SCIENZA E RICERCA

La costante contesa dai cosmologi

Il problema dell’espansione cosmica ha tenuto impegnati gli astronomi per quasi un secolo. Studi diversi forniscono risposte differenti al punto che non è chiaro se essi siano una conseguenza di metodi di misura incompleti, o imperfetti, o se invece siano dovuti ad una incompletezza del “modello cosmologico standard” che meglio descrive la struttura e la storia evolutiva dell’universo.

Stiamo parlando di un numero, la costante di Hubble, il risultato del lavoro di Edwin Hubble e Georges Lemaître degli anni ’20 del secolo scorso, un parametro di fondamentale importanza in quanto permette di stimare l’età dell’universo. Oggi, l'obiettivo degli astronomi è dare una risposta definitiva per risolvere una volta per tutte uno dei problemi ancora aperti della cosmologia.    

Edwin Hubble fu uno dei primi a capire che l’universo si espande, notando che più lontano osserviamo e più velocemente si allontanano le galassie. L'astronomo americano scrisse un’equazione per descrivere questa relazione, chiamata in seguito “legge di Hubble”, secondo cui la velocità a cui recede una galassia è uguale alla sua distanza moltiplicata per un numero speciale, appunto la costante di Hubble.

Hubble e i suoi contemporanei tentarono di determinare la costante di Hubble, ma le loro stime erano vincolate dalle scarse conoscenze delle distanze cosmologiche. Tuttavia, nel corso degli ultimi novant’anni, gli astronomi hanno migliorato la precisione della misura della costante di Hubble e oggi il margine d’errore è dell’ordine di qualche percento.

Ma c’è un problema: la costante di Hubble assume valori diversi in funzione di come viene misurata. Le attuali stime vanno da circa 67 a 73 Km/sec/Mpc. In altre parole, due punti nello spazio che distano 1 Mpc (Megaparsec, che equivale a 3,26 milioni di anni-luce) si allontanano tra loro con una velocità compresa tra 67 e 73 Km/sec.    

Supernovae e radiazione cosmica di fondo

Nel passato, gli scienziati hanno applicato due metodi per determinare la costante di Hubble. Il primo si basa su una particolare classe di stelle esplose, le supernovae di tipo Ia. Poiché la loro luminosità intrinseca è la stessa per tutte le stelle, gli astronomi le considerano “candele standard”. Dalla misura della loro luminosità è possibile risalire alla distanza e se quest’ultima viene combinata con la velocità di recessione allora si può ricavare il valore della costante di Hubble. Il secondo metodo è totalmente diverso e si basa sull’osservazione della radiazione cosmica di fondo, la luce più antica che siamo in grado di osservare e che emerse per la prima volta, propagandosi liberamente nello spazio, circa 380 mila dopo il Big Bang. Grazie a rivelatori spaziali molto sensibili a particolari lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico, come i satelliti WMAP della NASA e Planck dell’ESA, è stato possibile misurare piccole variazioni di temperatura nella radiazione di fondo e dal modo in cui esse sono distribuite gli astronomi hanno ricavato alcuni parametri cosmologici, tra cui il valore della costante di Hubble.    

Fig.1 - Il grafico illustra l’attuale tensione sulla determinazione del valore della costante di Hubble. Le stime ricavate dalle misure della radiazione cosmica di fondo (CMB) differiscono significativamente da quelle ottenute da indicatori di distanza locali basati su “candele standard” come le supernovae-Ia. Crediti: S.Chen/APS May 2018 (Volume 27, Number 5)

La buona notizia è che i valori ottenuti dai due metodi in maniera indipendente differiscono di una quantità pari a meno del 10 percento. La cattiva notizia è che questa minima differenza risulta scientificamente significativa. Ma che cosa vuol dire tutto ciò?

Spesso succede che minime inconsistenze osservative possono significare tanto. A volte non vogliono dire nulla e alla fine vengono associate a errori di misura o a mancate calibrazioni nel processo di analisi dei dati. Di solito si prendono in esame queste ultime e oggi più che mai i ricercatori sono impegnati a capire dove possono aver sbagliato. Una possibile spiegazione è che gli astronomi hanno misurato erroneamente le distanze delle supernovae-Ia. La determinazione di questo parametro richiede una serie di passaggi, dove vengono effettuate delle calibrazioni, per cui c’è sempre la possibilità di introdurre altri errori. Alcuni, invece, sostengono che l’inconsistenza presente nelle misure della costante di Hubble possa essere l’indicazione di una nuova fisica.

Quasar doppi

Dunque, per risolvere questa controversia un gruppo di ricercatori ha applicato di recente un metodo innovativo allo scopo di stimare l’espansione cosmica.

“La costante di Hubble ci fornisce la scala fisica dell’universo”, spiega Simon Birrer dell’Università della California a Los Angeles (UCLA) e primo autore dello studio pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. “Senza un preciso valore della costante di Hubble, gli astronomi non possono calcolare in maniera accurata la dimensione delle galassie più remote, l’età dell’universo o la sua storia evolutiva. Il metodo che abbiamo proposto tenta di eliminare l’ambiguità sul valore di questo parametro cosmologico”.

La maggior parte dei metodi utilizzati per ricavare il valore della costante di Hubble si basano su due ingredienti: la distanza a cui si trova una sorgente luminosa e il suo redshift (che indica la quantità di luce che viene “arrossata” rispetto a quella emessa in origine mentre si propaga verso la Terra a causa dell’espansione dello spazio).

Per evitare di osservare oggetti già utilizzati da altri ricercatori, Birrer e colleghi hanno preso in considerazione i quasar, sorgenti estremamente luminose e distanti che sono alimentate da buchi neri supermassivi.

In particolare, gli autori hanno osservato quei quasar in cui la luce viene “piegata” dalla gravità a causa di una galassia interposta lungo la linea di vista che funge da lente gravitazionale. Questo fenomeno previsto dalla relatività generale produce tipicamente due o quattro immagini-copie del quasar (il numero dipende dall’allineamento del quasar in relazione alla galassia-lente).

Di solito i quasar non brillano in maniera costante come avviene per le stelle. Infatti, man mano che il materiale del disco di accrescimento cade verso il buco nero, la luminosità dei quasar varia su tempi scala che vanno da qualche ora fino a qualche milione di anni.

Ora, quando la luminosità del quasar fluttua, si osserva una variazione di luce nelle due immagini-copie che però non avviene nello stesso momento. Di conseguenza, la luce associata alle due immagini segue percorsi diversi prima di arrivare a Terra.

Perciò, questo ritardo temporale, assieme all’informazione relativa al campo gravitazionale della galassia-lente, possono essere combinati per determinare sia la distanza del quasar che della galassia.

In questo modo, le misure relative al redshift del quasar e della galassia permettono agli scienziati di stimare il valore della costante di Hubble e quindi dell’espansione dell’universo.     Gli autori, che fanno parte della collaborazione internazionale H0liCOW, hanno già applicato questa tecnica nel caso in cui si formano 4 immagini dello stesso quasar attorno alla galassia-lente. Tuttavia, immagini quadruple non sono così comuni come quelle doppie i cui casi si ritiene siano almeno cinque volte più frequenti.  Per dimostrare la fattibilità del loro metodo, gli autori hanno analizzato le immagini doppie del quasar SDSS J1206+4332 grazie ai dati forniti dall’Hubble Space Telescope, dagli osservatori Gemini e Keck e da COSMOGRAIL (Cosmological Monitoring of Gravitational Lenses) un programma dell’Ecole Polytechnique Federale de Lausanne che ha come obiettivo la determinazione della costante di Hubble.  

Fig.2 - Immagine di un quasar doppio utilizzato per determinare il valore della costante di Hubble. Questo nuovo approccio potrebbe aiutare gli astronomi a comprendere meglio come è cambiato il tasso di espansione dell’universo nel corso del tempo. Crediti: NASA/HST, T.Treu/UCLA e Birrer et al.

“Per diversi anni, i ricercatori hanno monitorato il quasar ogni giorno in modo da misurare con precisione il ritardo temporale osservato nelle due immagini dei quasar”, dice Tommaso Treu, professore di fisica e astronomia alla UCLA e co-autore dello studio.

Poi, al fine di ottenere la miglior stima possibile della costante di Hubble, gli astronomi hanno combinato i propri dati con quelli che erano stati ottenuti in precedenza da H0liCOW su tre casi di quasar quadrupli.

“La parte più interessante è che queste misure sono complementari e indipendenti dalle altre”, aggiunge Treu. Gli autori hanno ottenuto un valore di 72,5 Km/sec/Mpc, in linea con le stime ricavate da altri ricercatori che hanno determinato il valore della costante di Hubble attraverso il metodo delle supernovae, confermando che davvero l’universo si sta espandendo a un ritmo più elevato rispetto alle sue epoche primordiali.

“Una delle lezioni più importanti che portiamo a casa è che le immagini doppie dei quasar rappresentano un metodo efficiente per determinare la costante di Hubble”, dice Treu.

Ad ogni modo, entrambe le stime sono più alte di circa l’8 percento rispetto al valore ottenuto dalla radiazione cosmica di fondo. “Se c’è davvero una differenza tra questi valori, allora vuol dire che l’universo è un po’ più complicato di quanto si possa pensare”, fa notare Treu. “D’altra parte, può anche darsi che una delle tre misure, o tutte e tre, siano sbagliate”.

Insomma, Birrer e collaboratori hanno dimostrato con successo che è possibile misurare la costante di Hubble anche da quei sistemi in cui si formano due immagini-copie dello stesso quasar.

Tuttavia, i ricercatori stanno ora pianificando l’osservazione di 40 quasar quadrupli per migliorare la precisione della misura della costante di Hubble rispetto a quella ottenuta nel caso dei quasar doppi.

Onde gravitazionali

C’è, però, chi ritiene che la rivelazione di onde gravitazionali generate da sistemi binari di stelle di neutroni, denominate “sirene standard”, potrebbe risolvere definitivamente la controversia sulla determinazione della costante di Hubble, nonostante gli eventi siano rari.

“Secondo i nostri calcoli, nel corso del prossimo decennio avremo dati sufficienti dalla rivelazione di onde gravitazionali prodotti da una cinquantina di sistemi binari di stelle di neutroni per determinare in maniera indipendente la costante di Hubble”, spiega Stephen Feeney del Center for Computational Astrophysics presso il Flatiron Institute di New York e primo autore dello studio pubblicato su Physical Review Letters. “Dovremmo essere in grado di rivelare un numero sufficiente di eventi per fornire una risposta entro 5-10 anni”.

Le onde gravitazionali vengono generate quando due stelle di neutroni iniziano a orbitare l’una attorno all’altra prima di collidere producendo un luminosissimo lampo di luce che può essere rivelato dai telescopi.

 

Fig.3 - Quando due stelle di neutroni entrano in collisione, esse emettono luce e onde gravitazionali. Confrontando il loro ritardo temporale, misurato per diversi eventi, gli astronomi sono in grado di determinare il tasso di espansione dell’universo. Crediti: R. Hurt/Caltech-JPL

Le onde gravitazionali producono delle deformazioni nella struttura dello spaziotempo che possono essere rivelate dagli interferometri come LIGO (Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory) o Virgo e da cui è possibile ottenere una misura precisa della distanza dove è localizzato il sistema binario.

Combinando i dati degli interferometri con quelli della luce emessa dalla collisione, gli astronomi sono in grado di determinare la velocità del sistema binario e quindi di stimare la costante di Hubble applicando, per l’appunto, la legge di Hubble.

Infine, gli autori utilizzeranno un modello che permetterà di calcolare quante osservazioni saranno necessarie per derivare in maniera precisa il valore della costante di Hubble.

“In questo modo avremo un quadro più preciso non solo per capire come si espande l’universo ma anche per per migliorare l’attuale modello standard della cosmologia”, conclude Hiranya Peiris della University College London (UCL) e co-autrice dello studio.  

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