Ad un anno giusto di distanza Serge Latouche torna su Robinson. L’anno scorso, il 3 marzo, in un’intervista di Francesco Manacorda (“La mia decrescita? No che non è felice”) e quest’anno, il 21 marzo, nell’intervista ad Antonio Gnoli (“Sogno un mondo che impari dalla decrescita”).
Ho conosciuto Latouche molti anni fa a Roma e ho sempre avuto modo – già prima di conoscerlo – di stimarlo per le cose che scriveva e per come le scriveva. Ciò non toglie che, a proposito della decrescita ritenuto un suo cavallo di battaglia, ho sempre condiviso pienamente quanto dichiarato da Valentino Parlato in una lunga chiacchierata con Carla Ravaioli (“il manifesto”, 4 febbraio 2007). Cioè che la decrescita è “una scemenza totale”.
A parziale correzione del mio pensiero dico subito, però, che considero “scemenza” l’uso di questa parola per esprimere un concetto i cui contenuti sono largamente condivisibili. E aggiungo che Latouche c’entra poco mentre parecchio è da attribuire al ruolo che molti, soprattutto in Italia, hanno inteso di dare a questo concetto sino ad aggettivarlo come “felice”. In tal modo costringendo Latouche a dissociarsene già l’anno scorso: “Mi succede spesso di essere descritto come un fondamentalista della decrescita felice, anche se non ho mai usato questa espressione”. E così giustizia fu fatta.
Nell’intervista di quest’anno scende ancor più in profondità dell’argomento. E alla domanda di Gnoli (“Se la parola decrescita implica diminuzione e ridimensionamento crede davvero che ci sia gente disposta a rinunciare al sogno dell’illimitato?”) ha risposto che “I nostri attuali modelli di consumo si servono di un immaginario colonizzato dalla pubblicità. Il pubblicitario sollecita un desiderio perché sa che questo è insaziabile”.
Direi che sulla insaziabilità dei desideri bisogna intendersi perché come si dice a Napoli ‘O sàzio nun crére a ‘o diùno, che, sottotitolato come ormai si usa fare quando in televisione si parla napoletano, “chi è sazio non crede a chi sta a digiuno”.
E bisogna soprattutto intendersi in questo momento difficile dell’incalzante pandemia e spiegarsi che cosa è la decrescita al tempo del coronavirus. Ha già risposto Parlato tredici anni fa senza che vi fossero epidemie in corso. Tanto più bisogna intendersi oggi e vedere se e come, riguadagnata la salute fisica, si potrà anche riguadagnare quella economica dalla quale, peraltro, la prima non poco dipende.
Un salto indietro
Facciamo un salto indietro e cerchiamo di vedere se e come una volta usciti dalla pandemia del COVID-19 si potrà uscire anche dalla pandemia economico-sociale. Non solo. Ma anche cercando di “far tesoro” di quanto si è stati obbligati a modificare in usi, consumi e comportamenti, nella quarantena casalinga. Cominciando col prendere nella dovuta quanto trascurata considerazione i problemi dei tanti che da questa obbligata modifica rischiano di non riprendersi se non gli si dà una mano. Ed evitare che nel “dare una mano” si infiltrino con scopi tutt’altro che filantropici, i malavitosi clan organizzati. Vale a dire camorra. mafia, ‘ndrangheta, sacra corona e via elencando. I quali, pure, da epidemie locali sono diventati pandemici dentro e fuori l’Italia.
Come? Crescere, crescere, crescere è la ricorrente risposta. E crescere significa incrementare il PIL, il Prodotto Interno Lordo, che di punti percentuali ne sta perdendo parecchi da quando l’epidemia si è trasformata in pandemia.
Tanto per ricordare con semplici parole una cosa nota, il PIL indica il valore complessivo dei beni e servizi prodotti all'interno di un Paese in un anno. E, generalmente, questo indicatore viene utilizzato per valutare la ricchezza di una nazione. Ricchezza che si incrementa se l’indicatore è in aumento rispetto all’anno precedente oppure rimane inalterato oppure, ancora, è in decremento. È, dunque, un indicatore quantitativo della crescita. Non anche dello sviluppo che è un concetto qualitativo e si misura con altri indicatori. Dunque, pur essendo semplicisticamente utilizzati come sinonimi, crescita e sviluppo non sono la stessa cosa. Addirittura si potrebbe registrare una crescita che non solo non genera sviluppo, ma addirittura ne riduce caratteristiche e destinatari.
Ma vale la pena ridurre la discussione su queste argomentazioni nel nuovo momento di grave crisi economica e finanziaria che si accingerebbe ad attraversare l’Italia oltre che il resto del pianeta?
E se provassimo a parlare di benessere?
Ma se provassimo a parlare di BIL, cioè di benessere interno lordo?
L’obiettivo cui lavorare dovrebbe essere, dovrebbe essere stato, dovrebbe essere ora e in proiezione futura, quello di garantire ai cittadini una buona o per lo meno accettabile qualità della vita che si ottiene almeno con il soddisfacimento di due bisogni essenziali: alimentazione e salute.
Sul modo di intendere la Sanità pubblica l’Italia si potrebbe considerare un modello da esportare (Obama ci ha provato per gli Stati Uniti). Ma tanto più lo sarebbe se il forsennato desiderio di far tornare i conti economici non ne avesse tagliato investimenti dei quali proprio in questo settore oggi si rimpiange non poco l’assenza. L’insegnamento del coronavirus è che uscire dalla pandemia non significa richiudere gli ospedali; smantellare i posti letto e restituire ai mittenti apparecchiature tecnologicamente avanzate. Al contrario significa recuperare il tempo perso e mantenere un sistema sanitario capace di garantire a tutti in tempi ragionevolmente brevi il necessario per prevenire e curarsi. Il che è particolarmente importante in un Paese come l’Italia la cui popolazione tende costantemente ad invecchiare. Né mi sembrerebbe da trascurare la possibilità di prendere in considerazione la revisione del numero chiuso per l’accesso alle facoltà universitarie di Medicina.
E l’alimentazione? Se l’Italia è la culla, nel senso che ci è nata, della dieta mediterranea la cui presenza sembra accertata anche in termini di buona salute fisica, vuol dire anche che questo è un settore da potenziare. E da potenziare anche in termini di incentivazione del “ritorno” alla terra (oggi molto meno faticoso del passato) di un non trascurabile numero di lavoratori che anche a causa del coronavirus hanno accresciute difficoltà di lavoro. Insomma un New Deal di roosveltiana memoria potrebbe svilupparsi proprio in questo senso. Non solo. Perché auspicare iniziative di questo tipo significa anche restituire l’attenzione che meritano ad ambiente e territorio proprio e anche perché vi si possa sviluppare un’agricoltura “sostenibile”, come si usa dire.
Attenzione che dovrebbe comunque essere dedicata ad un Paese, geologicamente giovane e, anche perciò, fragile: sismico, idrogeologicamente dissestato e vulcanico. E che richiede opere le quali, sul modello roosveltiano, richiedono investimenti e gente che lavori. Gente che, nel momento in cui percepisce un reddito, alimenta i consumi e la produzione e si libera degli adescamenti malavitosi.
Naturalmente mi guardo bene dal pensare che interventi pur fondamentali nei settori della Sanità e dell’Agricoltura possano essere tali da risolvere i problemi del dopo pandemia. Non sono da soli risolutivi. Ma sono certamente di fondamentale importanza e con la mole di danaro a disposizione, sono anche quelli più immediatamente realizzabili o da avviare a soluzione.
Dunque, se provassimo a parlare di benessere, nel senso di stare meglio sino a stare bene?
Come si vede, questo “stare - sino a stare” indica un itinerario prima ancora che una condizione, uno status. Ma stare bene non è oggettivamente definibile e misurabile. Nemmeno col ricorso al GPI (Genuine Progress Indicator) che misura il valore del reddito prodotto contabilizzato al netto dei costi ambientali sopportati per produrlo. Questo indicatore, perfeziona, più realisticamente, la misurazione del PIL ed è una sorta di ufficializzazione di quello che in anni passati fu definito “PIL verde”; indica in modo più corretto le caratteristiche della crescita, ma non le sue ricadute sui cittadini.
Ricadute che sono molto più facilmente individuabili nei due settori di cui prima dicevo: Sanità e Agricoltura (alimentazione). Ma l’Italia è pur sempre tra i sette Paesi più industrializzati della Terra. Come esce l’apparato industriale dopo il coronavirus? Dalla crisi internazionale delle fonti di energia (1973-74) in poi sono parecchi i periodi di crisi economica e finanziaria (l’ultima quella “scoppiata” nel 2008) che hanno avuto ricadute negative sul settore industriale. Ma tutte sono anche contrassegnate dalla ripresa dell’industria che ha ripreso a produrre gli stessi “beni”(?) di consumo in quantità anche superiore, ma con una ridotta quantità di mano d’opera.
Rischia certamente di essere così anche a causa di questa pandemia, mentre da più parti si auspicano interventi che ridiano fiato all’industria. Ma, e qui possiamo tornare alla decrescita, per produrre cosa? Se per produrre cose di palese inutilità hanno ragione i sostenitori della decrescita anche se utilizzano una parola che considero impropria per sostenere un opportuno mutamento di tendenze.
Perché è giusto discutere sulla qualità oltre che sulla quantità dello sviluppo; è giusto mettere in discussione la crescita fine a se stessa e l’importanza stessa del PIL come suo misuratore privilegiato. Ma, come ha scritto Giorgio Ruffolo (Lo sviluppo dei limiti, 1994), “Sviluppare limiti alla crescita significa promuovere nuove forme di sviluppo senza limiti. (...) La biforcazione di fronte alla quale ci troviamo ci pone non il dilemma tra crescere e non crescere, ma quello tra due tipi di ‘sviluppo’. Lo sviluppo della potenza -é questo che chiamiamo crescita- e lo sviluppo della coscienza. È questo che vorremmo chiamare, più propriamente, sviluppo”.
È lo sviluppo della coscienza che ci consente di avviarci proficuamente verso una società “immateriale” che riesca a produrre merci che siano beni e a farlo con minori quantità di materie prime ed energia e che riesca a produrre meno merci e più servizi. E servizi per la qualità dell’ambiente e, di conseguenza, per la qualità della vita. Una qualità, quest’ultima, compromessa quotidianamente proprio dagli scarsi o nulli interventi di miglioramento della qualità ambientale o, peggio, da interventi che ne minano integrità e fruibilità per una popolazione che ha ormai di molto superato i sette miliardi di persone (Pietro Greco, Rapporto ONU. La nuova struttura della popolazione mondiale e l’ambiente in “Rocca” n19/2011).
Crescita, dunque. Non vergogniamoci di usare questo termine. Avendo sempre ben chiaro che la crescita, in termini di incremento del PIL, la si può ottenere costruendo e vendendo armi o anche mettendo fiori nei cannoni per evitare che sparino. Perché è la somma che fa il totale e, dunque, è sugli addendi che bisogna intendersi.