CULTURA

Le voci riemerse dal silenzio delle donne di Pompei

Immaginiamo di seguire con lo sguardo una donna dell’antica Roma: il suo passo si fa strada tra il brulichio del foro, tra voci, mercanti e statue; la vediamo immersa nelle faccende quotidiane, con l’ocra scuro degli affreschi a farle da sfondo, o raccolta in silenzio davanti ai lari familiari. Possiamo provare a pensare ai suoi sogni, alle paure, alle convenzioni che modellano la sua vita. Di tutto questo ci rimane però solo un’eco flebile, ancora più sottile di quella lasciata dagli uomini: per secoli infatti le donne sono state confinate nello spazio privato della casa ed escluse da gran parte dei ruoli pubblici, lasciando dietro di sé poche tracce dirette.

Eppure qualcosa è rimasto. Qualche parola scritta, frammenti di immagini, iscrizioni e oggetti: segni fragili ma tenaci, che raccontano la loro presenza quotidiana. Non figure marginali, ma protagoniste nascoste. Un filo sottile che si può afferrare a Pompei, città fissata nel tempo dalla furia del vulcano. Da qui nasce Essere donna nell’antica Pompei, la grande mostra allestita fino al 31 gennaio 2026 nella Palestra Grande, con l’obiettivo di restituire volti e parole a quel silenzio. Curata dal gruppo di ricercatrici e ricercatori coordinato da Monica Salvadori e Francesca Ghedini, l’iniziativa – accompagnata da un poderoso catalogo ricco di contributi scientifici, presentato alla scorsa edizione di Pordenone Legge – traccia uno scenario complesso e sorprendente, composto di matrone e liberte, schiave, imprenditrici e sacerdotesse: tutte parte di un mondo femminile più ricco e autonomo di quanto spesso si creda.

«La sfida è stata dar voce a quella metà del mondo che nell’antichità una voce non l’aveva – spiega Salvadori, docente di archeologia classica al Dipartimento dei Beni Culturali (DBC) dell’università di Padova –. A Pompei, grazie a un patrimonio eccezionale di pitture, sculture e oltre ottocento nomi femminili attestati da iscrizioni e graffiti, è stato possibile ricostruire una realtà sfaccettata, dove non mancavano spazi di autonomia». «Nell’antica Grecia le donne erano confinate alla sfera domestica, escluse dalla vita civica – continua la studiosa –. A Roma, pur soggette al controllo del padre, poi del tutore o del marito, potevano possedere beni, gestire patrimoni e, dopo il terzo figlio, amministrarli in autonomia secondo lo ius trium liberorum. Non è poco, in un contesto patriarcale». Esemplare è la figura di Eumachia, sacerdotessa e ricca imprenditrice pompeiana, che fa erigere un edificio monumentale nel foro sul quale pone il suo nome accanto a quello figlio: un gesto che è anche una rivendicazione di presenza e di visibilità pubblica, quasi come un primitivo empowerment femminile.

Il percorso espositivo è concepito come una narrazione che si dipana longitudinalmente: il visitatore viene accolto da affreschi, sculture e ritratti di donne, per poi immergersi nella loro quotidianità attraverso utensili, gioielli, strumenti della scrittura. «I ritratti femminili di Pompei mostrano spesso donne con tavolette cerate e stilo, simboli di istruzione e capacità gestionale – nota Salvadori –. Non erano solo immagini ideali: gestire una casa, con servitù e risorse economiche, richiedeva competenze reali». Accanto agli oggetti, la mostra dà spazio alle centinaia di nomi femminili, noti e ignoti, che emergono dai muri e dalle iscrizioni della città vesuviana, restituendo una coralità di presenze altrimenti destinate all’oblio.

Le donne romane, si diceva prima, raramente possono parlare in prima persona nello spazio pubblico. Ma ci sono eccezioni. Nel 42 a.C., dopo l’assassinio di Cesare, le autorità impongono una tassa straordinaria alle donne benestanti: è l’erudita Ortensia a presentarsi in Senato per difendere i diritti del suo gruppo sociale. La sua orazione, riportata da Appiano, è uno dei rarissimi discorsi femminili giunti dall’antichità. Ci sono anche figure di ricche imprenditrici come le pompeiane Giulia Felice, che trasforma la sua proprietà in un complesso di bagni e appartamenti in affitto, oppure Asellina, proprietaria di un’osteria, che lascia scritto sulla facciata della sua bottega il sostegno a un candidato: pur non votando, le donne riescono spesso a esercitare una discreta ma efficace influenza politica attraverso le reti sociali e commerciali. Ci sono poi le popolane, le liberte, le schiave, ultime tra le ultime. Come la greca Eutiche “dalle belle maniere”, che appare in un graffito sulla casa dei Vettii che ricorda la sua attività di prostituta. Altri graffiti testimoniano la presenza di mediche, ostetriche, piccole imprenditrici.

L’altra curatrice Francesca Ghedini, storica dell’arte antica e studiosa di iconografia, indaga da anni la condizione femminile nel mondo classico. «La cosa che colpisce – racconta – è pensare che gli oggetti esposti a Pompei siano stati maneggiati da donne reali, fino a pochi minuti prima che l’eruzione cancellasse tutto. È un contatto diretto, tangibile, con vite quotidiane che riaffiorano». Per Ghedini la ricerca sul mondo antico, arricchita dagli studi di genere, non è un esercizio erudito ma uno strumento per leggere il presente. «Capire come le donne fossero rappresentate, quali margini di azione avessero, quali limiti incontrassero – prosegue – ci aiuta a riconoscere radici profonde delle questioni di genere». Pompei, con le sue iscrizioni, i suoi affreschi e i suoi silenzi, diventa così uno specchio che restituisce un passato tutt’altro che muto, capace di parlare ancora di ruoli, libertà e invisibilità.

Negli ultimi decenni gli studi di genere hanno cambiato radicalmente lo sguardo sull’antichità. Se fino agli anni Ottanta le ricerche sulla condizione femminile erano appannaggio quasi esclusivo dei giuristi e degli storici delle religioni, oggi anche l’archeologia e la storia dell’arte offrono un contributo decisivo alla comprensione di queste tematiche. «Volevo dimostrare che le immagini, i corredi, le testimonianze materiali potevano dire molto sul ruolo delle donne – ricorda Ghedini –. Non si tratta solo delle grandi figure imperiali come Livia o Giulia Domna, ma di un intero spettro di esistenze, dalla schiava all’imperatrice». Gli ultimi volumi della studiosa hanno indagato figure come Ifigenia ed Elena, madre di Costantino, mettendo in luce non solo i rapporti familiari ma anche le ambiguità delle rappresentazioni. La sua ricerca mostra come immagini e narrazioni non siano mai neutre ma raccontino evoluzioni, conflitti e tensioni che attraversano la società.

Che cosa ci dice dunque la condizione femminile nell’antichità? Soprattutto che non si può semplificare. Non esisteva una sola esperienza, ma molteplici: donne potenti e donne ridotte al silenzio, donne istruite e donne analfabete, donne libere e donne schiave. Alcune seppero conquistarsi spazi di autonomia, altre no. Ma riconoscere che già duemila anni fa esistevano possibilità di autonomia, seppur limitate, significa comprendere che la costruzione dei ruoli di genere non è mai stata immobile: può restringersi o ampliarsi, a seconda delle epoche e delle circostanze. Pompei, con le sue pitture e i suoi graffiti, ci restituisce così un’immagine viva del femminile: un mosaico di volti e di storie, che il tempo aveva sepolto e che oggi tornano alla luce. Non come figure lontane, ma come presenze che continuano a interrogarci.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2025 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012