SCIENZA E RICERCA

Comorbidità: i vantaggi dell’approccio integrato, anche contro Covid-19

Almeno la metà della popolazione europea di età superiore ai 65 anni, per un totale di oltre 50 milioni di persone, convive con due o più malattie croniche e nel Regno Unito le previsioni sostengono che nel 2035 la percentuale salirà al 68%, rispetto al 54% registrato nel 2015. Partendo da questa considerazione, un articolo recentemente pubblicato su Nature riflette sull'opportunità di sviluppare un approccio maggiormente integrato e multidisciplinare, superando così la tendenza a trattare la comorbidità in modo separato e ad affidare le singole problematiche esclusivamente ai rispettivi specialistici. Gli autori, Christopher J. M. Whitty, epidemiologo britannico che è a capo del National Institute for Health Research, e Fiona M. Watt, dirigente del Medical Research Council di Londra, sottolineano che ad aver limitato la capacità di affrontare patologie che si manifestano simultaneamente è il fatto che per molto tempo queste combinazioni sono state considerate casuali, mentre in realtà spesso le malattie tendono a raggrupparsi intorno a un comune fattore di rischio. Uno dei pochi esempi tradizionalmente approfonditi è il diabete del quale sono note le possibili complicanze a livello epidermico, del sistema nervoso periferico, del cuore e della vista. Ma i collegamenti tra più patologie coesistenti possono essere molti altri e occorre studiare queste relazioni in modo approfondito, anche perché - sottolineano gli autori - oggi possiamo contare sui progressi nei metodi statistici, sulla disponibilità dei dati delle cartelle sanitarie elettroniche e sulle potenzialità del machine learning. L'articolo pone l'attenzione anche sul fatto che la ricerca, i team clinici e la formazione sono organizzati principalmente intorno a singole malattie o a sistemi di organi. Inoltre, le persone con più di una patologia pregressa vengono escluse dai trail clinici che si effettuano per testare nuove medicine e questo comporta una limitata conoscenza degli effetti dei farmaci sui pazienti che hanno problematiche multiple. 

Il tema della comorbidità è al centro delle riflessioni anche rispetto all'emergenza sanitaria legata a Covid-19. I report con cui, due volte a settimana, l'Istituto superiore di sanità approfondisce le caratteristiche dei pazienti deceduti positivi al coronavirus - l'ultimo bollettino è del 30 marzo e si basa su un campione di 10.026 persone decedute - forniscono informazioni che vanno dai dati demografici, ai sintomi maggiormente osservati, dalle complicanze ai tempi che intercorrono tra la manifestazione dei sintomi e la morte. Una sezione del report illustra la distribuzione delle più comuni patologie croniche preesistenti, diagnosticate prima che i pazienti contraessero il virus da SARS-CoV-2 e, anche se l'analisi di questo specifico dato si riferisce solo a 909 cartelle cliniche, quindi meno del 10% del campione totale, è possibile osservare quali comorbidità fanno aumentare la pericolosità dell'infezione. Tra queste figurano patologie molto comuni, come l'ìpertensione arteriosa e il diabete mellito, ma anche malattie pregresse a livello cardio e cerebrovascolare. 

Della maggiore pericolosità dell'infezione da SARS-Cov-2 sulle persone con patologie pregresse e delle conseguenze che l'attuale blocco delle attività diagnostiche specialistiche e degli interventi chirurgici ritenuti non urgenti potrebbe comportare, se venisse protratto a lungo, abbiamo parlato con l'epidemiologo Fabrizio Bianchi, dirigente di ricerca del Cnr. Con lui abbiamo anche approfondito i numeri del modello dell'Imperial College di Londra e gli interrogativi sul reale numero degli asintomatici, le strategie di gestione dei tamponi e dei test anticorpali e l'ipotesi di uno schema in cui, una volta usciti da questa prima fase di emergenza, le restrizioni potrebbero vedere un'alternanza di momenti di allentamento e altri di maggiore rigore. 

L'intervista completa a Fabrizio Bianchi, responsabile dell'unità di epidemiologia ambientale dell'Istituto di Fisiologia clinica del Cnr di Pisa. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Le misure di contenimento dell'epidemia in Italia stanno iniziando a mostrare risultati incoraggianti anche se il percorso richiede ancora del tempo. Intanto in questi giorni lo studio di Neil Ferguson dell'Imperial College di Londra si è arricchito di nuovi dati che hanno fatto anche discutere: secondo il modello in Italia ci sarebbero 6 milioni di persone che hanno già contratto l'infezione da Covid-19, in forma asintomatica o paucisintomatica. Una stima che l'ISS ha definito molto improbabile perché pur moltiplicando per dieci i circa 80 mila positivi attivi accertati, per tenere conto dei casi sfuggiti e degli asintomatici, arriveremmo a 800.000 mila. Lei che idea si è fatto del possibile numero di contagi?

Il gruppo che sta lavorando a questo studio, Imperial College e Oxford University, è senz’altro uno dei gruppi più abili e grandi che ci sia in questo momento al mondo. Hanno esperienza e competenza. Il problema dei modelli è che più sono sofisticati, più includono variabili e per avvicinarsi a dare delle stime attendibili hanno bisogno di fare assunzioni. Quindi diventano sempre più incerti perché c’è una propagazione dell’incertezza ed è un aspetto di cui si parla poco. Però questo emerge dalle stime: per esempio gli autori dello studio dell’Imperial College riportano correttamente dei margini enormi dei limiti di confidenza di queste stime. Per quanto riguarda l’Europa si ritiene che possa essere positivo al coronavirus un numero che va da 7 milioni a 43 milioni di persone ed è quella che si dice la “punta dell’iceberg”. Quando si danno questi valori ci si rende conto dell’enorme incertezza. Prendiamoli così come sono, il modello che loro usano è fatto per scenari ed è estremamente sofisticato, non inseriscono ancora più variabili - che è un po’ la critica che viene rivolta - ma se lo facessero aumenterebbe ancora di più il dato di incertezza. Io mi sono fatto l’idea che i dati di cui disponiamo sono largamente sottostimati e che è molto probabile che in Italia il numero delle persone positive al virus Sars-Cov-2 sia di almeno un ordine di grandezza superiore a quello che pensiamo. Che siano poi qualche milione o che siano, come dice l’Istituto superiore di sanità, sotto al milione lo valuteremo e staremo a vedere. Quello che è importante è che noi effettivamente non conosciamo una parte rilevante della portata di propagazione non del Covid-19, che è la malattia, ma del Sars-Cov-2 che è il virus.

A mio avviso è abbastanza strano, e credo anche colpevole, non aver fatto degli studi campionari, non esaustivi ma ben stratificati come si fa quando si fanno i sondaggi, quindi stratificati per sesso, età, condizione sociale, residenza in un piccolo o grande comune. Se si potesse procedere con qualche migliaia di soggetti - sacrificando quindi qualche migliaia di tamponi, per la verità ripetuti perché il problema dei tamponi è poi che occorre farli almeno due o tre volte nel tempo - noi avremmo avuto delle indicazioni su dati reali e non su scenari. Con questo mi collego anche alla strategia del Veneto: si passa dai dati di Vò, con questo studio pur importante ma pieno di problemi, a voler estendere in modo massiccio i tamponi alla popolazione, ma poi bisogna vedere se c’è la possibilità di farli: nei giorni scorsi molti governatori regionali hanno dichiarato di voler fare i tamponi su larga scala, ma tra il dire e il fare poi c’è di mezzo il fatto che qualcuno bisogna che li testi, che li analizzi e li validi. E’ un problema enorme. Io penso che tra non farli e farli a tutta la popolazione, cosa che è impossibile e anche poco utile, ci sarebbe la possibilità di individuare dei campioni stratificati, soprattutto in quelle Regioni che in questo momento sono più avanzate dal punto di vista tecnologico e in cui il servizio sanitario ha tenuto maggiormente testa in questa situazione di emergenza. Senza comunque dimenticare tutti i punti interrogativi di un servizio sanitario nazionale che non ce l’ha fatta completamente ad arginare un evento così acuto, un tema che ci riporta alla polemica su un servizio sanitario che negli ultimi anni aveva ricevuto poca attenzione e tanti risparmi.

Il Veneto negli ultimi giorni ha annunciato anche la volontà effettuare test anticorpali a tappeto che sarebbero in grado di verificare se si è contratta la malattia, magari in forma asintomatica, e si è ormai immuni al coronavirus. Anche in Germania è in programma un piano simile, esteso a livello nazionale. Qual è la sua opinione al riguardo?

Tutte le strategie sono utili se poi vanno a finire dentro a una task force che sa esattamente come vanno interpretati questi dati e li mette insieme in gruppi multidisciplinari che possano dare una valutazione intelligente. Il problema di questi test anticorpali di cui si parla è che sono dotati di una non esaltante sensibilità e specificità, cioè producono tanti falsi negativi e tanti falsi positivi, questo elemento deve essere valutato attentamente. Tenuto conto di questi limiti, ottenere dei dati dai test anticorpali può essere sicuramente utile. A mio avviso quello che va fatto nella fase calante è prepararsi a identificare cluster e lavorare sul contact tracing molto meglio di quanto sia stato fatto in precedenza, cioè riuscire a ricostruire l’albero dei contatti delle persone positive. E’ un’attività molto onerosa che non è possibile fare nella fase più alta dell’epidemia, quando i casi sono migliaia e quindi è impensabile che i servizi territoriali riescano a fare decine di migliaia di follow up e seguire tutti questi casi. Però quello che è importante nel contact tracing è farlo bene all’inizio e alla fine dell’epidemia, nelle fasi di cosiddetta remissione.

Lo studio dell'Imperial College ipotizza anche uno scenario a yo-yo, caratterizzato da periodi di interruzione dell'isolamento e poi una ripresa delle restrizioni, sulla base dell'evoluzione dell'epidemia. Come valuta questa possibilità?

Io penso che questo schema a yo-yo, o a fisarmonica, sarà necessario seguirlo. A mio avviso non sarà un’opzione ma una scelta obbligata, però il secondo “yo”, le successive fasi di restrizione, saranno diverse dalle precedenti. Nel senso che si potrà andare verso misure sempre meno stringenti, diversificate a seconda delle necessità e quindi è giusto che poi ad un certo punto il quadro nazionale venga disarticolato in quadri regionali o anche provinciali, perché le situazioni saranno molto diversificate. Ci saranno dei territori che sono partiti prima e quindi avranno una remissione più veloce, altri che invece, soprattutto al Sud, avranno meno casi ma distribuiti in un periodo più lungo, il che è vantaggioso per il servizio sanitario ma più difficoltoso dal punto di vista delle misure di contenimento. Quindi se tutto va bene lo schema a yo-yo penso che sarà positivo. Se invece dovessero riesplodere dei focolai importanti allora bisognerà ritornare alle misure di prima generazione, rifare delle chiusure più impegnative e dolorose. Però pensiamo positivo e occorre essere consapevoli del fatto che dovremo convivere a lungo con questo virus. Questo lo dicono sia la teoria che la pratica. Da questo punto di vista i dati cinesi e coreani non ci aiutano molto perché sembra che lì il problema sia stato completamente superato, ma io non credo che sia possibile perché non è plausibile che si possa essere sviluppata un’immunità - cosiddetta di gregge, ma preferisco chiamarla di comunità - così estesa: anche se sono milioni i portatori sani siamo ben lontani dall’immunità di comunità. E quindi i casi ci saranno, circoleranno, l’essenziale è identificarli precocemente, quarantenarli ancora e andare avanti nell’attesa del vaccino o di potenti antivirali molto specifici che possano abbassare la virulenza.

Analizzando i dati a disposizione, sia quelli internazionali ma anche quelli diffusi dal bollettino bisettimanale dell'Iss, è emerso in maniera chiara che l'infezione da Covid-19 può comportare rischi molto superiori per le persone che hanno patologie croniche preesistenti, anche molto comuni e diffuse, soprattutto nella popolazione anziana. Quali sono le principali complicanze che sono state osservate e quali potrebbero essere dei sistemi di monitoraggio mirati?

Questo lavoro che sta facendo l’Iss ha una grandissima rilevanza e credo che non gli stia stato riconosciuto il suo valore reale. Questo aggiornamento che viene fatto sui decessi andando a controllare le cartelle cliniche - non di tutti, ma di una parte che a questo punto è diventata consistente, visto che ad oggi sono quasi un migliaio - è di straordinaria importanza perché evidenzia, e di settimana in settimana i dati confermano le indicazioni iniziali, che i due terzi dei soggetti che muoiono positivi a coronavirus, io preferisco dire così perché “con” o “per” si apre un capitolo complicato, hanno almeno due o più patologie pregresse importanti: cardiovascolari, ipertensione, insufficienza renale, diabete, oltre a quelle respiratorie che però non sono la maggior parte come si potrebbe pensare. Questo fa capire la rilevanza della comorbidità e fa capire anche che, considerata la fragilità delle persone con queste patologie, uno degli elementi che personalmente a me, sulla base dell’esperienza e dei dati, preoccupa moltissimo è che ci sono tante di queste patologie che necessitano di controlli ambulatoriali, di laboratorio, di screening, di diagnosi precoce, per non parlare poi dei tumori, che in questo momento sono ridotte alle urgenze. Secondo me questa situazione non può andare avanti per molto e, una volta superato il picco, bisogna tornare piano piano dare “normalità” al servizio sanitario che gestisce tutte le altre patologie, perché penso che la mortalità superiore che andremo a constatare non riguarderà solo Covid-19 ma anche altre patologie a cui non si è data una risposta veloce. Speriamo che non sia così ma un malato di diabete tenuto due mesi in casa, un paziente iperteso che non si controlla attentamente, un paziente che ha più di una patologia insieme, se tutto questo accade per un periodo limitato di tempo è un conto ma il periodo se si allunga può essere rischioso. Per non parlare di tutta la diagnostica precoce, chi doveva fare un agoaspirato a febbraio e lo farà magari a settembre, chi doveva fare un intervento che non è stato ritenuto urgente ma che poi potrebbe rivelarsi tale. Insomma, il servizio sanitario è una struttura complessa e complicata. Io penso che per riportare tutto in una fase di normalità ci vorranno tempo e risorse, non bisognerà tornare a lesinare sulle risorse e spero che sia stata capita la lezione che il welfare è una cosa importante: non abbiamo molto da insegnare o da rivedendicare rispetto ad altre parti del mondo, abbiamo il welfare che in Europa è un patrimonio importante ma che negli ultimi anni era stato un po’ sottovalutato e sottodimensionato. Credo che occorra ritornare a questi valori.

Un articolo recentemente pubblicato su Nature ricorda che oltre la metà della popolazione europea over 65 ha due o più patologie pregresse e sostiene che sarebbe necessario un approccio maggiormente trasversale e andrebbero approfonditi maggiormente i legami che spesso intercorrono tra diverse patologie, anche per identificare in modo precoce i fattori di rischio. Secondo lei come si potrebbe migliorare l'approccio sanitario alla comorbidità?

Purtroppo si fa poca prevenzione e non sempre viene fatta nel modo adeguato. I fattori di rischio invece sono conosciuti e bisognerebbe lavorare assiduamente sui fattori di rischio noti. Però questa è un’attività che si fa in tempo di pace e quindi in questo momento è inutile fare dei proclami. Chiaramente la vita della popolazione si è allungata, anche se negli ultimi anni la crescita si è fermata, e bisogna poi distinguere tra l’attesa di vita complessiva e l’attesa di vita in salute, condizione che invece ha subito qualche rallentamento. E’ chiaro che la popolazione over 65, ma soprattutto over 75, è una fascia di età che ha patologie e quindi quelle patologie vanno trattate nel modo migliore. Al tempo stesso bisognerebbe tornare a fare della prevenzione sui fattori di rischio come fumo e alcool ma anche sui fattori ambientali di cui spesso ci dimentichiamo. In Italia ogni anno 60 mila persone muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico e sono di più dei decessi che saranno stati provocati da Covid-19, anche se ovviamente, rispetto al dato che osserviamo oggi, questa cifra continuerà purtroppo a crescere nella parte di remissione della curva. Però tutto questo ci dice che uno dei cardini, quando ritorneremo nella normalità, è quello della prevenzione dei fattori di rischio individuali e collettivi. Occorre che le istituzioni e chi ha ruoli di responsabilità si ricordi di questa lezione che non è solo una lezione sulle malattie, ma è un insegnamento che viene da lontano: se siamo in questa situazione le motivazioni sono tante, ma la principale è che al pianeta su cui viviamo abbiamo fatto da tempo interventi che probabilmente hanno poi modificato anche i processi di adattamento delle persone. Sono processi che necessitano di millenni e invece le modificazioni che stiamo infliggendo sono veloci, di decine o centinaia di anni. Quindi c’è un gap tra le possibilità di adattamento e i rapidi sconvolgimenti anche tra gli animali, che modificano la loro attitudine e le loro abitudini, e così favoriamo il passaggio di patogeni dall’animale all’uomo, poi dall’uomo all’uomo e poi siamo nella pandemia di Covid-19 che bisognerà che ci insegni qualcosa.

Di comorbidità, che come ci spiega nell'intervista sarebbe meglio definire multimorbidità, abbiamo parlato anche con il professor Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di gerontologia e geriatria, che ha sottolineato l'importanza di una valutazione multidimensionale geriatrica, molto diversa da quella centrata sulla malattia principale, e poi ha approfondito molti aspetti legati all'attuale epidemia da coronavirus. 

L'intervista completa al professor Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di gerontologia e geriatria. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Quella della comorbidità - chiarisce il professor Antonelli Incalzi - è una tematica di grande complessità che ha anche delle ripercussioni sull’epidemia da Covid-19 in quanto la comorbidità può rendere atipica la presentazione. Ma, al di là di questo, il tema di fondo è come tante malattie coesistenti impattino sullo stato di salute e dovrebbero condizionare l’approccio alla cura, la scelta della cura ottimale, l’identificazione delle priorità e, in sostanza, ciò che ha reale valore per il paziente. In questa prospettiva lo stesso concetto di comorbidità è per certi versi superato perché identifica una malattia principale e una serie di altre malattie, per così dire minori, che concorrono a determinare il quadro clinico e il fabbisogno di cura. In realtà molto spesso le malattie concorrono in misura simile o si alternano nel ruolo di malattia principale, quindi si tende a parlare di multimorbidità, che è un concetto diverso dalla comorbità, in cui c’è questo rapporto dinamico. Esistono oggi una serie di strumenti di valutazione in virtù dei quali, tramite appunto una valutazione multidimensionale geriatrica, si riesce a cogliere la gerarchia di queste malattie nel determinismo dello stato di salute e a indirizzare conseguentemente gli interventi terapeutici secondo un principio di proporzionalità e di costo-efficacia. Quindi una visione molto diversa da quella centrata sulla malattia principale a cui siamo abituati dalla nosografia tradizionale".

L'analisi dei dati relativi all'epidemia da Covid-19 ha mostrato sin dall'inizio che tra gli anziani con patologie pregresse la mortalità ha percentuali più elevate. Per questo motivo i geriatri italiani hanno avviato un primo studio che ha l'obiettivo di valutare l’efficacia delle pratiche anti-contagio e identificare i sintomi sentinella negli anziani, con un'attenzione particolare al contesto delle Rsa dove, in alcuni casi, si sono manifestate delle criticità. "Lo studio Gero-Covid è multisetting - prosegue il professor Antonelli Incalzi - perché concerne ospedale per acuti, Rsa, territorio e ambulatorio, è multicentrico e multiscopo perché si propone di perseguire diversi obiettivi. Innanzitutto conoscere le modalità di presentazione della malattia, che tutti apparentemente conosciamo ma le conosciamo nel soggetto tipico dove non c’è l’elemento confondente rappresentato dalle malattie croniche preesistenti, la multimorbidità a cui abbiamo fatto riferimento. Quindi il nostro intento è capire, per esempio, come si manifestano i sintomi in un malato che abbia una broncopneumopatia cronica ostruttiva, un diabete o uno scompenso cardiaco per riuscire così a cogliere tempestivamente l’esordio della malattia. Inoltre è nostra intenzione definire il profilo di rischio, quindi capire realmente quali siano i predittori di esito della malattia e poi conoscere gli esiti perché alcuni di questi, come la perdita del gusto e dell’olfatto che si verifica in una percentuale imprecisata, sono assolutamente nuovi nel panorama delle malattie respiratorie. Non si sa quali siano i fattori di rischio per tali esiti e, più in generale, non si sa quali siano i fabbisogni residui dopo il superamento della fase acuta. Quindi noi intendiamo rispondere a queste domande. Al tempo stesso vogliamo sviluppare un focus particolare su due setting: le residenze sanitarie per anziani dove intendiamo verificare soprattutto la qualità delle misure sviluppate, ma anche l’innovatività delle medesime, per esempio sistemi di teleconferenza, di videochiamata per alleviare la lontananza dell’ospite rispetto ai suoi familiari. Inoltre nelle Rsa vogliamo mappare molto bene le componenti di rischio del contagio anche in presenza di misure apparentemente ottimali. E poi il territorio: quindi far sì che l’epidemia da Covid-19 non faccia passare in subordine l’attenzione per i tanti malati con patologie croniche, garantire la continuità di cura, anche attraverso la possibilità di un teleconsulto, di una consulenza telefonica gratuita sotto forma di videochiamata. E poi in una particolare popolazione, quella dei malati dementi e dei malati psichiatrici, sviluppare un sistema di monitoraggio molto serrato che permetta di mantenere un delicato equilibrio di cura in soggetti così particolari".

Nei giorni scorsi, intanto, il bisogno di liberare posti letto negli ospedali ha portato il ministero della Salute ad emanare un decreto che consente l'apertura delle Rsa ai malati Covid-19 post acuti, individuando in questo tipo di strutture una possibilità di accoglienza per proseguire le cure extra ospedaliere. Secondo il presidente della Società italiana di gerontologia e geriatria si tratterebbe però di una scelta inopportuna e rischiosa perché non tutte le strutture sono organizzate in modo da permettere un'adeguata divisione degli spazi: "L’organizzazione degli spazi - spiega Antonelli Incalzi - non è l’unico problema ma certamente è il primo perché serve una struttura architettonica che permetta di isolare un modulo in modo molto rigoroso. E anche le pulizie, il cambio della biancheria, la fornitura dei pasti devono seguire dei percorsi assolutamente disgiunti e separati. C’è poi un problema organizzativo di cui non ci si rende conto: il personale delle Rsa turna su più moduli, se la struttura ne ha molteplici, e nel momento in cui un modulo viene distaccato serve una quota aggiuntiva di personale per garantire la copertura dei turni in quel modulo e quindi servono delle assunzioni, almeno temporanee, per far sì che il lavoro venga svolto correttamente perché diversamente si andrebbero a penalizzare gli ospiti degli altri moduli e spesso non si ha percezione della struttura organizzativa di una Rsa. Quindi sono poche le strutture in cui è realmente possibile realizzare la prosecuzione di cura di soggetti positivi al Covid-19. A mio avviso sarebbe molto meglio provare a utilizzare le residenze universitarie per studenti, che sono ormai deserte e tra l’altro sono anche vicine agli ospedali, quindi più comode per un monitoraggio, oppure utilizzare altre strutture sanitarie, delle forze armate e via dicendo, ma limitare l’impiego delle Rsa a casi ben limitati in cui sia garantita l’assoluta sicurezza".

Per concludere abbiamo chiesto al professor Antonelli Incalzi anche una valutazione sull'evoluzione della situazione italiana e sulla rilevanza dei casi asintomatici che, forse contrariamente a quanto ci si possa aspettare, si presentano anche tra le persone anziane. "Ascoltando i media - conferma il presidente della Sigg  - siamo convinti che tutti gli anziani malati che contraggono il virus si ammalano seriamente e spesso muoiono. In realtà molti hanno forme blande che superano con relativa facilità. Io non sono in grado di fornire numeri, mi baso sulla mia esperienza personale e quindi quello che dico è aneddotico, però sicuramente ci sono asintomatici o paucisintomatici anche tra gli anziani. Per quanto riguarda, infine, l'evoluzione dell'epidemia bisogna tenere presente che l’Italia è caratterizzata da una serie di focolai disetanei, quindi la situazione non è comparabile con quella dello Hubei dove c’era un unico grande focolaio con sostanzialmente lo stesso timing. Questo ci induce a una certa cautela. I dati che ci vengono forniti sono cumulativi e sarà importante fare sempre un’analisi scorporata e un’analisi del trend perlomeno di cinque grosse realtà epidemiologiche per capire come possa evolvere. Se guardiamo il dato medio siamo effettivamente intorno al plateau, che ovviamente è a zig zag, e orientativamente in situazioni di questo tipo, mantenendo le attuali misure, si può pensare che intorno al 10-12 di aprile ci sia un cenno verso una discesa dal plateau. Però, ripeto, questo è un dato medio ed è assolutamente necessario contemperare le diverse realtà.

 

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