Il mondo del libro è, pure se spesso viene dimenticato, anche un mercato: quello dell’editoria. I libri sono oggetti frutto della creatività umana che divengono prodotti da progettare, vendere, acquistare, o poi parzialmente rendere e, ahimè, anche smaltire. Sono però prodotti ogni volta unici e quindi particolarmente complessi. Ogni libro è una scommessa, alla cui vita concorrono molti professionisti, dallo scrittore all’editore, passando per l’editor, il traduttore, il grafico, il correttore di bozze, il tipografo e senza scordare il libraio che sta in fondo alla catena (o il recensore) e tenendo a mente la moderna figura dell’agente letterario che spesso si fa da intermediario tra autore e casa editrice.
Ecco: le grandi fiere internazionali del libro sono il luogo dove tutti questi professionisti si radunano, una volta all’anno, per fare affari.
Prodotti, affari, mercato: non sono termini che assoceremmo all’idea romantica di libro che erroneamente abbiamo. Invece, anche la letteratura (e la saggistica, e la poesia ecc.) va sostenuta dal danaro e i luoghi che permettono a questo mondo di creare valore, anche attraverso la compravendita di diritti, sono luoghi benedetti.
Una delle più famose fiere editoriali del mondo è la Buchmesse, la Fiera del Libro di Francoforte. Come la conosciamo oggi nasce nel 1949 ma si tratta di una rifondazione, dal momento che affonda le radici molto lontano nel tempo. Proprio vicino a Francoforte è dove Gutenberg ha inventato la stampa a caratteri mobili. Era il 1450 e quell’anno ha cambiato la storia dell’editoria mondiale, perché ha rivoluzionato il concetto di libro, facendo sì che nascesse la figura dello stampatore (che alle volte era anche editore). Nel XVI secolo, comunque, così come nascono associazioni di stampatori, viene anche fondata la Frankfurter Buchmesse, la fiera dei libri e delle tecniche di stampa. Questa istituzione resta in loco per due secoli, fino agli sconvolgimenti del Settecento in cui il centro dell’industria del libro viene trasferito a Lipsia e dove rimane, in pole position, fino alla fine della Seconda guerra mondiale. A seguito della divisione della Germania, che vede Francoforte rimanere “nella parte giusta”, nel 1949 viene rifondata la Frankfurter Buchmesse, su iniziativa della Börsenverein des deutschen, l’associazione dei librai e degli editori tedeschi che tuttora ne è l’organizzatore.
Da quando esistono i libri come li conosciamo, dunque, l’editoria si fa (anche) a Francoforte. E a Francoforte, nei padiglioni della fiera internazionale per operatori del settore più importante al mondo, si raduna tutta l’editoria che conta e l’editoria che lavora e produce. Possiamo immaginare di vedere lì Giulio Einaudi o Italo Calvino, Umberto Eco o Arnoldo Mondadori e tutti i tanti noti come i meno noti che lavorano nella filiera.
Dura cinque giorni, da mercoledì a domenica, attorno alla metà di ottobre, ma i primi tre sono esclusivamente per gli addetti ai lavori che “preparano la fiera” da molto tempo prima. Lo scopo infatti è quello di incontrarsi e stipulare accordi di edizione: vendere e acquisire diritti. Se una volta era teoricamente possibile andare e “fare lì” adesso è proprio impensabile. Non c’è nulla di improvvisato.
“I contatti sono attivati da settimane se non da mesi, i materiali (tipicamente le traduzioni) sono già stati mandati. In fiera si va per spingere la chiusura di un contratto o per stringersi la mano e guardarsi negli occhi se tutto è già avvenuto” racconta l’agente letteraria Rita Vivian, una vita passata nei libri, prima alla Marsilio e poi nella sua agenzia da cui ha seguito autori come Dario Voltolini, finalista allo Strega quest’anno, o lanciato autrici come la bestsellerista Alessia Gazzola. Gli agenti hanno un bel daffare in fiera, tanto quanto gli editori, perché molto spesso gli autori non cedono all’editore italiano i diritti di traduzione e quindi è compito dei loro agenti venderli all’estero.
Francoforte è una fiera internazionale, infatti, e lo scopo è proprio aprire canali con gli altri paesi. “In contesti come questo” spiega sempre Vivian “è possibile capire se un libro ha una sua readership”. È possibile cioè che autori molto letti in patria non siano spendibili fuori, anche, per esempio, per ragioni culturali. Certi temi possono non essere sentiti o apprezzati altrove.
Ci sono anche altre fiere internazionali, oltre alla Frankfurter Buchmesse, come London Book Fair, Festival du Livre de Paris, Feria Internacional del Libro de Guadalajara ma per tradizione quella immancabile è Francoforte.
“Lì si possono capire moltissime cose” chiosa Beppe Cantele Ronzani, cofondatore dell’omonima casa editrice veneta “come le tendenze del mondo, non solo del libro, ma, per proprietà transitiva, del pianeta tout court”. Si tratta del contesto dove è possibile conoscere le avanguardie del settore. Continua Ronzani, editore attentissimo anche agli aspetti tipografici oltre che appassionato dell’oggetto-libro e alla sua storia: “Un fatto sorprendente che ho potuto apprezzare in fiera è che ormai ci sono grandi case editrici e gruppi editoriali capaci di ottimizzare il processo produttivo in modo incredibile per abbattere i costi. In sostanza ti propongono di fornire la traduzione del libro a cui sei interessato e poi si occupano di tutti gli aspetti pratici, dalla composizione fino alla stampa, che viene fatta in Cina in quantitativi enormi, e infine al trasporto”.
Vivian rincara: “La fiera è dinamica e permette di apprezzare gli spostamenti del mercato. Quest’anno si sta aprendo moltissimo all’Africa. I paesi africani sono molto vivaci dal punto di vista editoriale e guardano all’Europa di cui hanno comprato davvero parecchi titoli”. A Francoforte è insomma possibile comprendere i macrotrend del mercato, come, per esempio, quello evidenziato da Ronzani di pubblicare vieppiù saggi di psicologia e mindfulness.
Ma come funziona la fiera? Com’è fatta?
Ogni Paese ha un padiglione e i grandi editori hanno a loro volta stand indipendenti, dove – certo – tengono anche i loro libri in esposizione perché vengano comprati (sabato e domenica la fiera è aperta al pubblico), ma sostanzialmente l’obiettivo di tutti è di conoscere e farsi conoscere, stringere mani, allargare l’orizzonte. C’è anche una zona per gli agenti letterari o per gli stampatori: in definitiva è una piccola cittadella industriosa. Funziona per appuntamenti, presi con largo anticipo, e comunque gestiti con una app dedicata, che di solito si tengono nel padiglione dell’editore proprietario del titolo cui gli altri sono interessati.
Chi ha in mente il Salone del libro di Torino deve fare uno sforzo di immaginazione: Torino è vocata quasi esclusivamente al pubblico e gli incontri tra addetti ai lavori ci sono sì, ma costituiscono una parte marginale degli appuntamenti della fiera. Alla sera però, a Torino come a Francoforte, una volta fuori, si va a cene e feste, in cui gli invitati sono sempre loro: scrittori, editori, traduttori, agenti, tipografi, giornalisti, uffici stampa.
Questo per l’Italia è stato un anno molto speciale alla Buchmesse però, perché eravamo il paese ospite, usanza che ha visto nel tempo un turnover dei paesi partecipanti (la nostra volta precedente è stata nel 1988). Quest'anno avevamo quindi a disposizione un ulteriore padiglione, pensato e progettato per conto del ministero della Cultura da Stefano Boeri: un’enorme piazza di 2.300 metri quadrati chiusa da un colonnato, nella quale oltre all’area espositiva erano state create delle sale tematiche come, per esempio, una su Aldo Manuzio, una su Gorizia nuova capitale della cultura e altre. Proprio lì dentro si sono svolti una serie di incontri con al centro l’editoria italiana e gli autori italiani.
Non bisogna dimenticare infatti che protagonisti indiscussi della Buchmesse sono anche gli autori della grande letteratura dei diversi paesi che in queste occasioni tengono lecture, partecipano a dibattiti, incontrano i loro editori stranieri. L’AIE (Associazione Italiana Editori), in collaborazione con il ministero della Cultura, quest’anno ha organizzato un programma di incontri molto fitto sul quale di necessità, essendo l’Italia il paese ospite, si sono accesi i riflettori. E non solo: anche qualche polemica.
In particolare queste ultime hanno riguardato la scelta degli inviti fatti a scrittori e scrittrici chiamati a tenere incontri pubblici e, proprio per questo, una cordata di una trentina di loro guidata da Paolo Giordano ha messo a punto, come racconta Giulia Caminito, vincitrice nel 2021 del Premio Campiello e che ne faceva parte, un programma alternativo di panel e dibattiti che sono stati ospitati dal Pen Berlin Club e dall’AIE stessa e moderati da giornalisti tedeschi. “In quegli incontri” racconta Caminito “siamo stati chiamati a dire la nostra su temi letterari e politici, ma soprattutto sui secondi”.
Essere il paese ospite ha incrementato gli affari, gli scambi, le opportunità?
Vivian, Caminito, Ronzani, ciascuno con la sua propria visione, cioè di agente, editore e scrittrice, sono concordi: l’Italia ha avuto grandissima visibilità. Ronzani sottolinea che il nostro è un bel mercato attivo: “Basti solo pensare a quanto vendono all’estero i libri di Alessandro Barbero (che ovviamente in fiera c’era) e di Elena Ferrante” (che per ovvie ragioni non c’era, almeno in modo palese, aggiungiamo noi).
Caminito, che oltre a essere scrittrice è anche editor e direttrice editoriale, aggiunge: “Sarebbe davvero interessante se l’AIE facesse presso gli editori una capillare raccolta dati per capire quanto la posizione di paese ospite abbia favorito la compravendita di titoli da e verso l’Italia”.
Infine Vivian, pragmaticamente, spiega: “La traduzione è un punto nevralgico. Olanda e Giappone negli anni Novanta hanno ricevuto importanti sovvenzioni statali che hanno permesso a quelle culture di farsi conoscere all’estero. Quest’anno paesi importanti come Germania, Spagna e Francia hanno chiesto un aiuto maggiore da parte dei propri ministeri della cultura. Anche in Italia servirebbe”. Forse più che essere paese ospite, aggiungiamo noi. Quel che piace è vedere quanta vita, quanto impegno, quanti desideri e quanto streben viene messo ancora in un mondo che, troppe volte, viene considerato marginale.