CULTURA

Dante700: era un medico il sommo poeta?

Dante era un medico? La domanda può apparire insolita se riferita al celebre autore della Commedia – che siamo più abituati a immaginare chino sullo scrittoio che al capezzale di un malato –, eppure già un secolo fa si dibatteva sulla questione dalle colonne del British Medical Journal. Dante dimostra di conoscere la materia e la sua opera è ricca di legami con il mondo della medicina e della chirurgia: come tutti i capolavori della letteratura si presta a molteplici letture e questo, a partire dal Settecento, solleticò medici e storici della medicina, a partire da Giovanni Battista Morgagni che fu tra i primi a rilevare le implicazioni cliniche del poema dantesco. A seguire le sue orme poi furono anche altri studiosi del settore, da Michelangelo Asson a Salvatore de Renzi fino a Cesare Lombroso nell’Ottocento, da Arturo Castiglioni a Liborio Giuffrè fino a Loris Premuda nel Novecento. In anni recenti è Donatella Lippi, professoressa di storia della medicina all’università di Firenze, a riprendere il tema in modo sistematico – specie dopo il successo dell’iniziativa Un medico all'Inferno –, con la pubblicazione de La Divina commedia. Con note storiche-mediche per i tipi di Mattioli 1885.  

Ma torniamo, dunque, alla nostra domanda iniziale: quali sono gli elementi che ci aiutano a dare una risposta? Si dirà innanzitutto che Alighieri era iscritto all’Arte dei medici e degli speziali, dato che a partire dagli ordinamenti di Giano della Bella era necessaria l’iscrizione a una corporazione di arti e mestieri per partecipare alla vita pubblica. Secondo quanto riporta il British Medical Journal, non è improbabile che la sua iscrizione avesse comportato il superamento di un esame non meramente formale per verificare la capacità di esercitare il mestiere. “Ecco perché – sottolinea Lippi – vediamo Dante sempre vestito con il lucco rosso ornato di vaio bianco che a Firenze, secondo le leggi suntuarie, era l’abito che solo i medici potevano indossare, una veste particolarmente preziosa e sontuosa”.

Guarda l'intervista completa a Donatella Lippi. Montaggio di Elisa Speronello

Sembra poi che Dante avesse frequentato le lezioni di Taddeo Alderotti, professore di medicina all’università di Bologna nel XIII secolo, il quale a sua volta aveva legami con altri medici dell’epoca come Fiduccio de’ Milotti e Mondino de’ Liuzzi. E c’è chi ipotizza anche una frequentazione bolognese tra Mondino e Dante. Ebbene, a questo ambiente il poeta potrebbe essersi ispirato. Lo stesso Taddeo, infatti, spunta nel XII canto del Paradiso, quando si narra la vita di San Domenico, e nel Convivio è annoverato come traduttore di un compendio dell’Etica di Aristotele: la filosofia impregna ancora molto la medicina e i principi filosofici sono associati alla scienza di Galeno ed Ippocrate. Secondo A. Cerbo “a Bologna Dante seguì certamente le lezioni di filosofia e medicina”, in quanto “considerava tutte le scienze di alto valore e tutte necessarie per conoscere l’ordine universale che la teologia poi fa comprendere nel suo significato provvidenziale”.

Ma non è finita qui. “Tra il 1304 e il 1306 – sottolinea Donatella Lippi – Dante fu a Padova, dove frequentò verosimilmente anche Pietro D’Abano, interprete di una nuova cultura che univa l’approccio alla scienza greco araba con quello più diretto anche alle fonti”. Una possibilità, questa, di cui parla anche Alessandro Barbero nel suo ultimo libro (Dante, Laterza 2020). Padova era allora una importantissima città universitaria, popolata di studenti che provenivano da ogni parte d’Europa, era uno dei centri culturali più vivaci d’Italia e, insieme a Bologna, il massimo centro di studi aristotelici del nostro Paese.

E ancora, Alighieri amava Beatrice, il cui padre Folco Portinari fondò l’ospedale di Santa Maria Nuova a Firenze – tuttora attivo come polo sanitario – e la cui nutrice Monna Tessa fu la prima oblata, consacrò cioè la propria vita al servizio dei malati.

Esistono, dunque, nella biografia di Dante una serie di congiunture che rivelano una certa consuetudine con l’ambiente medico del tempo e i suoi protagonisti. Ma è il poema stesso a parlarci di medicina. “Se guardiamo alla Commedia in una ideale sequenza – sottolinea Lippi – vedremo che l’Inferno è il regno del buio, dell’oscurità del dolore, della cacofonia, dei rumori stridenti, delle grida, dei pianti. Il Purgatorio, invece, è la cantica della musica: le anime intonano canti corali, religiosi e non religiosi. Infine, in Paradiso domina la luce”.

Musica e luce, dunque: due elementi che possono essere entrambi ricondotti al tema della salute. Da un lato, infatti, è ormai riconosciuta l’importanza della musica nella implementazione della terapia, dall’altro, invece, è noto che la luce influisce sul nostro bioritmo e che in passato è stata utilizzata anche a scopi terapeutici (come nei casi della scrofola o di diatesi deficitarie di vitamine D). “Io vedo, dunque, nella Commedia – osserva la docente – la ricerca della salute del corpo e della salvezza dello spirito che procede con un linguaggio interdisciplinare attraverso il richiamo al suono e alla luce. Il Dio che Dante ci mostra nel Paradiso è il “Sol salutis”, è il Dio che ci guarda dall’oro dei mosaici ravennati ed è un messaggio forte che coinvolge il corpo e lo spirito, la salute e la salvezza”.

Se ci si addentra nelle terzine del poema, si noterà che numerosi sono i richiami alla medicina e all’anatomia, soprattutto per rendere vivide le pene dei dannati. Nel IV canto dell’Inferno Dante cita, innanzitutto, i grandi autori classici, Ippocrate e Galeno da una parte e Avicenna e Averroè dall’altra, “in un equilibrio quasi inaspettato tra il sapere occidentale e i contributi del mondo arabo”, secondo Donatella Lippi. Nel canto XXIX Alighieri paragona il terribile odore che si respira nella decima bolgia del settimo cerchio tra gli alchimisti e i falsari a quello dei malati della Valdichiana, della Maremma e della Sardegna se fossero stati riuniti in un solo luogo. Un richiamo tangibile, questo (sebbene poco lusinghiero), alla situazione ospedaliera del tempo.

Nel XXVIII canto Dante incontra i seminatori di discordie e qui Maometto, lo scismatico per eccellenza che ha compromesso l’unicità della religione monoteistica di Cristo: il peccatore è “rotto dal mento infin dove si trulla” (fino al sedere) e tra le gambe pendono le interiora. “Il corpo di Maometto – sottolinea Lippi – è aperto come se fosse stato su un tavolo settorio, quindi Dante doveva aver assistito a qualche dissezione anatomica, perché ci descrive l’intestino tenue che non è più trattenuto dalla parete addominale e allude al “tristo sacco”, all’omento, e al processo digestivo. Cita anche il satiro Marsia (nel primo canto del Paradiso ndr) che è stato scorticato vivo: un procedimento anatomico, questo, tra i primi a essere autorizzati dalla Chiesa”.

Ma nella Commedia, osserva la docente, Dante cita soprattutto il dolore. Descrive il dolore puntorio degli ignavi, tormentati a sangue da mosconi e vespe, il dolore temporale prodotto dal remo di Caronte mentre percuote le anime che indugiano a riva, pena che toccherà anche agli iracondi condannati a percuotersi furiosamente (canto VII dell’Inferno), immersi nella palude Stigia. C’è il dolore che raschia, strappa e spacca laddove Cerbero “graffia li spirti ed iscoia ed isquatra” sotto una pioggia fredda e incessante (canto VI dell’Inferno); c’è il dolore che brucia a cui sono condannate le anime degli eretici nelle loro arche di fuoco (nel canto X dell’Inferno) e quello “irritante” a cui sono sottoposti i falsari condannati a malattie ripugnanti e costretti a grattarsi continuamente per ridurre la pena. “In questa silloge di dolori e di dolore – argomenta Lippi –, analizzati con una straordinaria attenzione anche in riferimento agli effetti che la pena produce dal punto di vista affettivo e critico, la precisione descrittiva consente di individuare almeno 46 dei 78 termini riportati nel McGill Pain Questionnaire (uno strumento che consente di classificare il dolore ndr), anche se in differenti forme”.

E infine, sono molte anche le malattie a cui Alighieri allude nella Commedia. Parla per esempio di idropisia (nel XXX canto dell’Inferno), di malaria (canto XVII), di problemi alla vista in più occasioni. Cita inoltre molte malattie neurologico-psichiatriche, come la paralisi (canto XX), l’oppilazione (canto XXIV). E soprattutto allude in più punti alla narcolessia, di cui si è ipotizzato potesse soffrire lo scrittore.

Le opere di Dante rivelano dunque una conoscenza di autori medici e una capacità di descrivere e discutere questioni mediche che difficilmente avrebbe potuto possedere un profano, si legge sul British Medical Journal: sebbene Alighieri non fosse un medico nel senso comune del termine, e non avesse mai conseguito la laurea in Medicina a Bologna o altrove, possedeva tuttavia una conoscenza pratica e teorica della materia non trascurabile. Non era un medico, dunque, ma aveva certamente una certa familiarità con la medicina. 

Lo conferma Donatella Lippi: “Dante era attento allo spirito e altrettanto al corpo e aveva tradotto nella sua poesia immortale anche ciò che forse aveva acquisito nella sua frequentazione patavina e bolognese e attraverso i contatti che aveva avuto a Firenze, nella corporazione che lo aveva ospitato dandogli il viatico per affrontare quella vita politica che, poi, lo avrebbe portato altrove in esilio”.  

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012