alla macchina cinema, spesso con buoni risultati al botteghino. Non tutti conoscono i nomi di Freda, Bava, Fulci, Sollima, Castellari, Corbucci, ma hanno avuto un loro peso. Poi però c’è una schiera di registi uno scalino sotto, e in questa direzione la lista è davvero lunga. Anche un addetto ai lavori rischia di non conoscerne una metà; per sua colpa, naturalmente.
Il volume cerca di muoversi tra gli opposti rischi, da un lato il distacco elitario verso i prodotti “popolari”, dall’altro l’esaltazione, o quasi, del banale. Francamente, per esempio, trovo difficile qualificare come “adorabile” un film come L’allenatore nel pallone del “mitico” Sergio Martino (Walter Veltroni dixit). La propensione quindi è più verso i prodotti di maniera, verso il gusto corrivo, con il forte pericolo di cadute critiche che risentono di rivalutazioni à la page.
Resta comunque l’interrogativo di fondo: sarà con queste forze che il cinema italiano riuscirà, anche economicamente, a uscire dalla secche attuali? Ho forti dubbi.