SCIENZA E RICERCA

Le antiche città amazzoniche che hanno plasmato la foresta

Le foreste sono tra gli ecosistemi più essenziali per la stabilità della biosfera, e al tempo stesso tra i più a rischio di collasso a causa delle attività antropiche. Ospitano la metà delle specie terrestri del pianeta e sono alleate essenziali nel contrasto al cambiamento climatico, perché sequestrano grandi quantità di anidride carbonica, contribuendo così – almeno in condizioni di normalità – alla regolazione del sistema climatico globale. Vi sono anche moltissimi altri benefici che le foreste elargiscono alle società umane e agli altri viventi: mitigano gli eventi meteorologici estremi, contribuiscono a regolare il ciclo globale dell’acqua e a contrastare l’inquinamento dell’aria, e hanno un profondo valore estetico, culturale ed emotivo per moltissimi individui e comunità.

Perché una foresta possa garantire questi benefici, deve essere ecologicamente “intatta”, cioè composta da una varietà di specie che interagiscono tra loro in modo funzionale. Nell’immaginario comune, questa integrità e funzionalità ecologica coincide con la totale assenza di interferenze umane. I primi esempi che ci vengono in mente quando pensiamo a ecosistemi ‘intatti’ sono le foreste, e in particolare le foreste pluviali, che molti di noi percepiscono come remote e impenetrabili, e dunque ancora libere dall’impatto umano.

In parte è vero: le foreste pluviali contengono ancora aree ‘integre’ dal punto di vista ecologico e funzionale, ad esempio in alcune regioni dell’Amazzonia e del bacino del Congo. Ma recenti ricerche dimostrano come la loro storia naturale non implichi sempre la totale assenza di interazioni con la specie umana.

Una città perduta in Amazzonia

Negli ultimi decenni si sono accumulate molte evidenze archeologiche ed ecologiche che dimostrano come le foreste pluviali abbiano ospitato comunità umane per secoli, subendo modificazioni anche significative della loro struttura ecologica. Alla luce di queste scoperte, anche l’Amazzonia può essere considerata, almeno in buona parte, una foresta secondaria, cioè ricresciuta, dopo un periodo prolungato di disturbo che ne ha modificato l’equilibrio precedente, con nuove caratteristiche funzionali e una nuova composizione di specie. Tra gli esempi più indagati in anni recenti vi è la valle del fiume Upano, un’area della foresta amazzonica ecuadoriana che oggi fa parte del Parco Nazionale del Sangay.

L’ecologo Mark Bush, direttore del Center for Global Ecology del Florida Institute of Technology, ha guidato un gruppo di ricerca che ha studiato questa zona con un approccio paleoecologico. Qui, negli anni Ottanta, erano stati scoperti i resti archeologici di diversi insediamenti umani, che si ritiene siano stati abitati, con alterne vicende, per circa un millennio a partire dal VI-VII secolo a.C.: una vera e propria ‘città perduta’ nel cuore della foresta amazzonica. Una mappatura realizzata nel 2023 con il telerilevamento laser (un metodo noto come LiDAR, Light Detection And Ranging), pubblicata su Science, aveva permesso di ricostruire con precisione la struttura urbana dell’area, restituendo l’immagine di un sistema urbano complesso, costituito da oltre 7.000 costruzioni e da una rete di strade e infrastrutture nella foresta.

Il nuovo studio paleoecologico guidato da Bush, pubblicato su Nature Communications, ha analizzato i sedimenti recuperati dal vicino lago Cormorán, uno dei bacini della zona, per ricostruire come le comunità della valle abbiano coltivato e gestito la foresta in diversi periodi storici, e come queste attività abbiano modificato l’ecosistema nel corso del tempo.

Una lunga coesistenza

I ricercatori hanno confrontato l’odierna composizione vegetale della foresta con i resti vegetali antichi, analizzando la distribuzione di pollini, fitoliti (che sono residui minerali della traspirazione delle piante facilmente rintracciabili nei fossili di origine vegetale) e frammenti di carbone – un chiaro segnale della presenza umana. I ritrovamenti archeologici della zona avevano già stabilito che nelle vicinanze degli insediamenti vi erano diverse aree coltivate, e che le colture più comuni comprendevano mais, fagioli, manioca e patata dolce. La datazione al radiocarbonio dei reperti ha permesso di stimare che il popolo Upano colonizzò l’area circa dal 700 a.C., e che le prime costruzioni complesse risalgono a circa duecento anni più tardi.

L’analisi paleoecologica conferma i dati archeologici: i più antichi residui di mais risalgono a un periodo compreso tra il 670 e il 520 a.C., epoca in cui si osserva un aumento di specie che sono rare nella struttura ecologica non disturbata dalle attività umane: ontani – alberi a crescita rapida, probabilmente usati come fonte di legname –, arbusti e piccoli alberi dei generi Begonia e Myrica, e diverse specie di graminacee (della famiglia delle Poaceae). Nell’analisi dei sedimenti del lago, i ricercatori hanno rinvenuto residui di carbone vegetale in due periodi: tra il 200 a.C. e il 100 d.C. e, più avanti, tra il 250 e il 500 d.C. Il quadro che emerge è quello di una gestione selettiva della foresta: le comunità umane che abitavano la zona modificarono l’ambiente, ma senza distruggerlo su larga scala.

Le prime attività umane nell’area (comprese agricoltura e silvicoltura), e la conseguente alterazione dell’ecologia delle foreste circostanti, risalgono dunque al V-VI secolo a.C. Nei secoli successivi, fino al 200 d.C., le piante coltivate non rimpiazzano completamente la vegetazione naturale, il che suggerisce che le aree deforestate fossero limitate, lasciando intatte ampie parti di foresta matura. La presenza, nello stesso periodo, di alte percentuali di resti di mais e di ontano indica che i terreni deforestati erano probabilmente non solo coltivati a scopo alimentare, ma anche usati per la silvicoltura.

L’abbandono degli insediamenti appare lento, avvenuto nel corso di diverse generazioni: i sedimenti mostrano una riduzione di resti fossili di fitoliti di mais e carbone vegetale e un graduale ritorno della foresta tra il 200 e il 550 d.C. Questo dato sembra confutare l’ipotesi, accettata da molti studiosi, di un rapido abbandono dell’area causato da un’eruzione del vulcano Sangay, situato a poche decine di chilometri a nord-ovest del lago Cormorán. Rimane aperta la domanda sulle motivazioni dell’abbandono di un sito che, stando a quanto i dati sembrano raccontare, si sviluppò per diversi secoli e raggiunse una certa prosperità – una domanda a cui le indagini paleoecologiche non possono rispondere.

Dopo molti secoli di rinaturalizzazione, l’area fu nuovamente frequentata da comunità indigene tra il 1500 e il 1800, che stabilirono qui attività di silvicoltura su scala locale. Dopo la cessazione di questo secondo periodo di occupazione umana, l’area è andata incontro a una nuova rinaturalizzazione, i cui esiti sarebbero stati influenzati, questa volta, anche dai cambiamenti delle condizioni climatiche locali. Dopo il 1780, quando nei sedimenti del lago Cormorán non vi sono più tracce della coltivazione di mais, aumenta l’abbondanza di palme del genere Dictyocaryum, oggi dominanti nella foresta locale, ma diffuse solitamente ad altitudini più basse e rare invece, in queste montagne andine, nelle epoche precedenti. Questo successo ecologico sarebbe dovuto – ipotizzano i ricercatori – a condizioni ambientali “insolitamente umide e calde” rispetto al passato, che avrebbero favorito l’espansione di questa specie ad altitudini superiori, forse facilitata anche dai disboscamenti selettivi realizzati dagli umani nel periodo immediatamente precedente.

Naturale?

Gli umani, dispersi in ogni ecosistema del pianeta, ne hanno plasmato pressoché ogni superficie per almeno 12.000 anni. La foresta amazzonica della valle dell’Upano, a lungo considerata integra e libera dalla presenza umana, sfida la nostra idea di cosa sia davvero “naturale”: è un esempio di come la presenza dell’uomo induca senz’altro un’alterazione degli equilibri ecologici, ma non ne implichi necessariamente la degradazione. Come scrivono gli autori dello studio, “i gruppi di specie vegetali in foreste apparentemente indisturbate possono essere il frutto di complesse storie ecologiche che includono lunghi periodi di occupazione, abbandono, rinaturalizzazione, e cambiamenti climatici”. Nello specifico, le foreste andine del parco del Sangay sono un “mosaico” modellato da diverse fasi di successione ecologica, guidate sia dalle alterazioni indotte dalle attività umane, sia dalle variazioni del clima.

Riconoscere questa complessità storica ed ecologica è importante nella definizione delle politiche di gestione e conservazione di questo patrimonio naturale. Quel che dobbiamo proteggere non è quasi mai “natura selvaggia”, ma il risultato di una prolungata interazione con la nostra specie. Naturale, insomma, non ha significato “privo di umani” nel passato, e non è detto che debba significare altrettanto nel presente. La nostra presenza nel mondo naturale non è un pericolo in sé: tutto dipende dal modo in cui scegliamo di interagire con il resto dei viventi, se in modo rispettoso – come sembra aver fatto il popolo Upano, non portando l’ecosistema locale alla degradazione – oppure in modo predatorio.

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