SCIENZA E RICERCA

Covid-19 e immunità: parola a Maria Rescigno

Dal 22 ottobre all’1 novembre Genova tornerà ad ospitare il Festival della Scienza uno dei più grandi eventi di divulgazione della cultura scientifica al mondo, che quest’anno avrà in Onde la sua parola chiave. Quella che ci apprestiamo a vivere e a raccontarvi sarà sicuramente un’edizione particolare, non solo perché ricorre l’anno della piena maturità del festival ma anche perché, attraverso la scienza, cercheremo di capire diversi aspetti legati al comportamento del virus SARS-CoV-2, da cui ha avuto origine la pandemia da COVID-19 che sta continuando ad avere un impatto molto forte sulla nostra società e sulle nostre vite.

All’interno del festival Il Bo Live, con il coordinamento scientifico di Antonella Viola, curerà il programma di conferenze in presenza dedicato ai temi della pandemia: “Onda COVID-19: capire per reagire”. Nel corso di questo mese e mezzo che ci separa dall’inizio del festival, la redazione del magazine dell'università di Padova realizzerà un percorso di avvicinamento all’evento attraverso le interviste di “Aspettando Genova – COVID-19: capire per reagire”. Avremo un ospite a settimana, con cui analizzeremo gli aspetti scientifici dell’impatto che la pandemia ha avuto sulla società.

Nell'approfondimento che ha aperto il ciclo di interviste abbiamo ragionato con Paolo Vineis sulla prima pandemia del mondo pienamente globalizzato. L’ospite del nostro secondo incontro è Maria Rescigno, professoressa di patologia generale e group leader dell’Unità di immunologia delle mucose e microbiota presso l’Humanitas Research Hospital. Dal 2001 al 2017 ha diretto l’Unità di immunologia dello Istituto europeo oncologico. Nel 2016 ha fondato Postbiotica una start-up sul microbiota, ambito in cui è tra i massimi esperti al mondo. Scienziata e imprenditrice, ha deciso di diventare una ricercatrice quando, dopo un primo percorso come biochimica, ha scoperto l’immunologia, disciplina che l’ha portata a specializzarsi nello studio del legame tra il microbiota e il sistema immunitario e nell’individuazione dei meccanismi attraverso i quali combattere lo sviluppo di patologie tumorali.

Con la professoressa Rescigno abbiamo voluto soffermarci sul tema dell’immunità a SARS-CoV-2 e agli altri coronavirus finora noti: un argomento su cui sin da subito si è indirizzata l’attenzione della ricerca e che oggi, a circa nove mesi dall’identificazione di SARS-CoV-2, ha consentito di arrivare ad una maggiore comprensione delle modalità attraverso cui il nostro sistema immunitario può rispondere all’attacco del virus, un’azione che non si esaurisce nella formazione di anticorpi specifici, ma si estende anche alla capacità protettiva delle cellule T della memoria. Con il gruppo Humanitas Rescigno ha inoltre condotto, insieme al direttore scientifico Alberto Mantovani, il progetto Covid Care Program con il quale sono state sottoposte a test sierologico circa 4000 figure professionali operanti in ambito sanitario con l'obiettivo di conoscere l’effettivo sviluppo della risposta immunitaria (IgG) al virus SARS-CoV-2 in una popolazione specifica come quella ospedaliera e in un'area particolarmente colpita dall'epidemia come la Lombardia. 

Intervista a Maria Rescigno, docente all'Humanitas University. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Quando parliamo di risposta immunitaria - introduce Maria Rescigno - facciamo riferimento a due aspetti: uno è il più veloce ed è la risposta immunitaria innata che porta alla produzione di citochine infiammatorie che determinano uno stato infiammatorio nella parte di organismo in cui sta avvenendo l’infezione. Successivamente subentra la risposta adattativa che porta allo sviluppo di anticorpi e di cellule in grado di riconoscere le cellule infettate e le uccidono. In particolare la produzione di anticorpi è resa possibile dai linfociti B, mentre a riconoscere le cellule infettate sono i linfociti T. Nel caso del SARS-CoV-2 si è visto che il virus attiva una risposta anticorpale in quasi tutti i pazienti che abbiamo analizzato, sono pochi quelli in cui non si è sviluppata. Bisogna però aggiungere che, a differenza di tanti altri agenti infettivi o patogeni, il SARS-CoV-2 è molto particolare perché induce una risposta che si differenzia parecchio su base individuale. In generale quando analizziamo una risposta normale ad un agente infettivo prima si ha la produzione delle immunoglobuline M e in un secondo momento le immunoglobuline G. Le igM sono meno affini e quindi si legano con minore avidità all’antigene o all’agente infettivo e sono quelle che normalmente vengono prodotte prima. Nel caso del SARS-CoV-2 si è visto che alcuni pazienti producono prima le IgM e poi le IgG o viceversa prima le IgG e poi le IgM. L’infezione è molto individuale come tipo di risposta immunitaria".

Durata della risposta immunitaria 

"La risposta immunitaria comincia tra il quinto e il settimo giorno dall’inizio dell’infezione e poi prosegue ma sulla durata degli anticorpi non abbiamo ancora certezze perché gli studi in merito sono abbastanza contrastanti: alcuni fanno vedere che a distanza di tre mesi la risposta è ancora presente, mentre altre ricerche mostrano che decade velocemente. Di recente stavo leggendo una review del 2016 che, a seguito della seconda ondata di infezioni provocate dalla MERS, concludeva mettendo in guardia da future infezioni da coronavirus emergenti. Purtroppo non abbiamo seguito questo monito e l’arrivo di questa infezione ci ha colto molto impreparati. La differenza principale con la MERS e la SARS è che queste erano malattie molto più aggressive e - poiché i coronavirus responsabili di quelle malattie inducevano principalmente una risposta innata ma avevano una forte capacità di immuno-evasione, quindi difficilmente inducevano una risposta adattativa - il tasso di letalità era molto più elevato rispetto a quello di SARS-CoV-2. Per quanto riguarda i banali coronavirus del raffreddore sappiamo che la risposta immunitaria non è molto duratura, mentre quella a SARS e MERS è più lunga. Sulla SARS-CoV-2 non abbiamo ancora un follow-up dei pazienti che ci possa permettere di dire quanto durerà. Finora si è però visto che molti dei pazienti conservano, almeno a tre mesi, le immunoglobuline".

Gli asintomatici sviluppano ugualmente gli anticorpi a SARS-CoV-2?

"La risposta anticorpale è stata riscontrata anche nei soggetti asintomatici o paucisintomatici sebbene si sia visto che è di magnitudine leggermente inferiore rispetto a quella che si sviluppa tra i pazienti veri e propri. Nella nostra esperienza abbiamo potuto osservare che se un paziente sviluppa la polmonite la risposta anticorpale è molto più elevata e, in generale, tra i soggetti in cui la malattia provoca sintomi più severi si ha un maggiore sviluppo di anticorpi. Per quanto riguarda nello specifico gli asintomatici noi la risposta anticorpale l’abbiamo riscontrata".

Le cellule T della memoria e la cross-reattività

"Sono stati pubblicati anche degli studi che hanno dimostrato che alcuni soggetti non sviluppano anticorpi ma solo una risposta di tipo T, quindi quella più cellulo-mediata. L’aspetto interessante è che la risposta T è stata osservata anche tra soggetti che non sono stati esposti a SARS-CoV-2 e probabilmente deriva da una risposta precedente ad altri coronavirus. Tuttavia non abbiamo ancora la certezza che nei soggetti resistenti allo sviluppo della malattia sia stato proprio questo il meccanismo che li ha protetti. Dovremmo fare uno studio prospettico per vedere se i soggetti che hanno una riposta T contro altri coronavirus sono più protetti contro Covid-19. Al momento non possiamo dirlo, possiamo fare solo una correlazione. Le cellule T della memoria sono delle cellule che vengono attivate durante il processo di infezione o durante la vaccinazione. In altre parole tra i vari linfociti che si attivano c’è una piccola popolazione che sopravvive e può durare anche diversi anni. Nel caso dei vaccini più efficaci la durata di questa risposta può arrivare a una decina di anni. Questo tipo di risposta però si sviluppa solo ed esclusivamente quando si è stati già esposti al virus o a virus che sono simili all’agente infettivo in questione".

Cosa sono gli anticorpi neutralizzanti e in che modo possono essere usati a livello terapeutico?

"Per anticorpo neutralizzante si intende un anticorpo che si lega ad una proteina del virus che tendenzialmente è coinvolta nel processo di infezione. Quindi un anticorpo neutralizzante, legandosi a questa proteina, non permette l’interazione tra il virus e la cellula da infettare. Purtroppo non tutti gli anticorpi sono in grado di esercitare questa azione o perché si legano ad altre proteine che non sono coinvolte in questo processo di internalizzazione o perché si legano con un’affinità bassa e sono facilmente spiazzati. E’ neutralizzante solo l’anticorpo che non permette l’infettività del virus". 

Per quanto riguarda future applicazioni terapeutiche e la possibilità di isolare i più potenti tra gli anticorpi neutralizzanti prodotti dai pazienti positivi per farne dei farmaci riproducibili su ampia scala "ci sono diversi candidati che sono però stati testati solo in studi preclinici, quindi non sappiamo se effettivamente potranno essere traslati nella pratica clinica. La terapia basata sul plasma dei pazienti guariti è quella che fino ad ora ha dato i risultati più interessanti, anche se non sono ancora stati pubblicati degli studi che ne abbiano confermato l’efficacia. Si tratta comunque di un approccio che può essere utilizzato solo sui pazienti con malattia conclamata e non può avere una funzione preventiva, come invece accadrebbe nel caso si arrivasse allo sviluppo di un vaccino efficace".

Le reinfezioni

"Nella valutazione dei casi di reinfezione bisogna fare delle distinzioni perché c’è stata molta confusione. Alcuni episodi hanno riguardato persone guarite clinicamente in cui però il virus non è stato ancora debellato. In questi casi probabilmente la reinfezione è, in realtà, una recrudescenza del virus che non era mai andato via dal soggetto. E’ come se fosse una sorta di recidiva. Ci sono però stati anche casi sporadici di soggetti dove la reinfezione è avvenuta molto tempo dopo rispetto alla prima ed è quindi abbastanza improbabile che possa essere ricondotta alla presenza del virus rimasto nell’organismo. L'aspetto positivo è che i soggetti che sono andati incontro alla reinfezione difficilmente hanno avuto bisogno di cure ospedaliere, quindi la seconda infezione è stata molto meno aggressiva della prima".

Sono possibili forme più gravi per chi si reinfetta?

"Questa è una risposta che viene chiamata ADE, Antibody-dependent Enhancement, in cui può accadere che se l’anticorpo non è neutralizzante è possibile non solo che non impedisca l’ingresso del virus ma che, legandosi al virus, permetta in qualche modo un’ulteriore esacerbazione della risposta immunitaria, soprattutto di quella innata connessa alle citochine infiammatorie che sono responsabili della vera e propria immunopatogenicità del virus. Quindi nel caso in cui dovesse verificarsi questo meccanismo una precedente esposizione al virus potrebbe essere pericolosa. E’ una situazione che si è osservata nella MERS ma anche nel virus della Dengue dove si è visto che la componente della ADE era molto forte e poteva essere un fattore di rischio. Nella SARS-CoV-2 questo non è stato ancora dimostrato e soprattutto da uno studio sui macachi, uscito su Science, si era visto che in realtà i soggetti che erano stati esposti allo stesso virus erano protetti".

Da cosa dipende l'eccessiva risposta immunitaria che si verifica in alcuni pazienti?

"Il meccanismo è del tutto sconosciuto. Non sappiamo ancora come mai alcuni soggetti rispondano con questa iper attivazione del sistema immunitario. E’ possibile che possano partecipare dei meccanismi di immuno-evasione del virus che rendano la risposta immunitaria principalmente di tipo innato. Quello che si è visto è che i soggetti più gravi hanno un’iper attivazione della risposta immunitaria che è molto ampia, diretta non soltanto verso l’infiammazione ma anche di tipo TH2 che è quella che osserviamo nei confronti di alcuni patogeni, come parassiti ed elminti, ed è un fenomeno un po’ bizzarro. E’ proprio una iper stimolazione del sistema immunitario. Inoltre, poiché si sa che le donne sono meno suscettibili al Covid, un recentissimo studio su Nature ha fatto vedere che le donne sviluppano una risposta immunitaria nei confronti di SARS-CoV-2 meno forte rispetto agli uomini. Potrebbero quindi avere un ruolo anche delle variazioni legate al sesso e a componenti genetiche".

Perché i bambini sono meno suscettibili al virus SARS-CoV-2?

"La minore suscettibilità dei bambini potrebbe essere legata alle vaccinazioni che portano a una iper stimolazione del sistema immunutario, soprattutto adattativo. Una seconda possibilità è che il timo, cioè la ghiandola che sviluppa i linfociti T, è molto più grosso nei bambini rispetto a quanto non sia tra negli anziani perché nel corso degli anni regredisce e la possibilità di rispondere a nuovi virus si riduce nel corso della vita. La terza spiegazione è che i bambini sono molto più esposti ai coronavirus del raffreddore e quindi, se è vera l’ipotesi che ci sia una cross-reattività e che i linfociti T verso altri coronavirus possano facilitare una risposta immunitaria verso il nuovo coronavirus, potrebbe essere questa la chiave di lettura".

Il ruolo dei test sierologici

"A mio avviso i test sierologici sono fondamentali anche per capire la percentuale di popolazione che ha contratto l’infezione in forma asintomatica. Poiché, soprattutto all’inizio dell’epidemia, non abbiamo fatto un gran numero di tamponi, molti soggetti che sono venuti a contatto con il virus li abbiamo persi perché non sono stati monitorati nel momento del tampone. Il test sierologico ci permette quindi di capire qual è la vera percentuale di esposizione al virus. Infatti anche lo studio di Vo’ era molto interessante perché aveva evidenziato che circa il 40% delle persone che avevano contratto il virus erano asintomatiche. Il virus ha circolato molto di più di quanto noi non pensiamo. Il test sierologico può valere per due motivi: il primo è che permette di fare un’analisi della popolazione e il secondo è che aiuta a monitorare se sono in atto dei focolai di cui non eravano a conoscenza. E’ chiaro che poiché la risposta immunitaria ha un tempo di attivazione che va dai cinque ai sette giorni potrebbe essere tardivo rispetto al monitoraggio di un’infezione in atto".

La frontiera dei test rapidi e l'importanza della vaccinazione antinfluenzale

I test sierologici non possono essere considerati uno strumento di diagnosi per il Covid-19 proprio in considerazione dei tempi necessari prima che si attivi una risposta immunitaria. "Per questo motivo è preferibile avere un’analisi della presenza del virus attraverso i tamponi nasali, anche se io sono decisamente più favorevole all’utilizzo della saliva come possibile test perché è molto meno invasivo e più facile da eseguire anche diverse volte per monitorare più constantemente alcuni ambienti, come quello scolastico. Per il futuro penso che bisognerebbe effettuare un monitoraggio basato il più possibile proprio su test meno invasivi che sarebbero fondamentali per aiutarci a tenere sotto controllo eventuali focolai. Negli Usa ce ne sono già alcuni che sono stati approvati. Vanno ad analizzare la presenza dell’Rna virale che non necessariamente correla con la presenza di un virus infettivo, però ci dice perlomeno che quel soggetto in un determinato momento è esposto al virus. Secondo me questo tipo di test potrebbero essere una soluzione. In vista dell’autunno ritengo che sarà poi fondamentale l’estensione della vaccinazione antinfluenzale perché con la riapertura delle scuole moltissimi bambini avranno dei sintomi influenzali e quindi si creerà il panico tra i genitori visto che sarà difficile distinguere tra banali sintomi influenzali o contagio da Covid-19. Se invece avremo vaccinato il più possibile la popolazione contro il virus dell’influenza saremo molto più preparati".

Perché oggi la malattia tende a presentarsi in forme meno gravi?

"A mio avviso non abbiamo ancora nessuna indicazione del perché oggi la malattia si presenti in forme decisamente meno gravi. Molto probabilmente la tendenza è anche legata alla carica virale: c’è molta meno gente che è infettata ed è fortemente diminuito il numero delle persone sintomatiche, quindi il virus si trasmette in quantità minore e di conseguenza il nostro organismo riesce a sviluppare più facilmente una risposta immunitaria. Una seconda possibilità è l’assenza di infezioni concomitanti perché è un periodo in cui anche il banale raffreddore tende a non circolare e quindi non va ad immunodeprimere il sistema immunitario. In altri momenti dell’anno invece il sistema immunitario può trovarsi ad essere coinvolto in un altro tipo di infezione e fa fatica a contrastare il SARS-CoV-2. Un’altra spiegazione è legata al microbiota, ambito su cui lavoro nello specifico: da questa prospettiva possiamo considerare l’ipotesi che durante il periodo estivo il microbiota sia più protettivo perché mangiamo degli alimenti ricchi di vitamine che hanno un effetto positivo. Siamo anche meno stressati, più felici, c’è la vitamina D che ricaviamo dal sole, insomma ci sono tanti motivi. Oltre al fatto che c’è molta meno diffusione di virus, questo è l’elemento fondamentale perché altrimenti non si spiegherebbe come mai in paesi come la Florida o la California, dove le temperature sono elevate, la pandemia si sia diffusa così fortemente".

Siamo abbastanza preparati in vista dell'autunno?

"Rispetto al passato adesso sappiamo meglio come combattere il virus. Mentre tra febbraio e marzo l’arrivo del SARS-CoV-2 ci aveva trovato completamente impreparati, ora i nostri clinici sanno come affrontare la malattia, sanno che la diagnosi precoce è fondamentale perché i trattamenti sono più efficaci se effettuati all’inizio e, soprattutto, le persone hanno imparato ad utilizzare la mascherina. Abbiamo imparato che dobbiamo difenderci. In questo momento l’unico vaccino che abbiamo è la mascherina. Penso che la prevenzione sia fondamentale per ognuno di noi e al momento la possiamo fare solo attraverso la mascherina. Io non sono catastrofista come molte persone che ritengono probabile una seconda ondata simile a quella di marzo. Secondo me questo non si verificherà. Però dobbiamo dare una mano a tutti, soprattutto ai medici evitando di sovraffollare i pronto soccorsi, sia attraverso la vaccinazione antinfluenzale che utilizzando il più possibile i sistemi di protezione individuale come la mascherina".

 

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