SCIENZA E RICERCA

Covid-19, il ruolo dei test sierologici nella fase di uscita dal lockdown

Difficilmente potranno dare una patente di immunità, come ha puntualizzato nei giorni scorsi anche l’Oms, ma le aspettative sul ruolo che potranno avere i test sierologici, che permettono di scoprire attraverso l’analisi anticorpale se una persona è stata contagiata dal virus Sars-CoV-2, magari senza saperlo, rimangono alte. E’ bene chiarire subito che non sono uno strumento in più per effettuare la diagnosi di positività al Covid-19, ma possono rivelare se il sistema immunitario ha sviluppato anticorpi specifici e quindi se l’infezione è stata contratta in passato, sebbene per avere la certezza che la carica virale si sia completamente negativizzata occorra, appunto, effettuare il tampone. A livello nazionale la gara indetta dal commissario per l’emergenza Domenico Arcuri è stata vinta dall’azienda americana Abbott. Il colosso farmaceutico ha garantito la fornitura gratuita di 150 mila test che serviranno a verificare in quale misura il campione di italiani, scelto in maniera tale da essere rappresentativo della popolazione, è entrato a contatto con il virus. L’obiettivo è realizzare un’analisi epidemiologica che darà informazioni importanti sulla reale diffusione dell’epidemia dal momento che è ormai chiaro come la malattia possa presentarsi anche in forma completamente asintomatica. A questo si aggiunge il fatto che allo scoppiare dell’emergenza i tamponi venivano effettuati solo alle persone con sintomi gravi e questo ha contribuito ad una sottostima del numero totale di contagiati. Anche le Regioni, dopo le prime campagne di screening rivolte primariamente agli operatori sanitari, stanno definendo la loro strategia e la linea, pur delle differenze nelle tempistiche, nella scelta dei fornitori e negli accordi con i laboratori, è stata quella di autorizzare l’accesso ai test da parte di imprese e cittadini.

Le sorprese non mancano. Ad Alzano Lombardo e Nembro, due delle località più duramente colpite dall’epidemia, i primi test sierologici effettuati sulla popolazione hanno rivelato che oltre il 60% degli abitanti è entrato in contatto con la malattia. Il numero è elevato ma occorre ricordare che lo studio di Vo’ euganeo, realizzato in un contesto di minore circolazione della malattia rispetto a quello lombardo, aveva già rivelato come in poco tempo il virus avesse raggiunto oltre 70 persone tra i residenti del piccolo paese, in oltre il 40% in forma asintomatica. Ci sono poi le singole testimonianze di persone che hanno raccontato di aver avuto a dicembre dei sintomi simili a quelli di una pesante influenza e di aver poi scoperto grazie ai test sierologici che in realtà avevano contratto il virus Sars-CoV-2.

Conoscere in che misura l’infezione abbia già girato in Italia è utile per rivedere le stime sulla mortalità, che ad oggi continuano ad essere più elevate rispetto alla media europea e a quella globale, ma lo studio degli anticorpi è prezioso anche per comprendere la durata della risposta immunitaria e in quali casi gli anticorpi sono realmente neutralizzanti.

I test sierologici vanno ad individuare due tipologie di immunoglobuline, prodotte in momenti diversi dell’infezione. Le immunoglobuline M sono quelle che si sviluppano prima e compaiono dopo qualche giorno dal momento in cui l'organismo entra a contatto con il virus. Le immunoglobuline di tipo G appaiono invece più tardi, dopo una quindicina di giorni, e la loro presenza indica un contagio avvenuto più indietro nel tempo, seppure questo non significhi che l'infezione sia stata completamente superata e che la carica virale si sia esaurita. 

La buona notizia è che secondo uno studio cinese pubblicato recentemente su Nature Medicine, firmato da scienziati della Chongqing Medical University, la totalità dei pazienti con Covid-19 sviluppano le IgG contro Sars-CoV-2 entro 19 giorni dall'inizio dei sintomi clinici. 

 

Aver scoperto che chi guarisce da Covid-19 sviluppa gli anticorpi rafforza il ruolo dei test sierologici e un articolo recentemente pubblicato su Nature riflette proprio sul ruolo che questi test potranno avere nei Paesi che stanno allentando il lockdown: secondo gli esperti citati nell'articolo ci vorrà un po' di tempo prima che possano essere utili come sperato e non mancano alcune criticità rappresentate dalla proliferazione dei test di tipo commerciale, che non garantiscono un adeguato livello di sensibilità e specificità, ma anche dal ruolo del lasso temporale dal momento dell'avvenuta infezione a quello dell'esecuzione del test e le incognite sulla durata della memoria immunologica. L'articolo riporta anche i dati di un altro studio cinese, in questo caso non ancora sottoposto a peer review, secondo il quale 10 persone su 175 pazienti guariti dopo aver contratto la malattia in forma lieve, non hanno prodotto anticorpi neutralizzanti rilevabili. "Queste persone erano state infettate, ma non è chiaro se abbiano un'immunità protettiva", ha affermato Wu Fan, microbiologo dell'Università di Fudan a Shanghai, in Cina, che ha guidato lo studio.

Per entrare nel dettaglio del ruolo che potranno avere i test sierologici in questa fase 2 abbiamo intervistato la professoressa Antonella Viola, immunologa dell'università di Padova e direttrice dell'Istituto di ricerca pediatrica Fondazione Città della speranza alla quale abbiamo anche chiesto un parere sulla terapia che prevede l'utilizzo del plasma dei pazienti guariti dal Covid-19.

Intervista all'immunologa Antonella Viola sul ruolo del test sierologici per il virus Sars-CoV-2. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Questa è una fase - spiega la professoressa Antonella Viola - in cui il test sierologico ha un ruolo veramente molto importante. Devo dire che all’inizio è stato necessario un periodo per la validazione dei test, adesso sono stati scelti quelli che sono affidabili, quelli cioè che hanno un’alta sensibilità e un’alta specificità e quindi non riconoscono troppi falsi negativi e troppi falsi positivi. Dai test conosceremo quale è stata la diffusione del contagio, quanto la pandemia si è veramente diffusa nei nostri territori e nelle nostre città. Questo è molto importante perché mentre il tampone fa una fotografia immediata, ci dice se una persona ha il virus in quell’esatto momento ma non può stabilire se quella persona l’ha incontrato in passato, il test sierologico questo ce lo può dire. Quindi dal punto di vista epidemiologico è importantisismo e lo è anche dal punto di vista immunologico perché, adesso che i test sono validati, ci possono dire quanto è diffusa la produzione di anticorpi, quanto durano nel tempo, perché se ripetiamo queste analisi nel tempo possiamo capire se c’è un decadimento rapido o se invece gli anticorpi persistono. Vorrei poi aggiungere che quando siamo entrati in questa fase 2 abbiamo tutti sottolineato quanto sia fondamentale diagnosticare tempestivamente ed evitare quindi che nascano nuovi focolai incontrollati e incontrollabili. Ovviamente però il tampone non può essere effettuato a tappeto perché i costi sono alti e i tempi sono lunghi. Invece accoppiare i due strumenti soprattutto per alcune categorie, penso agli operatori del sistema sanitario, potrebbe essere estremamente interessante".

La professoressa Viola chiarisce poi se un test sierologico rivela che il sistema immunitario è entrato a contatto con il virus Sars-CoV-2 e ha prodotto gli anticorpi, è necessario effettuare il tampone anche nel caso in cui le immunoglobuline riscontrate siano soltanto le IgG. “Per capire se una persona che è stata positiva è diventata negativa devo fare il tampone. Tra l’altro c’è una risposta molto strana a questo virus perché le immunoglobuline G vengono prodotte da subito. Quindi non è assolutamente un segnale di guarigione. E’ solo un segnale di risposta al virus, però ci sono persone che hanno le immunoglobuline G ma sono positive al tampone. L’unico elemento che ci può dire se una persona non è più contagiosa sono i due tamponi, di seguito, negativi".

Rispetto alle criticità messe a fuoco dall'articolo firmato da Smriti Mallapaty su Nature, vale a dire il rischio di una proliferazione di test commerciali non sufficientemente affidabili, il nodo del lasso temporale tra il momento dell'infezione e quello dell'esecuzione del test e le incognite sull'effettiva durata della protezione anticorpale, l'immunologa Antonella Viola si sofferma soprattutto sul primo punto. "Prima di tutto - spiega - bisogna assolutamente scoraggiare il proliferare di test che non siano stati validati dal Sistema sanitario nazionale ed è una cosa che io e molti miei colleghi immunologi abbiamo detto dal primo momento. Il test fai da te è il pericolo maggiore, non sai quanto sia specifico, quanto sia sensibile e magari ti viene venduto, e noi l’abbiamo visto, con un fogliettino che dice che se hai le immunoglobuline G positive non sei infettivo e puoi tornare a una vita normale. Ecco questo è molto pericoloso e qui è lo Stato che deve intervenire tempestivamente per bloccarlo. Oggi però appunto quelli validati ci sono e quindi se lasciamo fare al Ssn e alle Regioni non dovrebbero esserci problemi. Rispetto agli altri due punti è una questione di metodo, come sempre nella scienza, per cui i test sierologici vanno usati con un criterio, con un metodo che deve essere standardizzato e che permetterà di raccogliere dei dati che sono importanti”.

Quanto agli studi che hanno riportato l’assenza di risposta anticorpale in pazienti che hanno contratto la malattia in forma lieve la professoressa Viola chiarisce che “in alcuni pazienti si sviluppano e in altri no. Dipende molto dalla selezione dei pazienti: se uno studio è basato completamente su pazienti che hanno avuto una sintomatologia media o grave troverò gli anticorpi. Se invece allargo lo studio anche a pazienti che sono stati asintomatici ecco che probabilmente troverò delle sorprese. Noi stiamo portando avanti i nostri studi e al momento stiamo riscontrando una grande variabilità di risposta immunitaria tra paziente e paziente. E lo stesso mi viene riferito da molti colleghi. Quando è uscito quel lavoro su Nature che evidenziava una risposta anticorpale sulla totalità dei pazienti ho pensato che si trattava un’ottima notizia perché vuole dire che comunque gli anticorpi vengono prodotti. Se anche non dovesse avvenire nel 100% dei pazienti ma fosse, ad esempio, l’80% è in ogni caso una buona notizia. Quello che stiamo capendo è che la risposta immunitaria c’è, una protezione si sviluppa e quindi queste informazioni sono essenziali sia per la terapia, sia eventualmente per affrontare la fase 3. E per sapere quanto dura la protezione dobbiamo analizzare la risposta anticorpale delle persone nel tempo. Anche su questo aspetto probabilmente non sarà la stessa cosa per tutti: chi ha avuto una sintomatologia molto lieve e non ha prodotto anticorpi con un grande titolo probabilmente non sarà protetto a lungo, però mi aspetto che invece le persone che hanno prodotto un buon tipo di anticorpi neutralizzanti, ribadiamo sempre che bisogna validare che gli anticorpi siano effettivamente neutralizzanti, questa protezione si manterrà per diversi mesi”.

Terapia con il plasma 

Abbiamo chiesto alla professoressa Viola anche un parere sulle terapie che si basano sul plasma dei pazienti guariti dal Covid-19. "La terapia con il plasma è antichissima: ricordiamo che è il motivo per il quale nel 1901 Emil Adolf von Behring ha vinto il premio Nobel e successivamente nel 1908 Paul Ehrlich ha vinto un secondo premio Nobel per questo. E’ una terapia che è stata anche ampiamente utlizzata. Sicuramente può funzionare, non ci sono motivi per pensare che non debba funzionare. Però al momento non ci sono degli studi clinici controllati, nel senso che ognuno l’ha utlizzata in tempi diversi, in concentrazioni diverse, in pazienti che sono stati selezionati in modo diverso. In questo modo è difficile trarre delle conclusioni. Sicuramente è molto interessante, è importante far partire degli studi clinici controllati in cui l’unica differenza tra i pazienti sia se hanno ricevuto la terapia con il plasma oppure no, per capire la sua efficacia. E’ inoltre importante capire quando va somministrata questa terapia, se occorre farlo all’inizio o quando il paziente è in una condizione più grave come sta succedendo adesso. Dobbiamo però ricordarci che comunque non è una terapia priva di rischi e che, come accade quasi sempre in medicina, il rischio c’è e ci sono quindi dei pazienti in cui si possono sviluppare delle complicanze anche piuttosto gravi. Quindi la scienza è assolutamente aperta nei confronti di questa terapia, ma come sempre con rigore".

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