SOCIETÀ

Le due Russie di Putin e Navalny e le proteste di piazza

Sono due le notizie che in queste ultime ore stanno scuotendo la Russia. La prima è la quantità di manifestazioni, spontanee o accuratamente organizzate che siano, che stanno attraversando ogni angolo del paese, dalle città più grandi (Mosca, San Pietroburgo) fino al più sperduto villaggio della Siberia: decine di migliaia di russi che continuano a sfidare platealmente lo zar Vladimir Putin, il gelo e la repressione della polizia pur di gridare il proprio malcontento. Per l’arresto dell’oppositore Navalny, certo, ma non soltanto. E poi c’è la seconda notizia, che forse fa perfino più scalpore della prima: la repressione delle forze di polizia non è bastata finora a fermare i dimostranti. Sono ancora lì. Nonostante le violenze, i manganelli, le donne prese a calci nello stomaco dagli agenti in tenuta antisommossa, nonostante gli arresti di massa (oltre 4000 stando alle ultime cifre filtrate) e chi saprà mai quale sarà la sorte di queste persone, quante di loro avranno subito torture, quante torneranno a casa, e come. Ma le manifestazioni continuano, ostinate e non autorizzate. I dimostranti non arretrano, anzi: s’inventano attacchi perfino fantasiosi, come le migliaia di giovani che agitano scopini da wc e biancheria intima (Navalny sarebbe stato avvelenato proprio da un agente nervino di tipo Novichock cosparso sui suoi indumenti), usati come simboli del dissenso al regime. O che bersagliano con una pioggia di palle di neve gli agenti di polizia, che in quel caso, di certo per ordini ricevuti, sono rimasti a subire, passivamente. Scene del genere, da queste parti, non si vedevano da decenni.

Tutto è cominciato il 17 gennaio scorso, quando Aleksey Navalny, leader del partito di opposizione “Russia del Futuro”, ha deciso di rientrare a Mosca, dopo il tentativo di avvelenamento subìto la scorsa estate («E’ stato Putin», aveva accusato) e le successive cure ricevute in Germania. Appena atterrato è stato arrestato per aver contravvenuto a un precedente obbligo di firma (senza tenere in alcun conto che si trovava in cura a Berlino per le conseguenze dell’avvelenamento). «Scendete in piazza, non per me ma per voi stessi, per il vostro futuro. Non abbiate paura», ha dichiarato quello stesso giorno, in un videomessaggio diffuso attraverso NavalnyLive, il suo canale YouTube. Navalny è stato poi condannato a 30 giorni di reclusione dal Tribunale del municipio di Chimki, nell’Oblast di Mosca. Il ricorso presentato dal suo avvocato è stato respinto il 28 gennaio. Il prossimo round giudiziario, per Navalny, è previsto per il prossimo 2 febbraio: il tribunale dovrà decidere se confermare, o meno, la sospensione della precedente condanna a tre anni e mezzo di carcere per frode. L’attivista rischia seriamente di essere mandato in una colonia penale a scontare la sua condanna.

Da segnalare inoltre le innumerevoli voci internazionali che si sono levate per criticare l’arresto del dissidente: dalla presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, all’Alto Commissariato dell’Onu per i diritti umani, dai ministri degli Esteri di Germania, Francia, Italia, Lituania, fino alla nota di condanna del Dipartimento di Stato Usa (e la Russia ha immediatamente reagito convocando l’ambasciatore americano a Mosca, denunciando “un’indebita ingerenza”). L’ultima è quella dei ministri degli esteri del G7, che hanno definito “politico” l’arresto del dissidente, esprimendo “profonda preoccupazione per la detenzione di migliaia di manifestanti pacifici e giornalisti”. Mosca ha reagito definendo la presa di posizione una “grossolana interferenza negli affari interni e una mossa ostile verso la Russia”. 

Dall’avvelenamento alla prigione

Navalny sapeva che sarebbe stato arrestato: il suo rientro era una sfida, una provocazione. Una mossa prevista al millimetro. Tanto che pochi giorni dopo il suo staff pubblica una video-inchiesta di due ore, condotta dallo stesso Navalny e realizzata dal Fondo anticorruzione che presiede (Fbk), dal titolo “Putin's Palace: History of the World's Largest Bribe” (Il palazzo di Putin: storia della più grande bustarella del mondo). Una gigantesca (7800 ettari) e lussuosissima tenuta, già ribattezzata “la Versailles russa”, che il presidente si sarebbe fatto costruire a Gelendzhik, sulla costa settentrionale del Mar Nero, con il denaro ottenuto dalle innumerevoli tangenti incassate dai più importanti, e oggi influenti, uomini d’affari della Federazione. La villa, alta tre piani, profonda chissà quanto, è dotata di eliporto, piscina, campo da hockey sotterraneo, cinema, casinò privato, sala di pole dance, sala narghilè, anfiteatro, una serra, bunker sotterranei e un tunnel che porta direttamente al mare: valore stimato circa 1,5 miliardi di euro Una tenuta protetta da una “no-fly zone”, da un divieto tassativo di navigazione e da diversi check-point d’ingresso. «Il malato di mente (così Navalny chiama Putin) è ossessionato dalla ricchezza e dal lusso». In pochi giorni il video ha superato i 100 milioni di visualizzazioni.

Putin nega, con ostentata fermezza: «Non ho visto il filmato per mancanza di tempo, ma ho dato un’occhiata alle raccolte video che mi hanno portato gli assistenti», ha dichiarato senza riuscire a nascondere una profonda irritazione. «Nulla di ciò che vi è indicato appartiene a me o a miei parenti stretti, né gli è mai appartenuto». La Tass, principale agenzia di stampa russa, nel dare notizia della smentita del presidente, titola così: “Putin crede che le voci sul suo palazzo siano state usate per fare il lavaggio del cervello ai russi”. Da tempo il Cremlino sostiene che Navalny sia in realtà un agente al servizio della Cia.

La controversa figura di Navalny

Una figura controversa quella di Aleksey Navalny, 44 anni, avvocato e blogger, al quale va comunque riconosciuto l’indubbio merito di essere una delle pochissime voci capace di levarsi contro l’oligarchia imposta da Putin e contro il suo ramificato sistema di corruzione. Ma non è un paladino specchiato del pluralismo e della difesa dei diritti. Navalny è un nazionalista, alla guida di un partito dichiaratamente di destra, con la fobia degli islamisti e contrarissimo, tanto per fare un esempio, alla politica di accoglienza degli immigrati decisa dall’Unione Europea. Eppure il suo seguito oggi è enorme, anche se in patria molto inferiore a quello che sta ottenendo all’estero. Scrive al proposito l’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale: «In Russia Navalny non raccoglie il consenso unanime che ha all’estero – ha al suo attivo una lunga militanza nei movimenti nazionalisti vicini all’estrema destra – ed è comunque lontanissima dal gradimento del 65% di cui gode il presidente Putin: il seguito che raccoglie in questo momento non può che provenire da un malcontento diffuso, alimentato dalla corruzione dilagante e dalla cattiva gestione del governo centrale». Quindi più un innesco che il motivo ultimo del dissenso. Il pretesto per una protesta più profonda, motivata dal diffuso disinteresse del governo a risolvere le quotidiane difficoltà di vita della popolazione, peraltro aggravate dal dilagare della pandemia. 

Perciò le proteste, perciò così estese, anche negli angoli più sperduti della Federazione (una manifestazione, di poche decine di persone, c’è stata perfino a Yakutsk, la città portuale nella Siberia orientale, nonostante la poco invitante temperatura di -61 gradi). Ben più consistenti e plateali quelle nelle grandi città, con folle di decine di migliaia di persone e con l’abituale corollario di violenza e repressione da parte delle forze dell’ordine. In una di queste, la scorsa settimana, a Mosca, è stata anche fermata, e poi rilasciata, la moglie del dissidente, Yulia Navalnaya. Proteste che non accennano a diminuire, mentre dall’entourage di Navalny continuano ad arrivare, soprattutto attraverso i social, appelli a continuare la mobilitazione. Ed è massiccia la presenza della fascia più giovane della popolazione, di coloro che non hanno mai conosciuto e vissuto altro che l’oligarchia di Putin. Una generazione che spinge verso il cambiamento. Il clima resta teso. Nei giorni scorsi, dalla sua cella, il dissidente ha fatto filtrare una dichiarazione emblematica: «Non ho alcuna intenzione di suicidarmi». Come dire: se dovessero dirvi che sono morto, che mi sono ucciso, non crediate alla loro versione. Un avvertimento per il regime, che probabilmente avrebbe soltanto da perdere esponendosi a un simile rischio. Intanto continua la pressione delle forze di polizia contro i sostenitori di Navalny, vale a dire i blitz contro i suoi collaboratori, i suoi familiari. Il fratello, Oleg, è stato fermato mercoledì scorso durante una perquisizione nella sua abitazione. Tra gli attivisti arrestati ci sono il suo avvocato, Lyubov Sobol, la sua dottoressa, Anastasia Vasilyeva, e Maria Alyokhina, del gruppo di protesta Pussy Riot. Il pretesto per il fermo (che di solito dura 48 ore: una sorta di avvertimento) è identico per tutti: sono accusati di aver violato, nel partecipare alle manifestazioni, le norme anti-Covid.

Il “Putinismo” non finirà per queste proteste

Putin è indubbiamente infastidito dall’attivismo di Navalny (e non da ora: la controversa questione dell’avvelenamento ne è una riprova), anche per il pessimo ritorno d’immagine internazionale. A questo punto non gli resta altro da fare se non tamponare la situazione, arginare l’onda alta delle proteste e prendere tempo: con fermezza certo, anche aspra, ma senza scivolare in gesti estremi. Al massimo lo zar rischia di perdere qualche percentuale di popolarità, non certo il suo potere. Scrive Foreign Policy, autorevole rivista americana specializzata in analisi di politica internazionale: «Non aspettatevi la fine del “Putinismo”. Le azioni di Navalny, sebbene coraggiose e sufficienti a diminuire ulteriormente la popolarità di Putin e del partito al governo Russia Unita, attualmente non hanno quasi alcuna possibilità di deporre immediatamente l’attuale regime. La ragione di ciò è che Navalny, sebbene popolare tra un numero considerevole di russi e in grado di mobilitare grandi proteste di strada, ha poco o nessun sostegno da parte delle élite politiche e imprenditoriali a livello locale, regionale o nazionale. Molte di queste élite sono davvero le persone che sono state l'obiettivo principale della crociata di Navalny contro la corruzione». E’ probabile dunque che da questo movimento possa nascere, col tempo, un’opposizione più forte e consapevole. Ma certamente non in grado d’incrinare oggi la cupola di potere costruita nell’ultimo ventennio dallo zar. 

Intanto Putin prepara il terreno per evitare inciampi nelle elezioni legislative previste il prossimo 19 settembre. Già alla fine dello scorso anno la Duma, il Parlamento russo, aveva approvato un pacchetto di leggi volte proprio a reprimere sul nascere (o come pretesto “legale” per stroncarle) qualsiasi forma di dissenso: vietato manifestare vicino a strutture delle forze dell'ordine, blocco immediato dei social media che diffonderanno informazioni contrarie a quanto dichiarato dal Cremlino e oppositori etichettati come “agenti stranieri”. Andrei Kolesnikov, ricercatore presso il Carnegie Moscow Center (autore di un’interessante analisi sulla partecipazione alle proteste di questi giorni e sulla “trasparenza” delle azioni del regime grazie all’uso dei social), ha così commentato«Lo stato sta dichiarando guerra alla società civile. Questa è la naturale evoluzione dell'autoritarismo». Ma nel frattempo il governo ha annunciato multe pesanti (fino a 4 milioni di rubli, oltre 53mila dollari) per Facebook, Twitter e Tik Tok, le piattaforme accusate di “non aver eliminato” i post che invitavano a prendere parte alle manifestazione dell’opposizione, nonostante l’ordine imposto dal Roskomnadzor, l’agenzia federale del governo russo che si occupa di telecomunicazioni. 

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