SOCIETÀ

Il flirt tra la Russia e la Turchia con la Nato alla porta

Il flirt tra Erdogan e Putin sta diventando una cosa seria. I presidenti di Turchia e Russia sembrano aver del tutto superato i dissapori e le tensioni di qualche anno fa (novembre 2015: abbattimento di un jet russo sul confine siriano) e non perdono occasione per mostrare pubblicamente la più totale sintonia, anche a rischio di generare pericolose fratture nel fragile equilibrio internazionale. L’ultimo atto è stato la consegna ad Ankara (o meglio, alla base militare di Murtad, 35 km a nord-ovest della capitale turca) delle prime quattro installazioni dell’apparato di difesa missilistico russo S-400, in virtù di un accordo firmato l’11 aprile del 2017 che prevede tre diverse forniture, in cambio di 2,5 miliardi di dollari. Poco male, se non fosse che la Turchia è membro della Nato dal 1952 e che il paese fa parte di quel ristretto club della “condivisione nucleare”: vale a dire che in quel territorio (precisamente nella base aerea di Incirlik, vicino alla città di Adana) sono stoccate circa 50 testate nucleari americane. E peraltro gli S-400 russi non sono tecnicamente compatibili con il sistema di difesa adottato dall’Alleanza Atlantica.

Mike Pence: «Non staremo a guardare»

A nulla sono serviti gli avvertimenti recapitati in questi mesi dagli Stati Uniti. «La Turchia deve scegliere se vuole rimanere un partner dell’alleanza militare di maggior successo nella storia del mondo», aveva avvisato pochi mesi fa il vicepresidente americano, Mike Pence, per poi precisare: «Non staremo a guardare mentre gli alleati della Nato acquistano armi dai nostri avversari, armi che minacciano la coesione stessa di questa alleanza». Cadute nel vuoto anche tutte le minacce di sanzioni, che probabilmente ora scatteranno, se non altro per salvare forma e dignità. Finora il Pentagono ha soltanto sospeso le consegne e qualsiasi attività operativa legata agli F-35 (il vero timore è che i turchi possano girare ai russi dati riservati). Ma il “sultano” di Ankara continua a fare sfoggio di spavalderia. Dopo l’annuncio della consegna dei missili russi, Erdogan si è perfino stupito dello stupore degli alleati: «L’acquisizione del sistema di difesa aerea S-400 dovrebbe rendere felice la Nato. Perché il sistema renderà più forte la Turchia, che è il più potente pilastro della Nato. Con il volere di Dio, metteremo la parola fine sugli S-400 ad aprile 2020». Non sfugge il dettaglio che la consegna sia stata ottenuta alla vigilia del terzo anniversario del mancato (e ancora controverso) golpe in Turchia, probabilmente lo “snodo” politico che ha portato all’attuale situazione. 

E la Nato è “preoccupata”

Stupisce invece la prudenza con cui la Nato ha reagito, almeno ufficialmente, a questa provocazione senza precedenti. Fonti dell’Alleanza riferiscono di essere “preoccupati” per l’evoluzione della vicenda. Null’altro. E perfino sul fronte statunitense, che fin dalla firma del 2017 si era schierato apertamente contro l’accordo, comincia ad aprirsi qualche crepa. In una nota diramata dal dipartimento di stato, il presidente Trump ha  confermato lo stop della vendita degli F-35, ma continuando a sottolineare le “buone relazioni” con il presidente turco e sostenendo che Erdogan è stato praticamente costretto ad acquistare gli S-400 dopo che l’amministrazione Obama si era rifiutata di vendere alla Turchia le componenti di difesa del sistema Patriot (perché tra le condizioni poste da Ankara c’era l’opzione di produrre i missili in maniera autonoma). Una “giustificazione” del passo che ricalca esattamente la posizione turca. Come ha spiegato pochi giorni fa l’ambasciatore a Roma, Murat Salim Esenli: «L’ombrello di difesa Nato copre parte della Turchia, appena poco più a est di Ankara. Abbiamo metà del nostro paese da difendere». E come ha ribadito lo stesso Erdogan: «Il sistema di difesa interna è una decisione sovrana della Turchia che non può essere messa in discussione da Washington o dagli altri alleati militari in Occidente».

«Avvertimento politico agli Stati Uniti»

La forzatura di Erdogan può essere letta in vari modi. «A mio avviso è un avvertimento politico agli Stati Uniti», ha spiegato all’HuffPost l’ambasciatore Alessandro Minuto-Rizzo, presidente della Nato Foundation Defense College. «Un avvertimento che nasce dalla profonda insoddisfazione dei turchi nei confronti di alcune scelte compiute da Washington: una è relativa alla protezione offerta dagli Usa a colui che, giusto o sbagliato che sia, Ankara considera l’ispiratore del fallito colpo di stato del luglio 2016: Fethullah Gülen, di cui Erdogan ha chiesto più volte l’estradizione che non è stata concessa dalle autorità americane. L’altro sgarbo, forse ancora più grave, riguarda il sostegno che gli Stati Uniti continuano a offrire alle milizie curde in Siria, riconoscendo loro un ruolo importante acquisito sul campo nella guerra contro l’Isis».

«Questa è una rapina»

Alla notizia dello stop alla consegna degli F-35 americani, il presidente turco ha reagito ringhiando: «Gli Stati Uniti stanno commettendo una rapina», come riporta il quotidiano turco Hurriyet, dichiarazione poi ripresa da gran parte della stampa internazionale. «Se hai un cliente che paga come un orologio, come puoi non dargli quel bene?» La Turchia ha investito 1,4 miliardi di dollari nel programma F-35 della Lockeed Martin, con l’impegno di acquistare 116 aerei da guerra. Ma i quattro caccia che dovevano essere consegnati ad Ankara restano bloccati in una base negli Stati Uniti. Ai piloti turchi è stato recentemente impedito di addestrarsi a bordo dell’aeromobile. E nulla esclude che a breve gli Stati Uniti possano avviare il trasferimento in un sito alternativo dell’arsenale nucleare attualmente stoccato nella base di Incirlik.

L’ossessione della produzione missilistica

Il presidente turco, che pochi giorni fa è stato costretto a incassare una sonora sconfitta interna, (costretto a cedere all’opposizione la poltrona di sindaco di Istanbul), sembra comunque tutt’altro che in difficoltà. L’obiettivo è sempre lo stesso: conquistare una qualche forma d’indipendenza e di protagonismo, militare e politico, sullo scenario internazionale. Ankara vuole produrre in casa componenti missilistici che possano, un giorno, diventare indispensabili per l’Alleanza di turno. Una specie di ossessione per Erdogan. Da qui il tentativo per avere i Patriot. E da quel rifiuto, il passo (rischioso) verso i russi. «La nostra collaborazione con Mosca diventerà ancor più stretta», ha spiegato ancora il “sultano”. «Il nostro obiettivo è la produzione congiunta con la Russia dei missili S-500», vale a dire l’upgrade del sistema di difesa russo. Ma appare improbabile che Putin possa concedere a Erdogan quel che Obama gli aveva negato. Nasce da qui l’ambiguità, militare e politica, di Ankara che sta impegnando non poco le diplomazie. Perché non si tratta tanto di un “riorientamento” strategico della Turchia (nessuno strappo formale con la Nato, dichiarazioni di appartenenza all’Alleanza), quanto di un ampliamento del terreno di confronto con la presunzione di poter giocare contemporaneamente (e impunemente) su entrambi i fronti. 

Quindi da una parte c’è Erdogan che fa la voce grossa, spariglia le carte, spiazza gli alleati, ma non ha alcun interesse a “rompere” le alleanze esistenti (sarebbe rischiosissimo consegnarsi senza condizioni nelle mani di Putin). Dall’altra Trump, che sarà in qualche modo costretto a mostrarsi indignato per la spavalderia e l’arroganza del presidente turco (e a comminare qualche sanzione), ma anche lui preoccupato di non tagliare i ponti con un alleato troppo prezioso e strategico per il controllo militare della zona. Il vero problema a questo punto diventa l’affidabilità della Turchia. Fino a che punto, alla luce di quanto accaduto, ci si potrà fidare? E in mezzo c’è la Nato, che mai si era trovata a subire un simile affronto. Restare inerme, per l’Alleanza, sarebbe un gravissimo precedente. 

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