SCIENZA E RICERCA
Covid-19 e bambini, la variante inglese è più trasmissibile. Rossi: "Accelerare su vaccino pediatrico"
Solo in Valle d'Aosta, Toscana e Abruzzo a partire da lunedì 11 gennaio gli studenti delle scuole superiori potranno tornare a frequentare le lezioni in presenza, con le classi al 50%. In tutte le altre regioni la riapertura è stata rimandata: al momento le date previste variano dal 18 gennaio all'1 febbraio, anche se per una conferma bisognerà attendere i prossimi dati epidemiologici, soprattutto dopo l'ipotesi del governo di accogliere i nuovi criteri proposti dall'Istituto superiore di sanità e rendere più rigidi i criteri per l'ingresso nella zona rossa che potrebbe scattare in automatico se l'incidenza settimanale dei casi fosse superiore a 250 ogni 100mila abitanti.
Nei giorni scorsi il dibattito politico intorno al nodo della riapertura delle scuole era stato molto acceso. La differenza di vedute tra gli esponenti del governo aveva portato a definire la data dell’11 gennaio, al posto del 7, per la ripresa dell’insegnamento in presenza negli istituti secondari di secondo grado, ma i presidenti delle regioni si sono compattati in larga maggioranza verso una linea prudenziale e hanno deciso di prolungare la didattica a distanza.
Dal 7 gennaio hanno invece ripreso il via in presenza le lezioni degli studenti più giovani, quelli che frequentano elementari e medie. Tuttavia anche in questo caso non sono mancate eccezioni legate ai rinvii decisi in autonomia da alcune Regioni.
Il rapporto completo dell’Istituto superiore di sanità, realizzato tra il 31 agosto e il 27 dicembre 2020 con l’obiettivo di analizzare l’impatto della scuola sulla trasmissione di Covid-19 all’interno della comunità, ha concluso che solo il 2% dei focolai registrati a livello nazionale si sono verificati in ambito scolastico, un numero che è pari a 3.173. Nell’introduzione del documento viene ricordato come “alcuni studi ipotizzino che specialmente i bambini al di sotto dei 10 anni giochino un ruolo minore nella trasmissione dell’infezione”, ma si specifica anche che “pur avendo osservato che la probabilità di sviluppare sintomi dopo l’infezione aumenta con l’aumentare dell’età, e che la carica virale (e quindi il potenziale di trasmissione) non è statisticamente differente tra sintomatici e asintomatici, non è ancora perfettamente noto quanto i bambini, prevalentemente asintomatici, trasmettano SARS-CoV-2 rispetto agli adulti”.
Secondo il report dell’Iss le scuole “sembrano essere ambienti relativamente sicuri, purché si continui ad adottare una serie di precauzioni ormai consolidate quali indossare la mascherina, lavarsi le mani, ventilare le aule” e “i bambini, in particolare nelle scuole dell’infanzia e primarie, hanno una maggiore probabilità di contrarre il Covid-19 da altri membri infetti della famiglia piuttosto che da altri bambini in ambito scolastico”. Il documento sottolinea poi il ruolo centrale “di un sistema efficace e tempestivo di test, tracciamento dei contatti, isolamento e supporto con misure di minimizzazione del rischio di trasmissione del virus”.
Un elemento di forte preoccupazione è però legato alle caratteristiche della cosiddetta variante inglese, denominata B.1.1.7, la cui elevata capacità di trasmissione potrebbe riguardare anche i bambini, complicando molto il ritorno in classe. Il nuovo ceppo non è associato a una maggiore gravità dei sintomi ma la grande facilità di contagio ne rende molto complesso il contenimento. La Gran Bretagna, dopo che nei giorni scorsi ha superato la soglia di 60 mila nuovi casi di contagio in 24 ore, è entrata per la terza volta in lockdown nazionale: un blocco totale che durerà almeno fino alla metà di febbraio e che comporta anche la chiusura di scuole primarie, secondarie e college, con l’eccezione dei ragazzi più vulnerabili e di coloro i cui genitori lavorano nei servizi essenziali.
"Questa variante non ha nessun impatto sulla patogenicità del virus ma essendo più trasmissibile anche i bambini saranno colpiti di più", spiega a Il Bo Live il professor Paolo Rossi, direttore del dipartimento di Pediatrico universitario-ospedaliero dell'ospedale Bambino Gesù di Roma e docente di Pediatria all’università Roma Tor Vergata, che esprime comunque cautela rispetto all'ipotesi che i bambini si infettino meno rispetto agli adulti. Secondo Rossi è molto importante accelerare l'introduzione del vaccino anche tra i più giovani "perché è un loro diritto" e "perché se non includiamo anche la fascia in età pediatrica non raggiungeremmo mai quella copertura dell'80% che serve per ottenere l'immunità di gregge".
Intervista al professor Paolo Rossi sul rapporto tra Covid-19 e bambini e sulla nuova variante inglese. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
"Quella inglese - introduce il professor Paolo Rossi - è una delle tantissime varianti che sono state identificate, perché più si sequenza questo virus e più varianti troveremo. Il meccanismo con cui è stata individuata è legato al fatto che in alcune zone dell'Inghilterra si è sviluppato un cluster molto evidente e il sequenziamento ha portato a scoprire la prevalenza di questa variante".
"Questa prevalenza - continua il direttore del dipartimento di Pediatrico universitario-ospedaliero dell'ospedale Bambino Gesù di Roma - ha fatto supporre che questa variante sia più contagiosa delle altre. Ma ce ne saranno anche altre meno contagiose perché i virus a RNA tendono ad esprimere moltissime varianti". Essendo più contagiosa "sicuramente i bambini saranno colpiti un po' di più" di quanto non sia stato fino ad ora. Ampliando però il discorso, il professor Rossi si mantiene cauto sull'ipotesi che il virus tra i più piccoli circoli di meno. "Penso che anche i bambini si infettino ma su di loro SARS-CoV-2 ha una minore patogenicità e siccome non sono stati eseguiti tamponi a tappeto su tutti i bambini delle scuole non è possibile avere certezze sulla diffusione del contagio".
Una cautela che, in realtà, emerge anche tra le pagine del report dell'Iss: pur evidenziando che "le scuole non rappresentano i primi tre contesti di trasmissione in Italia, che sono il contesto familiare/domiciliare, sanitario assistenziale e lavorativo", il documento spiega che nei momenti di maggiore pressione il sistema di tracciamento dei contatti e di esecuzione rapida dei test diagnostici ha avuto delle difficoltà che possono avere portato a sottostimare il numero di focolai scolastici. "L’esperienza di altri Paesi - si legge inoltre nel report - mostra che il mantenimento di un’istruzione scolastica in presenza dipende dal successo delle misure preventive adottate nella comunità più ampia. Quando sono in atto e ampiamente seguite misure di mitigazione sia a scuola che a livello di comunità, le riaperture scolastiche pur contribuendo ad aumentare l’incidenza di COVID-19, causano incrementi contenuti che non provocano una crescita epidemica diffusa".
Sono molti anche gli studi che hanno cercato di stimare l'impatto delle scuole sulla circolazione del virus. Un articolo su Nature, riepilogando i risultati di diverse ricerche condotte in diverse aree del mondo, aveva escluso che potessero essere hotspot di contagio perché anche in presenza di un focolaio il numero di persone che si ammala è limitato.
Più recentemente però Science, in uno studio che aveva l'obiettivo di valutare l’efficacia delle singole misure restrittive sull’andamento dell’epidemia e sulla riduzione dell'indice Rt, ha posto la chiusura di scuola e università al secondo posto. Ma gli autori, come ci spiega Francesco Suman in questo articolo, hanno precisato che "le stime non devono essere prese come l’ultima parola sull’efficacia degli interventi”.
Secondo l'immunologa Antonella Viola "il punto centrale è capire se la scuola segue l’andamento dei contagi presenti nella comunità oppure se è essa stessa causa di contagi. Tutti i dati a disposizione ci dicono che la scuola non ha un ruolo specifico e non incide sull’aumento generale dei contagi", ha dichiarato a Il Bo Live. Per il microbiologo Andrea Crisanti sarebbe però necessario effettuare una sperimentazione specifica perché non esiste ancora un'indagine completa che permetta di stabilire con certezza quale sia il ruolo delle scuole nella pandemia.
"Chiaramente è imprescindibile trovare un compromesso tra la tutela della salute e la necessità assoluta dei bambini e dei ragazzi all'istruzione, altrimenti questo provocherà un grave ritardo istruttivo in questa generazione. Molte scuole si sono ben attrezzate per cercare di mantenere il distanziamento e tutte le precauzioni che servono a controllare la diffusione del virus. Non è però una situazione omogenea", afferma il professor Paolo Rossi.
E' importante inoltre ricordare che attualmente i due vaccini anti Covid-19 autorizzati in Europa dall'Ema, quello di Pfizer/BioNTech e quello di Moderna, non possono essere iniettati al di sotto di una certa età: 16 anni per il primo e 18 anni per il secondo.
Ma senza vaccinare anche i più giovani è molto più arduo arrivare alla copertura necessaria per raggiungere l'immunità di gregge. "Personalmente - suggerisce il professor Paolo Rossi - punterei molto a vaccinare i più giovani. Per prima cosa perché è un loro diritto e poi perché è presente nel regolamento pediatrico: se noi adesso abbiamo la possibilità di vaccinare gli adulti è perché le agenzie regolatorie europea e statunitense, Ema ed Fda, hanno dato l'autorizzazione al mercato e questa può essere concessa solo se le aziende produttrici presentano un piano di investigazione pediatrica. Quindi sia Pfizer che Moderna lo hanno sicuramente presentato e si tratta solo di attuarlo. Occorrerà qualche sperimentazione ma credo che l'efficacia potrà essere ancora maggiore rispetto a quanto non sia per gli adulti. Cercherei di accelerare la vaccinazione sui giovani, magari con un meccanismo di approccio a stadi che parta dagli adolescenti dai 12 ai 16 anni per poi scendere verso i più piccoli. L'estensione della copertura vaccinale deve raggiungere quasi l'80% della popolazione e se non includiamo anche queste fasce non la raggiungeremo mai".
E' poi molto importante arrivare a una completa comprensione dei motivi che rendono i bambini più protetti davanti a SARS-CoV-2, predisponendoli a un'infezione che spesso rimane asintomatica o paucisintomatica. Recentemente anche la rivista Nature è tornata sull'argomento spiegando che la risposta potrebbe risiedere nella particolare efficacia del loro sistema immunitario e nella maggiore capacità dei linfociti T di rispondere ai nuovi virus.
Young children account for only a small percentage of COVID-19 infections, a trend that has puzzled scientists. A growing body of evidence suggests why: kids’ immune systems seem better equipped to eliminate SARS-CoV-2 than are adults’. https://t.co/59zo1KM6J2
— Nature (@nature) December 17, 2020
Secondo Donna Farber, immunologa alla Columbia University di New York City, intervistata da Nature i bambini sono molto ben attrezzati per rispondere all'attacco di SARS-CoV-2 e suggerisce che la ragione possa consistere nella relativa "ingenuità" dei loro linfociti T. Queste cellule fanno parte dell'adattamento del sistema immunitario, che impara a riconoscere agenti patogeni che incontra nel corso della vita, e il fatto che quelle dei bambini non siano ancora addestrate potrebbe consentire una risposta maggiore davanti a virus nuovi. L'articolo cita anche uno studio che si è concentrato su una famiglia dove entrambi i genitori avevano sviluppato un'infezione sintomatica SARS-CoV-2, confermata dal test molecolare PCR, mentre i loro tre figli, testati 11 volte in 28 giorni, sono sempre risultati negativi. Fin qui nessuna sorpresa perché sono molteplici i casi di bambini che pur vivendo con familiari positivi non sono mai risultati contagiati. Ma lo studio è andato oltre: l'analisi della risposta anticorpale ha portato a scoprire che i tre bambini, due dei quali avevano manifestato anche sintomi lievi, avevano sviluppato anticorpi a SARS-CoV-2.
La spiegazione di Melanie Neeland, immunologa del Murdoch Children’s Research Institute di Melbourne, che ha studiato la famiglia, è che la risposta immunitaria dei bambini può essere talmente rapida ed efficace da "spegnere il virus prima che sia in grado di replicarsi nella quantità necessaria per essere rilevato con il tampone".
Un'altra ipotesi spesso citata a supporto della maggiore capacità di risposta dei bambini è legata al fenomeno della cross-reattività: i più piccoli sono frequentemente colpiti dal comuni coronavirus che causano il raffreddore e gli anticorpi potrebbero offrire una certa protezione anche davanti a SARS-CoV-2. I bambini esprimono inoltre una minore quantità del recettore ACE2, utilizzato dal virus per accedere alle cellule attraverso l'interazione con la proteina Spike, e anche questo contribuisce a spiegare perché l'infezione è più lieve.
Abbiamo chiesto al direttore del dipartimento di Pediatrico universitario-ospedaliero dell'ospedale Bambino Gesù di Roma di intervenire sul tema. "Sono stati effettuati molti studi - spiega il professor Rossi - ma in realtà una ragione precisa non è stata ancora identificata. Un fattore è sicuramente il sistema immunitario dei bambini che è più vergine, più naive rispetto a quello degli adulti e risponde meglio alla sfida di questo virus e questo è stato dimostrato in alcuni studi di coorte. Un'altra possibilità è che la circolazione degli altri coronavirus tra i bambini abbia determinato una preparazione maggiore a sviluppare anticorpi efficaci".
E al riguardo un articolo pubblicato su Nature Immunology dimostra che la cross-reattività decresce con l'avanzare dell'età fino a risultare addirittura assente tra gli anziani.
"Ci sono poi fattori genetici - prosegue Rossi - come la mancanza dell'ormone androgene che induce l’espressione del recettore ACE2 e probabilmente ce ne sono altri, come i polimorfismi e la maturazione di questi recettori, che non sono ancora stati identificati in modo puntuale. E' una ricerca che va fatta perché offrirebbe informazioni preziose anche sull'adulto".
LEGGI ANCHE: