SCIENZA E RICERCA

Grandi terremoti e tsunami, l’acqua contenuta nell’argilla lubrifica la faglia

Inizia a diventare più chiaro il meccanismo che porta alla genesi dei grandi terremoti e degli tsunami grazie a uno studio condotto dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, in collaborazione con gli atenei di Pisa e Padova e l’University College London. Lo studio, dal titolo Fluid pressurisation and earthquake propagation in the Hikurangi subduction zone, è stato pubblicato sulla rivista Nature Comunications. Dall’analisi in laboratorio del comportamento di alcuni campioni provenienti dai fondali della Nuova Zelanda, più precisamente dalla zona di Hikurangi, il gruppo di ricercatori ha scoperto che le argille presenti tendono ad avere una bassa resistenza alle spinte sismiche a causa dell’acqua pressurizzata che trattengono al loro interno.

Storicamente i terremoti più forti della storia sono avvenuti in corrispondenza della placca pacifica, una zona enorme praticamente come l’oceano che ne condivide il nome, che nel corso dei secoli ha accumulato una grande quantità di energia. Proprio sui limiti di questa grande placca si concentra l’attenzione degli studiosi, dei sismologi, precisamente dove la faglia va in subduzione, scivola sotto all’altra faglia adiacente, e così facendo, con un movimento molto lento, caricandosi elasticamente fino a quando l’energia viene sprigionata con un terremoto.

Per riprodurre queste dinamiche gli scienziati si sono dotati, negli anni, di macchine sperimentali che possano deformare le rocce con altissime pressioni, con alte velocità di scorrimento, alcune anche con l’innalzamento della temperature, in grado cioè di riprodurre le condizioni prossime a quelle dei terremoti.

Oltre alla tecnologia,  servono i campioni della roccia. In questo caso specifico, i campioni sono stati raccolti durante la campagna internazionale di perforazione Integrated Ocean Drilling Program 375 del 2018, effettuata a largo della Nuova Zelanda, a cui ha partecipato la professoressa Francesca Meneghini dell’università di Pisa. Il luogo della perforazione è stato scelto accuratamente: sebbene i terremoti riconducibili a questo zona non siano forti come quelli originati in altri luoghi della placca pacifica, qui la faglia in subduzione si trova meno in profondità, quindi è raggiungibile con meno fatica e con un dispendio economico più contenuto. 

I campioni provenienti dalla faglia sono stati poi polverizzati e quindi testati nel laboratorio Alta Pressione e Alte Temperature dell’Ingv, attraverso Shiva (Slow to High Velocity Apparatus) una macchina sofisticata che riproduce il “motore” dei terremoti (la faglia), finanziata dall’European Research Council su progetto di Giulio di Toro, del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova e co-autore dello studio.

Intervista completa al professor Giulio Di Toro, co-autore dello studio. Servizio, riprese e montaggio di Elisa Speronello

Proprio il professor Di Toro ha spiegato cosa succede alla faglia nel caso di forti terremoti e tsunami: “è proprio come quello che avviene in un campetto di periferia, dopo un acquazzone, se si vuole giocare a calcio: si scivola. Lo stesso avviene avviene in un terremoto, cioè quando la faglia si rompe, e la rottura si propaga lungo questa faglia, consentendo alle placche di scorrere una rispetto all'altra, e l’acqua intrappolata, il fango, fanno sì che la faglia sia lubrificata”. Quindi l’acqua intrappolata nell’argilla porta a una lubrificazione della faglia e questo fa sì che lo scorrimento dei blocchi ai lati della faglia di queste placche sia relativamente agevolato, e quindi, continua Di Toro, “possiamo avere dei casi dove il fondale, se il terremoto è abbastanza grande, di magnitudo 7-8, o addirittura 9, si sollevi di diversi metri, 7-8 metri, per esempio. Questo sollevamento del fondale "energizza", si dice in gergo, la colonna d'acqua sovrastante, che può essere in alcuni casi di diversi chilometri”. Nasce così l'onda di tsunami, che poi viaggia a velocità di circa 800 chilometri orari verso la costa. Quando si trova in mare aperto quest'onda è bassa, ma ha una energia enorme, bisogna ricordare che si tratta di una “colonna d'acqua” di 6-7 chilometri, in mare aperto, che viene energizzata. Quando i fondali cominciano ad abbassarsi, verso la costa, iniziano i problemi: l’onda si alza fino a raggiungere elevazioni di 30 metri o più, come è successo a Sumatra nel 2004, o Tohoku in Giappone nel 2011.

Questa scoperta sulla genesi dei grandi terremoti però, è solo l’inizio. I ricercatori vogliono concentrarsi anche sui terremoti più piccoli, per scoprire se attuano lo stesso comportamento, e sulle frane. “Questo tipo di lubrificazione è un comportamento fisico generale” spiega ancora il professor Giulio Di Toro, “che riguarda le argille imbevute d’acqua”. Ma il professore rivela che i loro sforzi si concentreranno ancora più in “profondità”, letteralmente. Infatti le analisi che hanno condotto interessano solo gli ultimi 5-6 chilometri della crosta terrestre, più si scende in profondità, più aumentano le pressioni e le temperature. Per comprendere come avviene la “nucleazione”, ovvero come nasce un terremoto, servono altre strumentazioni, che possano riprodurre le condizioni estreme che ci sono in profondità. Un prototipo, che attualmente è nei laboratori del dipartimento di Geoscienze a Padova, è stato messo a punto e i ricercatori sono pronti a continuare a indagare cosa avviene nelle profondità della Terra.

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