SCIENZA E RICERCA

Ognuno è felice a modo suo: verso una psicologia del benessere personalizzata

«Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo» scriveva Lev Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina: in pratica sosteneva che che una volta raggiunto un certo equilibrio soddisfacendo i bisogni fondamentali, materiali ed emotivi, non restava nulla di interessante da raccontare.
A quanto pare, però, questa è una visione incompleta, visto che, come vedremo in questo articolo, ogni membro di una famiglia può essere felice a modo suo e quindi anche una storia positiva potrebbe dare origine a racconti di successo (inserendo qualche conflitto qua e là, naturalmente).

Ma da dove viene la felicità? Non è una domanda banale, i filosofi se lo sono chiesti per secoli e così fa anche la psicologia del benessere.
Se facciamo un veloce sondaggio tra i nostri conoscenti, questi potrebbero sostenere che un buon lavoro, delle relazioni appaganti, la salute e la stabilità economica siano delle condizioni necessarie per un buon livello di felicità. È un discorso ragionevole, eppure esistono persone che pur avendo tutte queste cose sono infelici, ed altre che, nonostante una vita più sfortunata, riescono a vedere il bicchiere mezzo pieno anche nei periodi di siccità.

Le persone più felici non sono necessariamente coloro che hanno il meglio di tutto, ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno Khalil Gibran

Due teorie sulla felicità

Sulla felicità esistevano due teorie dominanti e una di queste può spiegare queste anomalie: la prima è detta “bottom-up” e prevede che la soddisfazione di vita nasca dalla somma delle soddisfazioni nei vari ambiti, come lavoro, salute, relazioni. È un modello situazionale: se le cose vanno bene all’esterno, andranno bene anche dentro di noi. La seconda, detta “top-down”, suggerisce invece che siano le nostre valutazioni globali a influenzare la percezione delle singole sfere della vita: se sono una persona fondamentalmente soddisfatta, tenderò a vedere positivamente anche un lavoro stressante o una casa disordinata, magari supererò più facilmente un grave lutto e mi saprò adeguare agli sconvolgimenti grandi e piccoli che caratterizzano la vita di ognuno.

Una terza via di compromesso

Col tempo, queste due visioni hanno trovato una sintesi: oggi molti studiosi sostengono che la felicità si costruisca in modo bidirezionale, quindi ogni parte della vita influenza e viene influenzata dalla visione d’insieme, ma c’è un problema: questi modelli sono formulati a partire da dati aggregati, costruiti su valori medi, e nessuno ha davvero testato se questo processo bidirezionale funzioni per le persone reali.

Un nuovo studio, pubblicato su Nature Human Behaviour e guidato da Emorie D. Beck, propone di cambiare prospettiva: invece di domandarsi quale teoria sia corretta, ci si chiede quale teoria valga per le singole persone. Il problema degli approcci precedenti è che le medie possono anche non restituire situazioni reali, e se due persone hanno due polli in media, quella che non ne possiede nemmeno uno forse vorrebbe che gli studi rilevassero che sta morendo di fame. Traslando il tutto nel settore della psicologia del benessere, i ricercatori hanno cercato di fare proprio questo.

Un dataset molto ricco

Le ricerche psicologiche tendono a cercare leggi generali, valide per tutti, ma la felicità potrebbe essere un processo idiografico, ovvero specifico per ciascun individuo. Questo approccio prende le distanze dalle medie e dai modelli “nomotetici”, cioè generalizzabili, per focalizzarsi sulla singolarità delle esperienze umane.

Per testare questa ipotesi, gli autori hanno analizzato dati provenienti da cinque grandi studi longitudinali condotti in Germania, Regno Unito, Svizzera, Australia e Paesi Bassi. In tutto, 40.074 partecipanti, seguiti per un massimo di 33 anni, con una media di 10.8 anni e un minimo di quattro. Si tratta, per quantità e durata, di uno dei dataset più ricchi mai utilizzati nello studio della soddisfazione di vita.

I ricercatori hanno costruito un modello statistico personalizzato per ciascun partecipante: non hanno cioè cercato la media generale, ma hanno disegnato una “rete” di relazioni specifica per ogni individuo: quanto, nel suo caso, la soddisfazione per il lavoro si proiettava su quella globale? Quanto, invece, la percezione generale influenzava la valutazione della propria salute, o del tempo libero?
In altre parole, si è cercato di capire se, per una persona specifica, la soddisfazione nel lavoro o seguisse la soddisfazione generale, e lo stesso è stato fatto per altre variabili, cioè salute, reddito, tempo libero, abitazione.

Dicono che il denaro non faccia la felicità, ma se devo piangere preferisco farlo sul sedile posteriore di una Rolls Royce piuttosto che su quello di una carrozza del metrò Marilyn Monroe

Non esistono meccanismi universali per trovare la felicità

Gli autori hanno identificato quattro possibili profili. Nel profilo top-down la soddisfazione globale influenza quella dei vari ambiti dell’esistenza, mentre in quello bottom-up le singole aree di vita influenzano la soddisfazione generale. Si aggiunge poi il profilo bidirezionale in cui i due aspetti si influenzano a vicenda, e un ultimo, non-direzionale, in cui non emerge alcuna relazione significativa tra top-down e bottom-up.

Oltre a suddividere le persone in categorie, come era già stato fatto, i ricercatori hanno cercato di capire anche quanto fosse forte, per ciascuno, la tendenza. Alcuni mostravano effetti molto marcati in entrambe le direzioni: per loro, la soddisfazione generale influenzava molto i giudizi sui vari aspetti della vita, ma anche il contrario, mentre altri avevano dinamiche più sbilanciate, o più deboli in generale. In questo modo, lo studio non si è limitato a mettere le persone in scatole rigide, ma ha ricostruito una mappa più sfumata e realistica delle traiettorie individuali: non solo come funziona la felicità per ciascuno, ma anche quanto è stabile nel tempo.

Dallo studio è emerso che meno del 25% delle persone mostrava uno schema bidirezionale, e quindi questo modello che era considerato un po’ un compromesso non andava a rappresentare effettivamente la realtà, perché per la maggior parte del campione la felicità sembrava costruirsi in un’unica direzione o addirittura non seguiva alcuno schema evidente.
Questo risultato mette in crisi un’idea radicata nella ricerca sul benessere: che esista un meccanismo universale valido per tutti.

La felicità a oltre le medie

Un’altra scoperta interessante arriva dopo il confronto dei modelli personalizzati con quelli aggregati, cioè costruiti mettendo insieme tutti i dati per paese. I ricercatori hanno misurato la “distanza” tra ogni modello individuale e quello medio: una distanza concettuale, certo, ma anche matematica (si chiama distanza euclidea, e più è alta, più il modello della media è diverso da quello reale). In tutti i cinque studi longitudinali, la distanza media era compresa tra 1.82 e 2.41: un valore che indica differenze sostanziali tra la media della popolazione e i singoli individui.

Tradotto in termini pratici: la maggior parte delle persone non somiglia per niente alla “persona media” descritta dai modelli classici e il modello aggregato, che mostra relazioni bidirezionali tra soddisfazione globale e domini specifici, rappresenta una media teorica che raramente coincide con l’esperienza di una persona reale.

Ci siamo talmente abituati a ragionare per medie che dimentichiamo quanto siano artificiali. Quando si tratta di felicità, questa imperfezione diventa un problema concreto, perché se il tuo profilo è top-down, lavorare sull’ambiente non servirà a molto, mentre se è bottom-up, dirti di “cambiare prospettiva” potrebbe essere addirittura frustrante.
La lezione è chiara: non solo la felicità funziona in modo diverso da persona a persona, ma i modelli statistici che usiamo per capirla potrebbero essere la ragione per cui fino a ora non l’abbiamo compresa.

Le implicazioni: addio agli interventi “taglia unica”

Andando oltre la teoria e la statistica, le implicazioni pratiche di questo studio potrebbero essere importanti: le politiche pubbliche, le app per il benessere, perfino molti programmi terapeutici o aziendali si sono basati su risultati di ricerche aggregate, ma come abbiamo visto la probabilità che un intervento standardizzato funzioni per una persona reale è sorprendentemente bassa.
Serve dunque un approccio più mirato, una “medicina di precisione del benessere” in cui le persone vengano ascoltate, e i consigli calibrati sulle priorità e i meccanismi di ragionamento di ognuno: un approccio personalizzato alla felicità sarà più accurato ed eviterà sprechi di risorse e delusioni.

La felicità è una combinazione di pace interiore, disponibilità economiche e, soprattutto, pace mondiale Dalai Lama

Una situazione “in divenire”

L’approccio personalizzato apre una nuova strada: non si tratta più di scegliere un percorso valido per tutti, ma di capire per ciascuno quale direzione prevale, e se cambia nel tempo.
Perché sì, anche questo emerge dai dati: le dinamiche della felicità sono diverse da persona a persona, ma possono anche cambiare nella stessa persona nel corso degli anni. Una persona con un profilo top-down potrebbe diventare bottom-up dopo un evento traumatico (un licenziamento, una pandemia, un divorzio), o viceversa.

Limiti e prospettive future

Naturalmente lo studio ha dei limiti. Al di là del campione monumentale, si basa comunque sulle percezioni del singolo: ogni anno i partecipanti hanno risposto a una serie di domande standardizzate tra cui una, per esempio, era: “Quanto sei soddisfatto della tua vita, nel complesso?”, con risposte su una scala da 0 a 10. Accanto a questa, venivano raccolte valutazioni simili su singoli ambiti: lavoro, casa, salute, reddito, tempo libero.

Proprio questa esigenza di standardizzazione ha portato a trascurare alcuni aspetti importanti del benessere soggettivo, per esempio le emozioni quotidiane (come la frequenza con cui una persona si sente felice, ansiosa, o triste), che richiederebbero misurazioni più frequenti. Altri fattori potenzialmente influenti, come eventi traumatici, cambiamenti importanti nella vita, supporto sociale, personalità o stato di salute mentale non sono stati inclusi nei modelli, quindi i risultati restituiscono una fotografia parziale, utile per studiare le dinamiche tra diverse aree di soddisfazione, ma meno adatta a spiegare perché queste aree cambino, o come incidano nel concreto sull’esperienza emotiva delle persone. Anche gli stessi autori riconoscono che i risultati andrebbero interpretati con cautela e che occorrono ulteriori studi per validare l’approccio.

Verso la personalizzazione

Nonostante questi limiti, però, il messaggio chiave lascia poco spazio ai dubbi: la felicità è un processo personale, dinamico e mutevole, e per comprenderlo a fondo dobbiamo rinunciare all’idea di un’unica teoria generale. La tendenza attuale è quella di superare i modelli, non solo in questo, ma anche in altri settori della ricerca, come per esempio la medicina, e di puntare alla personalizzazione. In quest’ottica, anche la ricerca sulla felicità è chiamata a fare un salto di qualità.

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