“I videogame sono una perdita di tempo”, dicono alcuni. “Fanno male all’apprendimento”, dicono altri (tra cui Carlo Calenda pochi mesi fa, che li ha addirittura banditi da casa sua).
Per quanto la scienza abbia effettivamente dimostrato che l’uso eccessivo dei videogiochi possa degenerare in una vera e propria dipendenza (come del resto può accadere con tutte le attività piacevoli che possono alterare la chimica del cervello), l’informazione, almeno in Italia, tende ad essere sbilanciata in negativo, con l’effetto di demonizzare una passione che, al netto della necessità di stare attenti agli abusi, può avere aspetti molto positivi, a partire dal versante economico.
Di recente si sono svolti all’Arthur Ashe Stadium di New York (quello delle finali degli US Open di tennis) i campionati mondiali di Fortnite, un cosiddetto “sparatutto”, cioè uno di quei giochi in cui è necessario sparare, appunto, a qualsiasi cosa. Semplicisticamente, più spari (e, ovviamente, centri) più vinci. Ci sono due modalità di gioco: nella prima, Battle Royale, lo scopo è di mantenersi in vita sparando a tutti gli altri giocatori: ne rimarrà uno solo, il vincitore (Hunger Games dice nulla?). Peccato che all’inizio della partita non hai (ancora) armi ma devi ottenerle durante il gioco, per uccidere gli altri 99 che partono nella tua stessa situazione. Descritto così sembra violento, ma paradossalmente si potrebbe vincere sparando una sola volta (all’ultimo giocatore rimasto), aspettando che gli altri si uccidano a vicenda: è più difficile ma non impossibile. Poi c’è la modalità cooperativa per quattro giocatori che si chiama Save the World: si gioca contro il computer per salvare la specie umana dopo l’apocalisse, e la componente strategica è ancora più forte. In questi termini, il gioco era stato lanciato nel 2011 ed era stato un flop: la versione tutti contro tutti, invece, ha avuto un successo planetario.
Dietro quelli che troppo spesso vengono classificati come “giochetti”, c’è un business miliardario, che non riguarda solo il gioco in sé, ma anche tutto ciò che ci sta attorno: sponsor, eventi, spettacoli. Epic Games, il produttore di Fortnite, l’anno scorso ha guadagnato tre miliardi di dollari, la maggior parte derivanti proprio da questo gioco (l’1 agosto, intanto, è uscita la decima stagione). Non stupisce quindi che per i Mondiali fosse previsto un montepremi di 30 milioni di dollari, il più alto della storia degli eSport (anche se sta per essere superato dal torneo di Dota 2). Per eSport si intende un’attività legata a un videogioco che non si limita al salotto di casa, ma viene condotta in ambienti fisici come fiere e competizioni ufficiali. Per molti italiani, gli eSport sono ancora visti con sospetto, ma piano piano si sta prendendo una direzione diversa, come testimonia il primo rapporto di AESVI (Associazione Editori sviluppatori videogiochi italiani) realizzato in collaborazione con Nielsen, che tra l’altro mette in rilievo le opportunità economiche dell’advertising su questi canali, visto che i giocatori risultano più propensi a comprare i prodotti delle aziende sponsor.
Questi sponsor possono essere legati al gioco in sé, con l’inserimento degli avatar dei loro prodotti e di accessori brandizzati, o delle squadre che si sfidano in competizioni ufficiali. Per avere un’idea del giro d’affari che in America ruota intorno agli eSport basta pensare che alcuni rapper hanno minacciato di fare causa a Epic Games perché le danze della vittoria con cui i vincitori festeggiano (e che i giocatori acquistano continuamente, anche se non servono strettamente ai fini del gioco) si sarebbero ispirati troppo alle loro coreografie. Cambiando ambito, dà da pensare che i giocatori di Fifa, dall’anno prossimo, non potranno schierare la Juventus, ma solo il Piemonte Calcio: la squadra, infatti, ha siglato un accordo per i diritti di utilizzo di nome e logo con la società produttrice di Pes, la storica rivale di Fifa, che ci ha rimesso nome e maglie.
Intanto il vincitore del Mondiale di Fortnite, il sedicenne Kyle Giersdorf che gioca con il nome Bugha, ha guadagnato tre milioni di dollari.
L’unico italiano in gara, il bergamasco Edoardo “Carnifex” Badolato, si è dovuto accontentare di 67.500 dollari che ha vinto insieme alla sua squadra, la Llama Record (un totale di 250.000 dollari da dividere per i quattro membri del team). Quando Badolato dirà a chi gli chiede cosa faccia nella vita che fa il videogamer professionista, probabilmente la battuta successiva sarà: “No, io intendo per lavoro!”. In realtà Badolato è regolarmente sotto contratto, e percepisce uno stipendio che gli ha permesso di lasciare il suo lavoro di grafico e di partecipare a tornei internazionali come l’ultimo: e se lo merita, visto che si allena otto ore al giorno come un calciatore. I suoi genitori hanno compreso senza troppe difficoltà le dinamiche del suo lavoro, ma per i giocatori meno fortunati con genitori che ritengono che i videogiochi siano un passatempo da stupidi ricordiamo che numerosi studi hanno rilevato che le abilità cognitive dei giocatori sono maggiori rispetto a quelle dei non giocatori (per esempio, quello pubblicato su Public Library of Science ONE), un po’ come accade negli scacchi, che però godono di un prestigio ben diverso. Anche un recente studio dei docenti dell’università di Padova Sandro Franceschini e Sara Bertoni pubblicato sulla rivista scientifica Neuropsychologia dimostra che chi è in grado di fare progressi nei videogiochi riesce più facilmente a farli anche nella velocità di lettura, e tutto lascia quindi pensare che i videogiochi siano uno dei vari ambiti in cui si può esercitare la propria intelligenza. Se poi vinci tre milioni di dollari, meglio ancora.