SOCIETÀ

Comunicazione sanitaria e nuovi media. Una combinazione vincente, se ben fatta

La comunicazione digitale non è una scienza esatta, nemmeno in ambito sanitario. Per quanto, infatti, l’OMS promuova l’utilizzo di mezzi digitali per sensibilizzare la popolazione su temi di salute pubblica e migliorare la prevenzione di alcune patologie, progettare una campagna di comunicazione sanitaria efficace non è affatto scontato. Recentemente sono stati riportati i risultati di una sperimentazione condotta da un gruppo di studiosi della London school of hygiene and tropical medicine, i quali hanno cercato di migliorare la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili tramite una campagna di comunicazione basata sull’uso di un sistema di messaggistica chiamato safetxt che inviava automaticamente degli sms che fornivano informazioni utili per evitare questo tipo di infezioni.

I destinatari di tali messaggi, i quali hanno espresso il loro consenso informato per partecipare all’esperimento e la cui privacy è stata rispettata durante tutte le sue fasi, erano poco più di 3100 ragazzi e ragazze tra i 16 e i 24 anni che avevano da poco ricevuto una diagnosi o un trattamento per tre malattie sessualmente trasmissibili, la clamidia, la gonorrea e l’uretrite, presso una delle 92 cliniche specializzate in salute sessuale del Regno Unito che hanno aderito allo studio.

Questi volontari hanno ricevuto per un anno dei messaggi di testo che ricordavano loro l’importanza di praticare sesso sicuro e spiegavano come evitare la reinfezione e la trasmissione delle tre malattie sopracitate. I messaggi avevano una frequenza periodica a scalare nel tempo: inizialmente si trattava di comunicazioni giornaliere. Successivamente, con il passare dei mesi, sono diventate settimanali e poi mensili.

Gli autori hanno formato anche un gruppo di controllo, composto anch’esso da circa 3000 ragazzi e ragazze con le stesse caratteristiche del gruppo di intervento (fascia d’età 16-24 e diagnosi di clamidia, gonorrea o uretrite presso una delle 92 cliniche considerate) i quali, però, non hanno ricevuto alcun messaggio con informazioni relative alla prevenzione.

Lo scopo degli sperimentatori era quello di diminuire il rischio di reinfezione nelle persone comprese nel gruppo di intervento migliorando le loro conoscenze riguardo alle modalità di contagio e trasmissione delle malattie in questione e incoraggiandole ad assumere alcune buone abitudini: usare il preservativo, sottoporsi a test per rilevare la presenza di malattie sessualmente trasmissibili prima di avere rapporti non protetti con nuove persone e informare i propri partner di un’eventuale diagnosi ricevuta.

Purtroppo, però, l’esperimento non ha ottenuto i risultati sperati. Trascorsi 12 mesi dall’inizio della campagna safetxt, tutti i partecipanti alla sperimentazione, sia quelli assegnati al gruppo di intervento, sia quelli appartenenti al gruppo di controllo, sono stati sottoposti a test medici per rilevare la presenza di eventuali reinfezioni; sono state confrontate, inoltre, le loro cartelle cliniche relative all’anno appena trascorso. Ebbene, la ricezione dei messaggi aveva aumentato i comportamenti preventivi autoriferiti (cioè le persone del gruppo di intervento dichiaravano di aver fatto più attenzione all’uso del preservativo), ma nonostante questo non erano diminuiti i casi di reinfezione nel gruppo di intervento, che erano addirittura leggermente più numerosi rispetto a quelli riscontrati nel gruppo di controllo.

Il caso safetxt è interessante per sviluppare una riflessione più ampia sulla comunicazione sanitaria che passa attraverso l’utilizzo delle tecnologie digitali. Abbiamo approfondito l’argomento con l’aiuto della giornalista scientifica Cristina Da Rold, che da diversi anni collabora con l’ufficio italiano dell’OMS per la gestione delle attività di comunicazione e social.

“La progettazione di una campagna richiede di ragionare a tutto tondo, ponendosi molte domande e prevedendo anche la possibilità di sbagliare e di dover correggere il tiro di conseguenza”. osserva Da Rold. “Si tratta di un lavoro assolutamente empirico in cui non esistono regole fisse né, tantomeno, formule vincenti che permettono di ottenere i risultati sperati in ogni situazione; infatti, una strategia che ha funzionato in un certo ambito non è detto che sia altrettanto efficace in altri contesti.

Il fulcro del discorso sulla comunicazione in generale, non solo quella sanitaria – nella quale esistono specifici problemi di carattere etico di cui tenere conto – è che una campagna funziona se si basa su uno studio approfondito e prolungato del tipo di pubblico a cui è rivolto e degli obiettivi della campagna stessa. È sulla base di queste considerazioni che si scelgono le modalità in cui diffondere un messaggio (il contenuto, il linguaggio, il mezzo di comunicazione, ecc…).

Il processo di analisi che porta a individuare la “persona tipo” fruitrice della campagna, per comprenderne le caratteristiche e le esigenze, si chiama targetizzazione.

Il target di riferimento dev’essere molto specifico”, afferma Da Rold. “Prendiamo come esempio la progettazione di una campagna di sensibilizzazione relativa al cancro al seno che ha l’obiettivo di aumentare il numero di donne che si sottopongono allo screening e di aumentare quindi la diffusione di un comportamento specifico tra la popolazione femminile. Si tratta, naturalmente, di un argomento molto delicato da trattare in modo appropriato, ma non è detto che uno stesso messaggio funzioni per donne di età, provenienza, livello di istruzione e status socioeconomico molto diversi.

Un altro imperativo fondamentale per una campagna di comunicazione riguarda la definizione di obiettivi misurabili. In una campagna finalizzata a migliorare le abitudini alimentari degli italiani, ad esempio, bisogna stabilire se l’obiettivo da raggiungere sia aumentare il consumo di frutta e verdura del 5% o del 10% e in quanti anni ci si aspetta di raggiungerlo. Anche in questo caso serve uno studio preliminare volto a comprendere, ad esempio, quali sono le fasce di popolazione a cui appartiene la maggior parte delle persone in sovrappeso e in quali contesti familiari si verifica maggiormente questo problema.

Insomma, solo dopo aver capito chi sono le persone a cui si vuole arrivare e quali possono essere i determinanti sociali della loro salute si può agire in termini di comunicazione con dei messaggi che siano coerenti con gli interessi di coloro che ne hanno più bisogno. Bisogna fare ciò che nel marketing viene definito “viaggio mentale” e che consiste nell’individuazione del target di riferimento, tenendo conto dei bisogni e dell’immaginario di queste persone, nonché degli ambienti che frequentano. In questo modo si può capire quali sono gli argomenti che stanno loro a cuore e quelli che, eventualmente, li preoccupano.

In caso di fondi limitati, è importante a maggior ragione scegliere un solo target specifico o un solo obiettivo misurabile. È meglio puntare su un unico risultato, progettando una piccola campagna e farla bene, piuttosto che investire in contenuti troppo generici, perché in quel caso nessuna delle persone che riceve il messaggio si sente rappresentata dalla narrazione proposta.

“Oltre alla targetizzazione è necessario effettuare anche una riflessione relativa agli strumenti di marketing, i quali non comprendono solo i social, ma anche, ad esempio, le newsletter”, prosegue Da Rold. “Per proporre un altro esempio, immaginiamo di dover progettare una campagna per ridurre l’obesità infantile – un problema serio in Italia, dove quasi il 30% dei bambini e delle bambine è in sovrappeso – si possono certamente considerare come target i ragazzini stessi (e promuovere messaggi di sensibilizzazione su social come TikTok, ad esempio) ma bisogna soprattutto rivolgersi ai genitori o alle scuole, per coinvolgere i quali sono ovviamente necessari mezzi di comunicazione e linguaggi differenti.

Eppure, credo che nel mondo della sanità ci sia poca consapevolezza riguardo alle questioni preliminari da affrontare quando si tratta di costruire una campagna di sensibilizzazione o di prevenzione. Dopotutto, queste conoscenze non fanno solitamente parte della cultura di base di chi si occupa di sanità a livello dirigenziale. È in questi casi che è opportuno rivolgersi a un consulente”.

Anche con l’aiuto di un consulente, però, non ci si può aspettare un risultato immediato, né l’organizzazione di una campagna in quattro e quattr’otto. “Servono tempo e attenzione per individuare un obiettivo che sia chiaro e misurabile, scegliere il target di riferimento, definire gli strumenti e i contenuti dei messaggi da mandare”, prosegue Da Rold. “Questo, però, non è sempre chiaro ai committenti. Spesso, ad esempio, si crede che per ottenere un risultato basti essere presenti sui social. Questo poteva essere vero quindici anni fa, quando le campagne di comunicazione sui social erano molto meno numerose e prive di raffinate strategie di marketing alle loro spalle. Altrettanto ingenuo è credere che sia sempre necessario creare dei contenuti sponsorizzati su queste piattaforme. In alcuni casi non è neanche necessario essere presenti sui social; talvolta, a seconda del proprio pubblico di riferimento, una strategia di e-mail marketing ben costruita può essere molto più efficace di un contenuto sponsorizzato sui social e può permettere di creare un rapporto a tu per tu con i destinatari dei messaggi. Oggi l'e-mail marketing è molto più evoluto rispetto a una volta. Non dobbiamo immaginare le newsletter come semplici contenitori di link che vengono mandati in maniera indiscriminata alla propria mailing list. Al contrario, esistono dei sistemi di comunicazione con il pubblico molto ben targettizzati e automatizzati che permettono di inviare contenuti specifici in base alle caratteristiche dell’utente. Questo può avvenire anche nell’ambito della comunicazione sanitaria. Uno studio medico, ad esempio, può catalogare i propri pazienti a seconda delle loro caratteristiche e delle loro esigenze perché ognuno di loro riceva un contenuto di suo interesse.

Non è detto, quindi, che una campagna di comunicazione efficace richieda necessariamente un investimento economico consistente. Ciò che conta davvero, piuttosto, è un investimento di tempo adeguato a elaborare una strategia mirata rispetto all’obiettivo che si vuole raggiungere”.

Tornando invece a parlare della prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili, sono molti gli stereotipi e i tabù diffusi con cui bisogna scontrarsi quando si organizzano campagne di comunicazione in questo ambito. “Spesso i giovani tendono a pensare che a loro non possa succedere perché magari non conoscono l’entità reale del rischio di contrarre alcune malattie che si ritengono debellate, come la gonorrea, che rappresenta un problema di nuovo emergente, o la sifilide, che immaginiamo come una malattia ottocentesca ma che in realtà è molto diffusa nel mondo”, commenta Da Rold. “In questi casi, la sfida per la comunicazione sanitaria è cercare di scardinare la convinzione di essere immuni al rischio solo perché si vive nell’Italia del 2022.

Un esempio di comunicazione efficace in questo senso è rappresentato dalle campagne contro l’AIDS degli anni Novanta, che avevano lo scopo di far capire alle persone che il virus HIV potesse colpire chiunque e in qualunque contesto, anche in famiglia e tra persone eterosessuali. Tali messaggi fecero cadere i principali pregiudizi legati a questa malattia, come la convinzione che il virus potesse colpire solo le persone omosessuali o quelle che fanno uso di droghe per via intravenosa”.

Alla luce di queste considerazioni, non è scontato capire cosa non abbia funzionato nella campagna safetxt per quanto, come riflette Da Rold, viene da chiedersi come mai la scelta del mezzo di comunicazione da usare sia ricaduta proprio sui messaggi di testo.

“È difficile valutare l'efficacia di una campagna se non la si è progettata”, premette Da Rold. “Pur senza voler dare alcun giudizio sullo studio e le modalità in cui è stato condotto, colpisce il fatto che gli autori abbiano scelto di servirsi di messaggi di testo, poiché tendenzialmente le fasce di popolazione più giovani tendono a ignorare questo tipo di contenuti meno memorabili rispetto a immagini e video. È interessante, invece, che sia stato organizzato un gruppo di valutazione a monte – ovvero un test del prodotto effettuato su un piccolo campione di persone che corrispondono al target di riferimento – come viene solitamente fatto nel settore pubblicitario e non abbastanza spesso nell’ambito della comunicazione sanitaria”.

Eppure, per quanto durante la fase di valutazione fossero state tenute in considerazione le opinioni di persone di diversa provenienza, genere, etnia e status sociodemografico, sembra che i partecipanti allo studio abbiano ricevuto messaggi diversi solo a seconda del genere di assegnazione biologica e alle loro preferenze sessuali. Ad esempio, le donne che avevano dichiarato di avere rapporti sessuali solo con donne non ricevevano messaggi riguardanti l’uso del preservativo, a chi dichiarava di avere rapporti sessuali solo o anche con persone del sesso opposto arrivavano comunicazioni relative alla contraccezione di emergenza, e così via.

Può essere che sia mancata una targetizzazione approfondita del campione di riferimento, che in questo caso sembra sia stata fatta solo in base al genere e alle preferenze sessuali, senza considerare, ad esempio, lo status socioeconomico”, commenta Da Rold. “Non vengono esplicitati, se non in maniera molto generica, il contenuto e la lunghezza dei messaggi di testo inviati ai partecipanti. È chiaro che essi riguardassero i metodi per praticare sesso sicuro, come l’uso del preservativo, ma sarebbe interessante sapere quale fosse precisamente il contenuto e il linguaggio utilizzato”.

Colpisce, infine, un risultato inatteso dello studio in questione. Come riportano gli autori, molti dei ragazzi e delle ragazze che hanno partecipato all’esperimento hanno dichiarato che sapere di essere tra i destinatari di una campagna di prevenzione li ha fatti sentire, per certi versi, meno soli, dando loro la sensazione di far parte di una sorta di comunità invisibile composta da tutte le persone che si trovavano nella loro stessa situazione. Sarebbe forse interessante, per gli studi futuri, capire che spazio di interesse si può attribuire a questo risultato. Potrebbe essere uno dei tanti aspetti di cui tenere conto nella progettazione di campagne per la prevenzione di malattie relative alla sfera sessuale, rispetto alla quale sono ancora radicati alcuni tabù e forme di stigmatizzazione piuttosto difficili da demolire.

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