SOCIETÀ

Il colpo di stato in Guinea e l'instabilità dell'Africa occidentale

La storia si ripete, come un’ossessione: un presidente eletto deposto con le armi da un manipolo di ufficiali delle forze speciali, i cortei nelle strade, sui blindati, indossando mimetiche e con le armi in bella vista, in un mare di folla in festa. E le solite, immancabili, promesse: «Si apre oggi una nuova era per il governo e per lo sviluppo economico del nostro paese. È la vittoria del popolo contro la dittatura». L’ultimo capitolo di questa storia, che sempre più spesso attraversa l’Africa occidentale, è ambientato in Guinea, uno dei paesi più poveri del mondo nonostante sia tra i principali produttori di bauxite, un materiale indispensabile per la produzione dell’alluminio. Fino a domenica scorsa il presidente era Alpha Condé, 83 anni, salito al potere nel 2010 con la promessa di combattere la corruzione e di garantire al paese uno sviluppo democratico. Per i primi due mandati, da 5 anni l’uno, era anche riuscito a mantenere il suo obiettivo, al netto di qualche tentativo di farlo fuori (nel 2011 uomini armati avevano sparato razzi e granate nella sua camera da letto), dei suoi metodi poco democratici per silenziare gli oppositori e delle ricorrenti accuse di aver truccato gli esiti elettorali. Ma la mossa di modificare la Costituzione per garantirsi una terza elezione (lo scorso dicembre aveva giurato per il nuovo mandato) aveva nuovamente acceso i toni della ribellione, con scontri violentissimi e decine di vittime. Fino all’epilogo di domenica. Con il leader dell’opposizione, Cellou Dalein Diallo, sconfitto alle ultime elezioni (ottobre 2020), che non ha esitato ad appoggiare pubblicamente il golpe militare: «E’ un atto storico che completa la lotta avviata dai movimenti della democrazia. Un'opportunità per un nuovo inizio per il paese», ha commentato Diallo, intervistato dalla Bbc. «Ma è Alpha Condé ad aver creato la crisi che lo travolto: se non avesse cambiato la costituzione per farsi rieleggere la sua fine non sarebbe stata così drammatica», ha precisato al Financial Times.

A tradire il presidente è stato un suo fedelissimo, secondo il più classico dei cliché. Il colonnello Mamady Doumbouya, 41 anni, capo delle forze speciali, un colosso d’uomo, ex legionario francese tornato in Guinea tre anni fa, era riuscito a conquistare la fiducia di Alpha Condé, scalando rapidamente le gerarchie interne. Fino a poter contare sull’appoggio necessario a realizzare il colpo di stato. Doumbouya, circondato dai suoi soldati, è poi apparso in diretta su Rtg, il canale radio-televisivo nazionale, dove ha annunciato di aver preso il potere, di aver posto in stato di fermo il presidente Condé (qui un video che lo ritrae dopo la cattura) e di aver agito per contrastare «la corruzione dilagante e la povertà». Poi le prime misure: sciolto il governo, governatori sostituiti dai militari, cancellata la Costituzione, frontiere chiuse (soltanto per due giorni, poi sono state riaperte, come anche i voli), coprifuoco notturno fino a nuovo ordine. «Il dovere di un soldato è salvare il suo Paese», ha dichiarato con tono grave il colonnello Doumbouya nel suo primo discorso, avvolto in una bandiera guineana. «Non sono stati fatti abbastanza progressi economici dall’indipendenza dalla Francia nel 1958. Se vedi lo stato delle nostre strade, se vedi lo stato dei nostri ospedali, ti rendi conto che dopo 63 anni è ora di svegliarsi. La personalizzazione della vita politica è finita. Non la affideremo più a un uomo, la affideremo al popolo». I golpisti hanno riferito che il leader deposto è al sicuro, sotto la loro custodia, in buona salute, ma senza specificare dove si trova e soprattutto quando potrà tornare in libertà. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, è subito intervenuto: «Condanno fermamente ogni acquisizione del governo con la forza delle armi e chiedo l’immediato rilascio del presidente Alpha Condé», ha dichiarato. Condanne anche dall’Unione africana e dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) che ha sospeso l’adesione della Guinea. Mentre “preoccupazione” è stata espressa singolarmente da molti stati, a partire da Russia e Stati Uniti, e dall’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell. Il colonnello golpista si è poi affrettato a garantire “ai partner economici e finanziari che le attività nel Paese continuano normalmente”.

Un golpe pieno di zone grigie

A Conakry, capitale della Guinea, la situazione è apparentemente tranquilla, quasi sospesa in attesa di capire cosa accadrà nel breve periodo, e soprattutto quali saranno gli effetti, anche a livello pratico, del colpo di stato. Il colonnello Doumbouya si è limitato ad annunciare, genericamente, l’avvio di una «consultazione per stabilire i parametri della transizione: poi verrà istituito un governo di unione nazionale, il Comité National du Rassemblement et du Développement, per guidare la transizione», senza specificare tuttavia tempi e modi. Ha poi tranquillizzato gli ex ministri del governo («non ci sarà una caccia contro gli ex funzionari»), ma intimando loro di non lasciare il paese e di restituire i veicoli ufficiali ai militari. Infine ha annunciato che rilascerà i detenuti politici imprigionati dal presidente deposto. Ma il golpe presenta diverse zone grigie, in un paese “guidato” dalla storica rivalità tra i due gruppi etnici principali: i Malinké (che spesso occupano i posti chiave nella politica) e i Fulbhé (più imprenditori che politici). Ma sia il presidente Condé, sia il colonnello Doumbouya appartengono all’etnia Malinké. Dunque, chi c’è davvero dietro al colpo di stato? E qual è il progetto del nuovo leader? Militare esperto, sì, ma come politico nessuno lo conosce.  Anche ammesso che il governo di unità nazionale riesca a portare il paese a nuove elezioni, cosa faranno i leader militari? Un passo indietro o si proporranno come candidati? Mamoudou Nagnalen Barry, membro fondatore del Fronte nazionale per la difesa della Costituzione, un movimento di opposizione, ha ammesso alla Bbc di provare sentimenti contrastanti per il colpo di stato: «Dirò che sono tristemente contento di quel che è successo. Non posso essere felice con un colpo di stato, ma il paese era bloccato per colpa di una persona che sperava di rimanere al potere per sempre. Spero che ora i militari restituiscano il potere ai civili».

La dannazione dell’Africa occidentale

Uno schema che si ripete con drammatica frequenza nei paesi dell’Africa occidentale, attraversati da un’instabilità sempre più vasta e pericolosa che impedisce qualsiasi forma di sviluppo. Dall’ingovernabile caos del Mali, che continua a vivere colpi di stato (due in un anno, sempre ad opera dei militari) di fronte al quale la Francia ha deciso un ritiro delle truppe non privo di rischi, al dilagare senza confini del movimento terrorista islamista Boko Haram (dalla Nigeria al Niger, dal Ciad al Camerun); dalle violentissime azioni dei ribelli nel nord del Burkina Faso fino all’omicidio in Ciad, lo scorso aprile ad opera dei ribelli, del presidente Idriss Déby, considerato un baluardo della lotta contro l’estremismo islamista in Africa centrale (e perciò sostenuto da Francia e Stati Uniti nonostante le accuse di violazione dei diritti umani). Con le violenze sempre più aperte dei gruppi islamisti nel Sahel, nei confronti sia di militari sia di civili, al punto che i ministri della Difesa dei paesi del “5G Sahel” (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger) stanno pianificando operazioni militari congiunte.

C’è perfino un punto di contatto tra i colpi di stato in Mali e in Guinea, ed è nel curriculum dei protagonisti. Il presidente di transizione maliano, Assimi Goïta, e il colonnello Mamady Doumbouya si conoscono bene: hanno entrambi partecipato alle esercitazioni "Flintlock" dell’US Africa Command, organizzate dagli Stati Uniti in Burkina Faso nel 2019 “per rafforzare la capacità delle principali nazioni partner nella regione di contrastare le organizzazioni estremiste violente”.

Molto di quel che accadrà da qui a breve in Guinea dipenderà dall’atteggiamento delle istituzioni esterne. E’ molto probabile che dall’ECOWAS e dall’Unione africana possano arrivare sanzioni mirate, ormai una prassi in presenza di colpi di stato, come abbiamo visto assai frequenti nell’area: per la Guinea l’ultimo golpe risaliva al 2008, ad opera del capitano Moussa Dadis Camara. L’anno successivo, il 28 settembre 2009, le forze di sicurezza guineane alla sua diretta dipendenza si resero responsabili di un atroce massacro di massa rimasto ancora oggi impunito. Aprirono il fuoco contro un gruppo di oppositori a Camara, gran parte dei quali di etnia Fulbhé, che si erano riuniti nello stadio di calcio della capitale per manifestare pacificamente: le vittime furono 157, mentre oltre cento donne furono selvaggiamente stuprate sul posto dai militari. Un attacco premeditato, secondo la successiva inchiesta di Human Right Watch.

Il business “privato” della bauxite

Tornando a oggi, il colpo di stato ha acceso più di qualche timore per le forniture di bauxite (la Guinea è il quarto produttore al mondo, qui il report 2021), soprattutto nei paesi che beneficiano delle sue esportazioni, a partire dalla Cina, che ne acquista più della metà del totale estratto. Ma nonostante le rassicurazioni del colonnello Doumbouya, e le conferme che le estrazioni nelle miniere procedono regolarmente (dal coprifuoco imposto dai golpisti sono escluse proprio le miniere, per non interrompere la produzione, troppo importante), il prezzo dell’alluminio sul London Metal Exchange ha registrato un’impennata, superando quota 2.777 dollari alla tonnellata e il record di 2.741 raggiunto nell’aprile 2011. L’aumento annuale è del 40%. Il timore è che la giunta militare voglia “trattare” nuove condizioni per la vendita dell’oro rosso guineano. Il business con la sola Cina è stimato oggi in 3 miliardi di dollari l’anno. La prima compagnia mineraria del paese, la Smb, è cofinanziata dai cinesi. Altre compagnie presenti in Guinea sono la Chalco (Aluminium Corp of China), la Top International Holding di Singapore (che possiede due miniere, a Boke e Boffa, con “interruzioni minime”) e la Compagnie des Bauxites de Guinée (CBG), di cui è comproprietario il gigante statunitense dell’alluminio Alcoa. Anche il Cremlino (che con l’ex presidente Condé aveva un particolare feeling) è intervenuto con una nota dichiarando di “seguire da vicino gli sviluppi della situazione politica in Guinea e di sperare che gli interessi economici russi non ne risentiranno”. Questione d’interessi: la Russia controlla tre importanti miniere di bauxite e una raffineria di allumina. Per la Guinea si tratta comunque di un enorme business, l’unico in grado di “muovere” le cifre del Pil, che nel 2010, quando Alpha Condé è salito al potere era al 4,8%, raggiungendo il 5,6% nel 2012 e il 10,8 nel 2016. Anche nel 2020, in piena pandemia, la crescita economica della Guinea è stata del 7%. Ricchezza che tuttavia non incide sul tenore di vita dei guineani. Si calcola che il 71% della popolazione viva con meno di 3,20 dollari USA al giorno. Il World Population Review stima che il 43,7% dei 13,5 milioni di abitanti della Guinea viva al di sotto della soglia di povertà estrema, vale a dire senza la possibilità di garantirsi stabilmente cibo, vestiti, un riparo. Secondo un rapporto della Banca Mondiale, solo il 30% degli abitanti della Guinea è alfabetizzato, mentre la spesa del governo per l’istruzione non supera in media il 2,6% del PIL (a fronte di un indicatore medio per l’Africa subsahariana del 4,6%). Drammatica, infine, anche la situazione sanitaria, tra la pandemia (circa trentamila contagi registrati, con 358 decessi “ufficiali” e con appena il 3,1% della popolazione vaccinata), l’epidemia di febbre Ebola e il recentissimo timore di una diffusione del virus di Marburg. Un sistema fragilissimo (non soltanto in Guinea, ma in tutta l’Africa occidentale), che rischia di crollare di fronte a emergenze di questa gravità.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012