CULTURA

Gramsci, né tuttologo né musicologo, rivoluzionario curioso con senso del ritmo

Da decenni e sotto molte latitudini Antonio Gramsci (1891-1937) è uno degli italiani più conosciuti, letti, studiati e apprezzati al mondo, grazie a idee fertili per le vicissitudini umane contemporanee sul nostro pianeta. Eppure, per essere letto scrisse solo un poco in gioventù, prima da studente in Sardegna e poi da studente lavoratore giornalista a Torino. Per il resto della vita scrisse prevalentemente per finalità diverse dalla meditata visione di un “pubblico”. Nel decennio di militanza rivoluzionaria socialista e comunista vergava o pronunciava elaborazioni per indurre comportamenti e motivare azioni collettive. Nel decennio di penosa detenzione scriveva lettere (sottoposte a censura) per informare e intrattenere a distanza parenti e amici, oppure appuntava für ewig su precari quaderni, senza garanzie sul quando, quanto e come altri avrebbero forse potuto godere o confrontarsi rispetto alle sue riflessioni organizzate.

Le “fortune” scientifica e letteraria di Gramsci fanno, dunque, riflettere chi si organizza per pubblicare oggi saggi o altre narrazioni (non solo quelle cartacee), chi attende aggiornato in libreria le uscite annunciate, chi legge per interesse professionale o per intrattenersi piacevolmente. Probabilmente sia l’esistenza che le idee di Gramsci avrebbero avuto un’altra storia e un’altra geografia se la dittatura fascista non avesse malamente segnato i destini dell’Italia della prima metà del Novecento. Al contempo, dobbiamo sempre ricordare di non fare delle sue idee lette (dopo) un corpus culturale unitario e coerente. Ciò vale un poco per ogni “scrittore”, no fiction e fiction, frequentato in contemporanea o tempo dopo la morte, tuttavia vale di più e diversamente per un uomo che non voleva fare lo scrittore delle cose che lo hanno reso famoso dopo che era morto, privato della libertà di agire e scegliere.

La scoperta cartacea postuma di Gramsci per molti italiani, europei e sapiens dal 1948 in avanti ha fatto e continua a far innamorare alcuni di noi, affetto e stima. Se ne è qui già parlato spesso, anche nell’ultimo biennio. Negli 85 anni che ci separano dalla morte e durante i circa 75 anni in cui è stato possibile leggerlo, la personalità di Gramsci è stata “ricercata” con grande impegno, le idee espresse negli scritti giovanili, nei documenti e negli interventi politici, nelle Lettere dal carcere e nei Quaderni del carcere, sottoposte a doveroso accurato scandaglio critico, via via aggiornato con le nuove “scoperte”, pure ovviamente con il manifestarsi di opinioni differenti. Quasi ogni aspetto della concreta biografia (che inevitabilmente mantiene ancora alcuni vuoti e punti interrogativi) è stato comparato con le idee lette postume. La bibliografia su “Gramsci e…” … quasi ogni argomento è sterminata, talora a partire da piccoli spunti. Il rapporto di Gramsci con la musica non era stato finora molto approfonditamente analizzato, si può allora iniziare da un bel testo appena uscito, dedicato ad alcuni suoi scritti “giovanili”: Antonio Gramsci, Concerti e sconcerti. Cronache musicali (1915-1919), a cura di Fabio Francione e Maria Luisa Righi, Mimesis 2022, pag. 168.

Siamo a Torino, dove il gracile sardo Antonio Gramsci dall’autunno 1911 riuscì a frequentare l’università vincendo una borsa di studio. Lì divenne presto un militante attento a ogni sommovimento sociale, assiduamente impegnato nel Partito Socialista. Studiava linguistica, era colto e curioso, scriveva molto bene, iniziò a fare il giornalista sulle pagine cittadine del settimanale Grido del popolo e del quotidiano Avanti, ben diffusi fra studenti e operai. Sfido ogni giornalista presente a dichiarare di non aver voluto scrivere (almeno agli esordi) anche di quel che seguiva (privatamente o meno) di vitale nel campo delle arti e degli spettacoli! Gramsci venne assunto nel dicembre 1915 e fu “usato” frequentemente come cronista teatrale (titolare della rubrica “Teatri”, una passione fin dal liceo cagliaritano), lo si sapeva da oltre mezzo secolo.

Gramsci fu pure abituale cronista musicale, finora non lo si sapeva proprio, meglio impararlo. Non firmò quasi mai i suoi articoli, che comparivano perlopiù anonimi; né pubblicò mai una loro antologia, ovviamente. Tutti i volumi già usciti che portano il suo nome sono raccolte di “attribuzioni” postume ovvero di articoli che altri, studiosi operanti molti anni o decenni dopo la sua morte, hanno ritenuto scritti da lui, sulla base di diverse considerazioni: notizie sulla biografia, contenuti e stile espositivo, corrispondenza con testi sicuramente suoi (come le Lettere e i Quaderni), testimonianze di collaboratori e compagni di lotta. Per alcuni articoli gli elementi che riconducono a Gramsci sono molteplici e inequivocabili; in altri casi appaiono più labili e sfumati, hanno dato o possono dar luogo a controversie. La maggior parte dei testi di argomento musicale non gli erano mai stati attribuiti e, comunque, non erano mai stati editi. Che piacere leggerli!

Come noto, è avviata la pubblicazione nazionale ufficiale degli scritti di Antonio Gramsci, posta sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica nel 1990. Nel 1998 fu approvata una ripartizione in sezioni (ognuna con una pluralità di volumi, in parte pubblicati, in larga parte ancora in elaborazione) con le seguenti denominazioni: Scritti 1910-1926Quaderni del carcere 1929-1935Epistolario 1906-1937. I volumi 1910-1916 e 1917 sono già stati pubblicati nel 2019 e nel 2015, non ancora ii successivi. I testi musicali vengono presentati da Righi e Francione in ordine cronologico: 47 del 1915-1916, 18 del 1917 e 18 del 1918-1919, 83 in tutto e, per quanto riguarda pochi del periodo 1915-1917 e quelli 1918-1919, sono dunque attribuzioni non ancora pienamente ufficiali, seppur motivate e molto probabili. Sono pezzi quasi sempre di poche righe o frasi, apparsi sulla pagina torinese del quotidiano socialista Avanti, occorre immaginare la foliazione e i giornali di allora, non gli inserti culturali di oggi. Gli “sconcerti” gramsciani del titolo risalgono alla recensione del 17 maggio 1916 su un concerto pianistico al Liceo Musicale che titillava i nervi, variamente.

Mentre una scelta degli articoli “teatrali” (definiti “cronache” da Calvino, non vere recensioni) era apparsa già nei primi volumi dei Quaderni, mai erano state selezionate le cronache musicali (spesso brevissime) di opere, operette, concerti, balletti e vaudeville, probabilmente per il pregiudizio che Gramsci avesse un cattivo rapporto con la musica. Non era così: l’ottima approfondita introduzione di Maria Luisa Righi affronta le conoscenze musicali gramsciane, biografiche ed epistolari (specie rispetto alla compagna violinista Giulia Schucht, madre dei loro figli): mai nelle argomentazioni di Gramsci si coglie una gerarchia tra le forme artistiche o una svalutazione della musica. All’epoca l’ascolto della musica sinfonica e operistica era possibile solo assistendo alle esecuzioni dal vivo, cosa che Gramsci fece spesso e volentieri, con sincero godimento estetico e critica curiosità sociale (grazie alla nota influenza di Rolland), per quanto dal 1915 si trattasse di spettacoli in tempo di guerra.

Negli anni torinesi Gramsci riuscì certamente ad assistere a diverse operette e a un numero notevolissimo di opere liriche. Tra il 1916 e il 1918 siamo vicini al numero di trenta, ben venti delle quali concentrate nel 1916: pur senza conoscenze musicali specifiche appare l’interesse di un accanito melomane! E infatti spiegava: “Non siamo critici ma cronisti, registro più o meno banale di emozioni profonde, di vittorie spirituali, di esaltazioni e di sensazioni… Che importa a noi l’analisi o la vivisezione dell’opera d’arte? Volessimo, non sapremmo, per temperamento, esercitare tale mestiere”. I giudizi musicali di Gramsci si basano pertanto sull’emozione, sincera, oltre che sulla curiosità di capire leggendo prima e dopo: schede bibliografiche, le riviste, la Storia universale della musica di Riemanne e, come detto, Romain Rolland, il riferimento politico culturale che scelse in quegli anni  in materia di politica, di guerra, di pessimismo della ragione e ottimismo della volontà, di musicisti e di musica: Beethoven, Berlioz, Wagner, Saint-Sëans, Debussy per esempio, oppure il capitolo in La musique du peuple sulla preclusioni imposte ai ceti meno abbienti (e non giornalisti) dal costo degli spettacoli.

Gramsci, in campo operistico, per fare soltanto alcuni esempi, apprezzò tante opere, quelle di Verdi (Ernani, Aida, La Traviata, Rigoletto, Otello), Rossini (Il Barbiere di Siviglia), Donizetti (Lucia di Lammermoor, Favorita, Don Pasquale, ma non La figlia del reggimento), Boito (Mefistofele), Mascagni (solo Cavalleria rusticana, non Le Maschere e Lodoletta), Leoncavallo (Pagliacci). Criticò aspramente Puccini, sia Bohème che Fanciulla del West e Rondine. Rispetto ai concerti ascoltati, le tre direzioni di Arturo Toscanini al “Regio” Teatro Municipale nel 1916 furono lungamente recensite con grande entusiasmo il 10, 12 e 14 maggio, definendolo con piglio acuto “duce impareggiabile delle falangi orchestrali”. Pochi giorni prima aveva preliminarmente e polemicamente scritto proprio un “Omaggio a Toscanini” difendendo la scelta di “Ella, egregio maestro” (si tratta di una sorta di lettera aperta) di aver incluso una sinfonia di Wagner nel programma, suscitando un vespaio da parte dei giornali “borghesi”, che denunciavano il rischio di deduzioni negative su Torino, subalterni al “servilismo estetico” e al “chimismo demagogico” in tempo di guerra.

Quell’anno apprezzò anche i due concerti con vari pezzi, esecutori, strumentisti e cantanti, organizzati dal Ministero della guerra francese, i concerti pianistici di Rosetta Maudente, e di Miecio Horzowski, due dei tre recital dell’”eccezionale” Helena Morsztyn, “più artista che pianista, più interprete che virtuosa”, provando ad aggiungere qualche spunto di vera e propria critica musicale e sociale sull’evento ascoltato. Nella recensione del secondo concerto, in premessa si scusa perché le “imprescindibili necessità editoriali” impongono al suo quotidiano un giorno di ritardo nella “cronaca di certi avvenimenti serali”, correggendo però subito altri resoconti già letti su quantità e qualità del pubblico presente, in realtà scarso e rumoroso, “vacuo e poltrone”: Beethoven “impone silenzio, agita, trasporta, violenta le anime elevandole a vette vertiginose”.

Gramsci contrappone lo snobismo dell’alta società al sentire proletario, usa espressioni inconsuete come “purificarsi l’anima a traverso il Roveto ardente” o “accostarsi alla bontà divina”, pur coerenti con il criterio dell’emozione, che pare estendersi alla stessa idea di socialismo di quei suoi anni: “come scarseggiano coloro che amano con passione, che si sacrificano volontariamente per un’idea, per una causa, disinteressatamente, così non abbondano gli uditori” nei concerti che “di Beethoven e di Chopin” traducono “la bellezza, la possanza e il dolore”. Si tratta ancora dei “motivi soliti e antichi che vietano ai lavoratori non solo i mezzi per assistere ai concerti, leggere i libri, o frequentare musei, ma il pane, con o senza companatico, e anche la vita… Il cuore proletario è un tesoro immenso e ancora inesplorato di sensibilità artistica”.

Gramsci fu cronista musicale e cercò innanzitutto di tenere informato il pubblico militante dei lettori torinesi dell’Avantisulla vita culturale della città, spesso gli articoli sono semplici annunci o sintetici resoconti degli eventi: date e luoghi, opere e artisti coinvolti. Era un rivoluzionario curioso, aveva emozioni intellettuali e senso del ritmo narrativo (oltre che orecchio musicale). Soprattutto voleva parlare ai potenziali fruitori poveri e agli stessi lavoratori di quel mondo culturale, così all’inizio della primavera del 1918 fece uscire un pezzo intitolato “Il caro-viveri e gli artisti teatrali” (ne abbiamo letti tanti di simili durante l’odierna pandemia): “una delle categorie di lavoratori che è in condizioni morali e materiali peggiori è proprio quella degli artisti teatrali, di quelli che non hanno fortuna e capacità sufficienti per salire ai primissimi posti”. Come sempre non si tratta di un dato ideologico, Gramsci coglie l’occasione per raccontare nei particolari l’esempio delle coriste sfruttate dall’imprenditore speculatore Carlo Lombardo, scrive e opera nel contesto del suo motivato impegno militante socialista.

La postfazione del volume è dell’altro curatore, Fabio Francione, che sottolinea il carattere unitario della riflessione gramsciana: lo spettacolo e la musica legati a politica e società. In appendice gli utilissimi indici dei nomi e delle composizioni. Le cronache musicali gramsciane 1915-1919 non esauriscono la materia del rapporto biografico e culturale di Gramsci con le pratiche e le arti musicali. Quello che lui scrisse in vita (non per essere letto un secolo dopo) non è un’enciclopedia di definizioni, concetti, opinioni, nè opera programmata di un tuttologo. I testi giovanili furono sottoposti a ricordi, rimpianti e ripensamenti nei carceri dove non potè certo ascoltare musica (troveremo molte tracce di Verdi, ovviamente nei Quaderni, e Beethoven in una lettera) e ciò vale quasi per ogni altra umana attività e idea, frequentata prima e rielaborata poi.

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