SCIENZA E RICERCA

Covid-19: bassa adesione all'indagine Istat sulla sieroprevalenza. Un'occasione persa?

Quando era stata annunciata era difficile prevedere che l’indagine di sieroprevalenza sulla reale diffusione del virus SARS-CoV-2 in Italia sarebbe andata incontro a una percentuale di adesione così limitata. Ci si poteva anzi aspettare che la maggioranza delle 150 mila persone finite nel campione rappresentativo identificato dall’Istat avrebbe accettato di effettuare l’esame sierologico, non solo per la possibilità di eseguirlo gratuitamente e con un test validato a livello nazionale, ma anche perché questa indagine rispondeva a un obiettivo importante, cioè quello di comprendere quanto il nostro paese sia stato effettivamente attraversato dall’epidemia, andando quindi oltre i numeri accertati dai tamponi e con la possibilità di avere risposte concrete anche davanti al grande tema dei contagi che restano asintomatici o paucisintomatici.

Invece l’indagine, avviata il 25 maggio dall’Istat e dal ministero della Salute, in collaborazione con la Croce rossa italiana, ha potuto contare sulla partecipazione di meno della metà del campione: secondo gli ultimi dati resi noti gli italiani che hanno accettato di effettuare il prelievo del sangue per la ricerca degli anticorpi al nuovo coronavirus sono appena 70 mila, a fronte dell’obiettivo di raggiungere almeno l’80% del campione. Per avere più tempo a disposizione si è deciso di prolungare la durata dell'indagine ben oltre le due settimane con cui inizialmente si sperava di riuscire a coinvolgere un numero sufficiente di persone. Ormai però siamo in dirittura di arrivo anche perché a metà luglio i test forniti dall’azienda Abbott, che aveva vinto il bando indetto dal governo italiano, scadranno e quindi si rischia di sprecarne una quota rilevante.

Tra i fattori che hanno portato a un’adesione così bassa può esserci una certa riluttanza a rispondere al telefono davanti a un numero che non si conosce, specialmente se ha una conformazione che può far temere di essere cercati da un call center che propone offerte commerciali. Un numero che inizia con 06.5510 potrebbe aver portato diverse persone a non rispondere, anche se proprio per evitare possibili fraintendimenti era stata avviata una campagna di comunicazione.

Michele Bonizzi, responsabile area salute della Croce Rossa Italiana, aveva spiegato in un'intervista rilasciata a fine giugno che il problema principale è proprio quello di “riuscire a farsi rispondere al telefono” e che circa 25 mila persone erano risultate del tutto irraggiungibili, nonostante ripetute telefonate.

Ma c’è anche un altro elemento che si ritiene abbia avuto un ruolo fondamentale nella scarsa partecipazione del campione e cioè la paura di dover restare a casa nell’eventualità che il test sierologico rivelasse la presenza degli anticorpi al virus SARS-CoV-2. In questa circostanza, infatti, si è obbligati ad effettuare il tampone per avere la certezza che la positività al virus sia terminata ed è probabile che molti cittadini, soprattutto in una fase come quella attuale in cui, dopo i mesi del lockdown e le relative ripercussioni a livello economico e lavorativo, sono tornati alle rispettive attività abbiano preferito evitare il rischio dell’isolamento domiciliare connesso all’attesa dell’esecuzione del tampone e all’arrivo dei risultati.

Dall’altra parte si è però appreso che molti cittadini hanno provato a contattare la Croce rossa per offrirsi di partecipare volontariamente all’indagine. Una procedura che avrebbe facilitato di gran lunga il lavoro, ma che naturalmente è stata esclusa perché avrebbe falsato la rappresentatività del campione. E, come ha recentemente approfondito a Il Bo Live l'epidemiologa Stefania Salmaso, uno dei problemi delle numerose indagini sierologiche avviate su scala locale è proprio "il fiorire di studi di sieroprevalenza un po’ dappertutto, condotti in modo non armonizzato, non standardizzato e soprattutto con campioni di popolazione che sono di “convenienza”, ossia limitati a quello che è facilmente disponibile". 

Il campione di 150 mila persone individuato da Istat è invece stato costruito in maniera tale da essere rappresentativo della popolazione italiana rispetto al genere, all’età, al settore di attività economica e alla regione di residenza. Vi rientrano 2015 Comuni anche in questo caso selezionati sulla base di precisi criteri. 

 

Abbiamo chiesto a Francesca Bassi e Manuela Scioni, del dipartimento di Scienze statistiche dell'università di Padova, una valutazione sui motivi che hanno determinato un basso livello di adesione all'indagine Istat sulla sieroprevalenza e sulle conseguenze che questo può comportare in termini di attendibilità dei risultati finali. 

L'intervista a Francesca Bassi e Manuela Scioni del dipartimento di Scienze statistiche dell'università di Padova sulla scarsa adesione all'indagine sierologica di Istat. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Obiettivo dell'indagine Istat

"L’indagine - introduce Manuela Scioni, ricercatrice di statistica sociale dell'università di Padova - è nata per coprire un buco informativo. La sorveglianza epidemiologica in un primo momento si era concentrata principalmente sui pazienti che avevano fatto ricorso al sistema sanitario perché erano sintomatici o perché erano contatti ad alto rischio di casi confermati. O ancora per sottogruppi di popolazione, come gli operatori sanitari. Soprattutto in una prima fase dell’epidemia, durante l’emergenza, a queste categorie di individui è stato effettuato principalmente il tampone. In una seconda fase invece alcuni enti, aziende e anche privati cittadini si sono rivolti alle strutture sanitarie per sottoporsi alla ricerca degli anticorpi, quindi un prelievo di sangue che andasse a rispondere alla domanda se si fosse contratto il virus SARS-CoV-2 anche nel passato. Queste iniziative hanno però sempre avuto un carattere limitato, circoscritto a poche realtà e anche con una diversa distrubuzione nel territorio italiano. E’ quindi rimasta di difficile valutazione la frazione di infezione globale che ha registrato il nostro Paese. Per questo motivo l’Istat ha deciso di proporre questa indagine campionaria che grazie al coinvolgimento di 150 mila persone potesse dare una stima della prevalenza della malattia nel territorio italiano, vale a dire quante persone avessero contratto il virus fino a questo momento. Questa stima avrebbe permesso di calcolare in modo più preciso molti parametri epidemiologici tra cui il tasso di letalità, cioè la percentuale di persone morte a causa del virus rispetto al totale di coloro che lo hanno contratto. E quindi l’indagine aveva l’obiettivo di dare finalmente un’immagine complessiva di quella che è stata la diffusione del virus nel nostro territorio".

Il campione rappresentativo

"Il campione - prosegue Francesca Bassi, docente di statistica economica dell'università di Padova - è stato costruito in modo da essere rappresentativo di coloro che risiedono nel nostro Paese. Spesso ci è stato chiesto come un campione di sole 150 mila persone potesse dire quanti dei 60 milioni di residenti in Italia abbiano contratto la malattia. Questo è possibile perché non è sempre necessario che un campione sia molto grande per poter essere rappresentativo e dare delle stime affidabili. Con 150 mila interviste si riesce a stimare la prevalenza, cioè il numero di persone che sono entrate a contatto con il virus, con un errore molto piccolo, pari allo 0,3%. Possiamo rendere meglio questo concetto con un esempio molto semplice: se stiamo cucinando un risotto e vogliamo capire se è pronto non serve che lo assaggiamo tutto, ma ne basta un po’, magari stando attenti a prenderne sia dal centro che dai bordi. Per il campionamento funziona allo stesso modo. L’importante è che questo gruppo di persone, seppur piccolo, abbia le stesse caratteristiche della popolazione per quel che riguarda quei fattori che riteniamo essere correlati con la probabilità di ammalarsi: certamente il genere e l’età; inoltre sappiamo che il campione è stato costruito per essere rappresentativo anche di diverse caratteristiche a livello di professione. Ad esempio, perché il campione sia rappresentativo della popolazione italiana rispetto al genere, è necessario che esso sia composto con lo stesso rapporto tra maschi e femmine. Visto che nella popolazione italiana i maschi sono il 48,7%, la stessa percentuale deve essere mantenuta nel campione di 150 mila persone, ovvero 73.050 interviste dovranno essere fatte a soggetti di sesso maschile. Se le persone che andranno a comporre il campione vengono estratte con una procedura casuale (come quando si estraggono le palline nel gioco del Lotto), le stime campionarie possono essere estese, con un piccolo margine di errore, a tutta la popolazione di riferimento". 

La scarsa adesione

"Al momento Istat - precisa la professoressa Francesca Bassi - non ha ancora rilasciato comunicati ufficiali su come sta procedendo la raccolta delle informazioni. Sono però uscite alcune informazioni, tra l’altro anche piuttosto coerenti tra loro, su giornali nazionali e locali. I dati relativi all’adesione dicono che al momento ha risposto solo il 40% delle persone che fanno parte del campione, quindi circa 70 mila persone, con un po’ di variabilità territoriale. Dal punto dei numeri non è un grosso problema: 70 mila persone è ancora un campione grande e tra l’altro è la dimensione del campione dell’indagine che è stata condotta in Spagna. Con questi numeri l’errore campionario rimane molto piccolo. Il problema è di altra natura e riguarda l’errore di selezione perché è molto probabile che quel 40% di persone che ha dato la disponibilità a partecipare all’indagine sia costituito da soggetti molto simili tra di loro e molto diversi da coloro che invece si sono rifiutati di partecipare. Ci possiamo aspettare che siano persone che non hanno grandi difficoltà a livello lavorativo e che possono disporre del tempo libero necessario per rispondere al questionario e andare a fare il test, oppure persone che hanno avuto dei sintomi o contatti stretti con persone ammalate e quindi sono particolarmente curiose di sapere se sono venute a contatto con il virus. Questo è un problema che può rendere il campione non più rappresentativo. C’è da dire che Istat ha degli strumenti a disposizione strumenti statistici per correggere in parte il campione rispetto a questo tipo errore. E’ però certo che se l’errore è in quantità notevole la correzione diventa più difficile. Quello che io mi aspetto è che sia comunque possibile ottenere una buona stima della prevalenza a livello nazionale. Sarà invece molto difficile disporre di stime affidabili su base provinciale e ancora di più a livello di sottogruppi come le categorie professionali".

I motivi della bassa partecipazione

Probabilmente il motivo principale della scarsa adesione è stata la consapevolezza che un eventuale test sierologico positivo avrebbe implicato l’obbligo di restare in isolamento dociliare in attesa dell’esecuzione del tampone e dell’arrivo dei risultati sebbene siano stati individuati anche degli altri punti di criticità che possono aiutare a spiegare il basso coinvolgimento dei cittadini.

"Un primo aspetto di difficoltà che è stato individuato - spiega la ricercatrice Manuela Scioni - è relativo alla modalità di contatto perché i cittadini selezionati venivano contattati telefonicamente da un operatore della Croce rossa italiana con un numero di telefono che poteva far pensare alla chiamata di un call center. Per questo motivo ad un certo punto si è cercato di attuare un correttivo e fare una campagna di informazione anche sui social e anche coinvolgendo i comuni che erano stati coinvolti nell’indagine. Sarebbe adesso interessante capire quante delle persone contattate sono risultate del tutto irraggiungibili perché questo ci darebbe un’indicazione di quanto ha influito questo aspetto. C’è stata poi anche una questione a livello di tempistica perché l’indagine è partita un po’ in ritardo rispetto a quanto era stato inizialmente previsto ed è cominciata quando le persone avevano ripreso la loro vita ed era stato superato il momento più critico. Ma l’aspetto più rilevante probabilmente è che, in caso di posività al test, l’interessato venisse messo in un temporaneo isolamento domiliare prima di essere contattato per effettuare il tampone. Per cercare di capire meglio quali possano essere state le motivazioni della scarsa adesione ho realizzato una word cloud tratta dai commenti ai post che sui social promuovevano l’indagine Istat. Si vede chiaramente che il problema del tampone successivo e della relativa quarantena è in effetti molto sentito. La parola che compare con più frequenza nei commenti è proprio tampone e vediamo anche la parola quarantena. Mi permetto di dire che forse sarebbe stato necessario fare una campagna di rassicurazione in questo senso proprio durante lo svolgimento dell’indagine, quando ci si è iniziati ad accorgere della scarsa risposta sul campo. Faccio un esempio: sul sito del ministero della Salute, nelle Faq relative all’indagine, si parla della questione dell’eventuale positività al test sierologico e il ministero scrive che il tampone viene fatto possibilmente entro le 24 ore successive alla comunicazione del risultato del test. Questa informazione però non è trapelata a sufficienza e forse insistere maggiormente su questo aspetto avrebbe potuto rassicurare i cittadini. Dalla word cloud si vede anche che ci sarebbe molta disponibilità a partecipare all’indagine in modo volontario: i commenti si dividevano quindi in due macro categorie, una costituita da coloro che esprimevano il proprio rifiuto a partecipare e un’altra che sottolineava invece la volontà di sottoporsi al test e auspicava di essere contattato. C’è quindi una grande parte di popolazione che sarebbe stata disponibile a partecipare in modo volontario".

Perché non si può costruire un campione basato sui volontari

"Il problema con un campione di volontari - prosegue Manuela Scioni - sarebbe stato lo stesso che è collegato al basso tasso di risposta ovvero un problema di selezione. Non si avrebbe avuta alcuna garanzia che quel campione sarebbe stato rappresentativo, anzi molto probabilmente possiamo supporre che un campione di volontari sarebbe stato costituito da persone con caratteristiche molto simili tra di loro e soprattutto con particolari caratteristiche rispetto al fenomeno che si voleva studiare. Ci si poteva aspettare, ad esempio, che le persone che hanno avuto sintomi o contatti con persone positive avrebbero voluto sottoporsi al test per sapere se effettivamente quella simil influenza che avevano avuto poteva essere coronavirus oppure no. Quindi si sarebbe rischiato di sovrastimare la percentuale di persone che hanno avuto il virus. Oppure si sarebbe potuta verificare la situazione opposta, vale a dire che si sarebbe sottoposto più volentieri al test chi sa di non avere avuto contatti con positivi e non pensa di rischiare poi un'eventuale quarantena. E allora avremmo finito per sottostimare la prevalenza. La volontarietà non permetterebbe di garantire la casualità del campione e nemmeno la rappresentatività".

La conseguenze a livello di affidabilità dei risultati

"Questi dovrebbero essere proprio gli ultimi giorni di rilevazione - spiega Francesca Bassi - e poi immagino che almeno dei risultati preliminari verranno rilasciati. Sono molto curiosa di vedere cosa emergerà e certamente Istat  userà i dati per stimare la prevalenza a livello nazionale e a livello di macro aree, usando quegli strumenti a cui ho fatti riferimento prima che permettono di correggere l’eventuale mancata rappresentatività. Mi aspetto allo stesso modo che sarà complicato poter disporre di stime affidabili della prevalenza del Covid-19 a livello locale: ad esempio, proprio nei giorni scorsi, in un’intervista ad un quotidiano locale il presidente della Croce rossa italiana della provincia di Padova ha riportato i numeri dell’indagine nella nostra provincia, aggiornati al 10 luglio. Rispetto al campione composto di 1226 persone emergeva che 482 hanno dato la disponibilità a partecipare, 525 hanno rifiutato di partecipare e gli altri erano in una fase di valutazione. Quindi se alla fine gli incerti avranno deciso di aderire si raggiungerà un campione di al massimo circa 700 persone. A questo punto non c’è più solo il problema della scarsa rappresentatività di questo campione, ma anche dell’errore campionario che con questi numeri arriva al 3%, un valore di incertezza troppo elevato per prendere opportune decisioni. Davanti a questo scenario - suggerisce Francesca Bassi - a mio parere possono tornare in gioco i tentativi che sono stati fatti nel periodo precedente alla progettazione dell’indagine, per stimare la prevalenza a partire da altre informazioni, come quelle su coloro che sono stati sottoposti al tampone. Naturalmente anche questo campione ha dei limiti perché ha un ovvio problema di selezione, però se si riuscisse ad avere maggiori informazioni su tutte le persone che hanno effettuato il tampone nasofaringeo, sia su coloro che sono risultati positivi che su coloro che sono risultati negativi, utilizzando opportuni strumenti statistici potremmo provare a fare delle buone stime anche a livello locale. Personalmente ho chiesto alla Regione Veneto di rendere disponibile alla comunità scientifica un po’ più di dati, senza ledere assolutamente alla privacy, dati aggregati che però ci dicano almeno il sesso, l’età, la professione dei soggetti che hanno fatto il tampone. Basterebbero poche informazioni, un po’ più ricche rispetto a quelle attualmente diffuse sul sito della Protezione Civile, per ottenere delle buone stime a livello locale che vadano a completare questo lavoro portato avanti da Istat e che sta incontrando alcune difficoltà". 

Il confronto con altre indagini di sieroprevalenza realizzate all'estero

"A mio avviso - conclude Francesca Bassi - l’esperienza più interessante è quella che è stata fatta in Spagna. E’ stato estratto un campione di 70 mila persone e il 75% dei soggetti contattati si è reso disponibile ad effettuare il test sierologico. In Spagna l'indagine si è conclusa da quasi un mese, si hanno già i risultati ed è stata stimata una prevalenza di circa il 5% con diversità territoriali abbastanza marcate. Un possibile punto di forza è stato quello di aver condotto l'indagine in un momento in cui la maggior parte delle persone era ancora a casa, fattore che può aver facilitato la disponibilità a rispondere. Inoltre i test sono stati eseguiti a domicilio e tra l’altro gli operatori, una volta ottenuta la disponibilità di un componente, lo estendevano a tutti i membri della famiglia, utilizzando il test sierologico a risposta rapida (puntura sul dito). Per chi mostrava la presenza di anticorpi nel sangue non è stato imposto il tampone obbligatorio, ma è stato semplicemente suggerito di contattare il proprio medico nel caso di insorgenza di sintomi nei giorni successivi. Per concludere, ripensando a quello che è successo nel nostro Paese, forse il fattore chiave non è stato neanche tanto la mancanza di disponibilità da parte dei nostri concittadini. Certamente c’è stato il problema delle telefonate e questo lo ha sottolineato anche la Croce Rossa, ma forse il vero punto critico è il fatto di doversi recare in un ambulatorio per effettuare il test, poi aspettare alcuni giorni per avere i risultati e sapere se necessario sottoporsi poi anche a tampone. Insomma un meccanismo percepito un po’ troppo lungo e complesso".

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