SOCIETÀ

Giornata mondiale dell’alimentazione 2022: dati e libri per capirci qualcosa

Aumentano, invece che diminuire, i numeri della fame. Nel 2021, 828 milioni di persone si sono trovate in una situazione di fame vera. Più di tutte le persone che popolano il continente europeo. L’anno prima, nel 2020, erano 46 milioni in meno (quasi una Spagna intera, per capirci) e prima del Covid, nel 2019, erano 150 milioni in meno (Francia e Germania combinate). I numeri sono tremendi, e sono quelli del rapporto delle Nazioni Unite 2022 The State of Food Security and Nutrition in the World.

Ancora prima di entrare nelle complesse ragioni, perché complesse lo sono davvero, che hanno determinato in così poco tempo un deterioramento rapido dei pochi miglioramenti che si erano visti negli ultimi decenni, fermiamoci un attimo a pensare. Perché i numeri, quando sono così importanti e significativi, fanno perdere di vista il fatto che dietro ciascuna di queste unità c’è una persona. Una persona che si alza la mattina e non ha abbastanza da mangiare e passa dunque la sua giornata sentendosi costantemente affamata. Una persona che per questo farà fatica a fare qualsiasi altra cosa, a studiare, lavorare, occuparsi della propria vita quotidiana. Una persona che rischia di morire, e comunque, soprattutto se è nei primi anni di vita, di non crescere bene, di non svilupparsi, di non poter imparare nulla.

La fame è la metafora più violenta delle disuguaglianze secondo la descrizione di Martin Caparros, scrittore e giornalista argentino che proprio a La fame ha dedicato intitolandolo un corposo libro di oltre 700 pagine, tradotto da Einaudi nel 2015. Che, appunto perché la fame ancora morde così tante persone e sempre di più invece che sempre di meno, rimane attualissimo e una lettura davvero consigliata. Dietro la fame ci sono meccanismi incrociati, complessi e complicati, che però è necessario smascherare, aprire, scardinare. E che richiedono la messa in campo, sempre, nonostante il tema sia dibattuto da anni in tanti diversi contesti e stanze e convegni e università senza che si sia riusciti a trovare soluzioni incisive, di una grande onestà intellettuale e di un desiderio profondo di cambiare le cose.

Perché, si chiede Caparros, come facciamo in fondo a sopportare che le cose stiano così? Come si fa a non provare vergogna? A volte, forse, si finisce con il nascondersi dietro ai numeri, a neutralizzarli appunto, non fermandoci a pensare alla dimensione concreta, umana, alla corporeità di questi dati. E Caparros in questo senso ci chiama in causa, perché invece questi numeri li scardina, e va sul campo. Raccoglie le storie. Nei paesi africani, in Asia, tra India e Cina, in Sudamerica, il suo continente, e in Nord America. Le storie di chi sta morendo o di chi ha visto morire i propri figli. Ma analizza anche il sistema di produzione e distribuzione alimentare, quel sistema perfezionato nella seconda metà del ‘900 che ha come suo fattore intrinseco la generazione di milioni di affamati, perché è organizzato e costituito in modo da tutelare i beni prodotti in alcuni paesi a scapito di altri, perché privilegia le ragioni del mercato rispetto alle necessità delle popolazioni meno privilegiate e anche di quelle fasce di popolazione più povere e privi di mezzi che si trovano a vivere in paesi ad alto reddito. Ci sono dati, numeri, e tantissime voci e visioni e anche affermazioni nel libro di Caparros. Che non si ferma finché non ha ricomposto un puzzle molto articolato, di pezzetti piccolissimi ma ben incastrati, che restituiscono una fotografia di un sistema organizzato quasi a tavolino, dove pochi centri di potere gestiscono e decidono la sorte di milioni di persone.

Non mancano i riferimenti al mercato finanziario, che ha spinto e progressivamente distorto i meccanismi di ideati già a metà ‘800 per remunerare e garantire ai produttori agricoli dei prezzi rispetto a un prodotto che sarebbe arrivato solo mesi dopo, i cosiddetti contratti a termine o futures. Come abbiamo già raccontato anche qui, nell’inchiesta pubblicata di recente "Speculare sul cibo con i soldi dei lavoratori? Alcuni fondi europei fanno proprio così", negli ultimi 30 anni quel meccanismo che era inizialmente necessario e utile a favorire la compravendita dei prodotti alimentari, è stato spinto verso forme di speculazione che nulla hanno più a che vedere con il prodotto in sé, con il mercato reale. E le conseguenze sono quelle di rialzi, anche molto consistenti, dei prezzi dei prodotti alimentari che non corrispondono in alcun modo alle dinamiche produttive. Un sistema che si è attivato drammaticamente nel corso della crisi del 2008 e che, nei mesi passati, è tornato a colpire.

Ma non ci sono solo le storture del sistema agroalimentare e della finanza. Ci sono problematiche relative alla competizione tra alimenti ed energia, con la produzione di biocarburanti a partire da prodotti che potrebbero invece soddisfare le necessità alimentari di intere popolazioni. E ci sono, allargando il cerchio, le problematiche relative alla gestione della terra, tra riforme agrarie che in molti casi sono rimaste sulla carta o non si sono proprio fatte, e fenomeni come quello del land grabbing, il vero e proprio accaparramento e furto di terra da parte di grandi corporations ai danni di piccoli agricoltori spesso con la complicità di governi locali e nazionali corrotti o incapaci di difendere gli interessi delle proprie popolazioni. Un libro duro, ma necessario, le cui storie, rilette oggi, nel mezzo di una nuova crisi globale, dove alle guerre e ai conflitti si sommano i sempre più evidenti e drammatici effetti della crisi climatica e ambientale, aiutano a dare realtà e corpo a quei numeri.

Il 2022 ci trova ancora alle prese con la pandemia del COVID-19, conflitti, un clima sempre più caldo, prezzi in ascesa, disuguaglianze e tensioni internazionali. Tutto ciò ha ripercussioni sulla sicurezza alimentare globale FAO, World food day 2022

Che non riguardano solo i paesi a basso reddito, è bene ricordarlo. Anzi. C’è, secondo uno studio congiunto dell’Università di Pisa e della Tuscia, il 22% della popolazione italiana - una persona su cinque - a rischio di povertà relativa, e cioè non nella condizione di fame drammatica ma che non ha la possibilità, per ragioni economiche, di comprare del cibo di buona qualità. Una persona su cinque che dunque è destinata a mangiare male. 

E dunque, perché, nonostante decenni di investimenti e di ricerche e di campagne, siamo oggi di fronte a un quadro che è chiaramente piuttosto fosco?

Una delle ragioni la troviamo raccontata in dettaglio all’interno di un altro libro, "Chi possiede i frutti della Terra", uscito nei mesi scorsi per Laterza, a firma di Fabio Ciconte, saggista e ambientalista, direttore dell’associazione Terra! Concentrandosi sui meccanismi che hanno portato a una vera e propria industrializzazione del settore agricolo, nei fatti spogliando gli agricoltori del diritto di scegliere cosa mettere in campo e come gestire le proprie produzioni, Ciconte sceglie la strada e il formato del reportage sul campo raccogliendo e riproponendo molte voci di chi l’agricoltura la vive, dalla fase di ricerca a quella di produzione.

All’inizio c’è di nuovo una mela…

Il libro apre portandoci indietro nel tempo e ripercorrendo la vicenda dei primi brevetti in ambito vegetale, dalla costruzione dell’impero della famiglia Stark e dalla prima idea di mettere un brevetto commerciale sulle varietà di mele e altri frutti che venivano selezionate e prodotte. Siamo alla fine dell’800 e questa è una storia di pionieri, inventori, imprenditori agricoli che provano a costruire un sistema laddove un sistema non c’è ancora. Dalle prime proposte di legge sui brevetti vegetali, nei primissimi anni del ‘900, fino agli anni ‘30 quando Paul Stark scrive la bozza di un emendamento da presentare al Congresso americano che aggiungerebbe la brevettabilità delle piante alle leggi pre-esistenti sui brevetti. Poco dopo arriva il Plant Patent Act, approvato dal Congresso americano. Una norma che “cambierà per sempre la storia dell’agricoltura” scrive Ciconte, da un lato tutelando gli interessi economici dei breeder, coloro che selezionano le nuove varietà, e soprattutto quelli delle aziende, come la Stark, che quelle varietà acquistano e vogliono controllare. Questo, sottolinea Ciconte, è un passaggio chiave perché da quel momento prevale l’idea che “all’agricoltura debba essere riconosciuto lo stesso valore economico dell’industria, che debba quindi essere messa nelle condizioni di competere sui mercati globali traendone profitto.” 

La rivoluzione verde e la diffusione degli ibridi

Seguendo il filo delle innovazioni e della nascita del mercato dei semi ibridi, il libro di Ciconte ci porta poi al periodo post bellico, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando gli Stati Uniti assieme ai pacchetti di aiuti del Piano Marshall diffondono anche il proprio modello di produzione agricola, basato interamente sull’uso di ibridi. Al contempo, in altre parti del mondo, gli Stati Uniti danno il via alla cosiddetta rivoluzione verde, prima in Messico e poi in Pakistan e in India. A tutti gli effetti, la rivoluzione verde è nei fatti una “rivoluzione ibrida”, scrive ancora Ciconte, “una grande trasformazione socioeconomica e ambientale che da un lato vede l’incremento delle produzioni, ma dall’altro pone le basi per la concentrazione del mercato nelle mani di imprese sementiere e agrochimiche” Ed è infatti a partire da questo momento che, continua Ciconte, “l’agrobiodiversità prende due strade molto distinte tra loro. Da una parte le istituzioni, che in questi anni hanno finito per concentrarsi solo sulla salvaguardia delle vecchie varietà a rischio di erosione genetica, pensando che l’unico modo per salvaguardarle – o per lo meno quello più economico – fosse la conservazione nelle banche del germoplasma. Dall’altra il settore privato, che nel corso degli anni ha messo in commercio «nuove» varietà, semi o piante che fossero, detenendone il controllo totale. E quando le nuove varietà sono state rilasciate dal pubblico, spesso lo si è fatto in ottica proprietaria.”

Chi gestisce l’agrobiodiversità oggi

Dal 1900 a oggi, circa il 75% della diversità genetica delle piante coltivate si è persa a favore di varietà geneticamente uniformi e ad alta resa e produttività. Guardando in particolare al mercato delle mele, alla loro storia di selezione e produzione, Ciconte svela le logiche che stanno dietro a un mercato sempre più alla ricerca di un prodotto standardizzato, omogeneo, riconoscibile, uguale, un mercato che controllo le varietà dall’inizio alla fine, dalla piccola piantina che si mette in campo fino al frutteto maturo che produce i frutti che poi vengono venduti globalmente. Il controllo di questa filiera è in mano a chi possiede la proprietà intellettuale della varietà. Ma negli anni recenti, il controllo delle grandi corporations va oltre, e si spinge fino agli accordi sulla vendita e poi sulla distribuzione alla grande distribuzione organizzata. In poche parole, pochissimi attori controllano l’intera filiera agricola, dal seme allo scaffale. Grazie ai regolamenti europei come quello approvato nel 1994 e che recepisce la convenzione internazionale UPOV sulla protezione delle varietà vegetali, i breeder e le aziende sementiere che detengono i brevetti sui semi, si vedono riconosciuto il diritto non solo di chiedere le royalties sulla costituzione delle nuove varietà ma anche quello di controllarne l’uso fino al consumatore. Cioè, di seguirle nelle fasi successive della filiera fino al mercato finale. Seguendo i tortuosi percorsi legislativi, Ciconte arriva a un punto chiave: le norme europee e internazionali oggi di fatto trasformano la biodiversità in proprietà privata. Se negli ultimi anni sono in corso anche diverse sperimentazioni, per esempio la costituzione di alcune varietà di frutta da parte di consorzi e istituti pubblici, che potrebbero dare il via a modelli diversi di gestione della proprietà intellettuale e della relazione tra breeding, produzione e vendita, così come la costituzione di varietà a partire da quelle dette di conservazione, al momento è indiscutibile che il mercato della produzione vegetale sia quasi interamente gestito da una manciata di aziende. Ed è altrettanto indiscutibile che, per motivi di distribuzione e di richiesta del mercato, vengono coltivate e vendute solo una frazione delle tantissime varietà vegetali esistenti e conosciute.

Salvare la diversità, in extremis

E tutte le altre? In chiusura del suo viaggio, Fabio Ciconte va a vedere che fine hanno fatto tutte le varietà selezionate, trovate, descritte e che oggi non sono in campo. E lo fa partendo dall’Artico, dove sta la banca dei semi delle Svalbard, il deposito di semi più grande del mondo, custodita tra i ghiacci, “un congelatore a cielo aperto” perché i semi, per essere conservati, hanno bisogno di basse temperature. Entriamo dunque nel Global Seed Vault, raccontato da chi ci lavora e da chi lo gestisce e mantiene, avvolto da una narrazione quasi mistica che si basa su una aspirazione che, alla luce della situazione mondiale odierna, sembra quasi naive: quella di riuscire a rafforzare la cooperazione tra nazioni e di salvaguardare la diversità delle colture agricole in eterno.

Al contempo, Ciconte ci offre una riflessione lucida e piuttosto severa sul fatto che “il deposito non è nient’altro che la risposta alla stupidità umana. Uno spazio immaginato, progettato e costruito dall’uomo per proteggerlo da sé stesso. Se oggi abbiamo bisogno di depositare i semi, preservarli, fare in modo che resistano nei secoli a venire, lo dobbiamo esclusivamente al fatto che negli anni abbiamo costruito un modello agricolo che ha ridotto la biodiversità con una velocità incredibile, mettendo a rischio il futuro della produzione agricola e, quindi, del cibo.”

Ed è dunque indispensabile oggi ingegnarsi a conservare la diversità genetica, che è sempre stata la base dello sviluppo agricolo nei secoli, fino a tempi molto recenti quando è stata drasticamente ridotta in campo. “Tradotto, - continua Ciconte, - mentre il sistema produttivo sta dilapidando le risorse genetiche, le istituzioni, invece di intervenire modificando quel sistema, mettendo dei vincoli alle aziende private che selezionano nuove varietà facendo, nei fatti, scomparire tutte le altre, invece di sostenere i piccoli agricoltori che adattano continuamente le sementi ai mutamenti del clima e alle caratteristiche del territorio, in una conservazione dinamica della biodiversità, hanno pensato che l’unica strada fosse quella di mettere al riparo le vecchie varietà, con la speranza che un giorno, chissà, possano tornare utili.”

In realtà la consapevolezza sulla necessità di salvaguardare la diversità genetica, fortemente compromessa dallo sviluppo agro-industriale, precede di qualche decennio il progetto della banca delle Svalbard. Nasce negli anni ‘60 e si concretizza negli anni ‘70 soprattutto grazie al lavoro di Erna Bennett, pioniera della conservazione delle risorse genetiche che ha lavorato alla FAO fino al 1972. Iniziano così a essere costituite nei diversi paesi decine di banche per la conservazione dei semi, nella modalità definita ex situ, e cioè appunto non in campo, non all’interno dell’ecosistema, ma al di fuori, impacchettati  e mantenuti all’interno di congelatori. In Italia, la banca più antica e importante è proprio del 1970 e si trova a Bari, ed è lì che Ciconte conclude il suo viaggio, raccontandone le vicende e anche le immense attuali difficoltà di gestione e mantenimento. Un viaggio che si chiude con un monito, una speranza, che è quella di riuscire a invertire la tendenza di questo modello, “un imperativo categorico per restituire valore al cibo, a chi lo produce, e per preservare la biodiversità, o almeno quella che è rimasta.”  

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