CULTURA

Herzog racconta Gorbaciov senza dubbi o chiaroscuri

“Volevo più democrazia e più socialismo”. Il dramma di Michail Gorbaciov è tutto in questa frase, nell’impossibile sogno di conciliare un modello autoritario con valori liberali. Un tentativo titanico, quello dell’ultimo segretario generale del Partito Comunista Sovietico, forse destinato al fallimento dal principio, fonte di giudizi opposti: per la maggioranza dei russi, il suicidio di un impero; per gran parte degli occidentali, un processo la cui nobiltà e audacia rimangono indelebili, fonte di cambiamenti storici come la riunificazione della Germania e la democratizzazione dell’Est Europa. Un’impresa certo meno monumentale ma piena di insidie tenta anche Werner Herzog, che in Herzog incontra Gorbaciov, co-diretto da André Singer, tenta di condensare in poco più di un’ora e mezza di film i quasi novant’anni della vita di un uomo che, comunque la si pensi, è stato protagonista di una delle grandi svolte del Novecento.

Rischio duplice: se è già arduo trovare una chiave per sintetizzare una vita così ricca e complessa, ancora più pericoloso è farlo lasciandosi guidare dalle emozioni e la soggezione che un’ammirazione profonda può suscitare. Il genere del documentario biografico richiede, in effetti, una precondizione di difficile avveramento: l’autore dovrebbe evitare l’“effetto-ola”, la perdita di equilibrio e proporzioni che è in agguato quando si rimane irretiti dal fascino del personaggio narrato. Si rischia, in caso contrario, la modalità Oliver Stone, capace di rappresentare Fidel Castro come un bonario benefattore del popolo senza dilungarsi in tediosi dettagli su diritti umani e altre quisquilie.

Herzog, per fortuna, non è Stone: le sue antiche doti di documentarista sono note, e il suo tono non è quello di un propagandista. Ma non è nemmeno un reporter, né pretende di esserlo, e non si cura di nascondere un entusiasmo che, in certi momenti, sconfina nell’ossequio. Il film, così, pur presentando sequenze di grande suggestione, acquista un sapore celebrativo. Dall’impresa del giovane agricoltore modello che riceve, a soli 17 anni, l’Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro per l’eccezionale mietitura stagionale nella fattoria collettiva dove lavora la sua famiglia, in un villaggio nel Caucaso del Nord, alla grandiosa carriera politica, prima a Stavropol e poi a Mosca, Herzog incontra Gorbaciov incastra i vari tasselli secondo una cadenza trionfale, senza porsi troppe domande o cercare particolari lati d’ombra. Lo lasciano trasparire, del resto, gli stessi autori nelle note a presentazione del film. Herzog si spinge a vedere una continuità tra Gorbaciov e Putin, artefici entrambi, secondo il regista, della restituzione al popolo russo della “dignità” che Boris Eltsin avrebbe invece gettato al vento. Singer, dal canto suo, cita con orgoglio l’essere riusciti a porre all’ex leader domande come “Cosa le piacerebbe che fosse inciso sulla sua lapide?”, dimostrando di non aver ben chiaro il ruolo di un intervistatore. 

In Herzog incontra Gorbaciov (nelle sale dal 19 al 22 gennaio) le domande del regista sono intervallate da sequenze, a volte poco note, della vita del leader: ed è questo forse l’aspetto più interessante dell’opera, questo ripercorrere sessant’anni di storia (il protagonista è nato nel 1931 e l’Unione Sovietica si è dissolta a fine 1991) con una carrellata di volti, folle, ambienti che rievocano estetica e rituali dell’Impero. Ci sono le immagini fresche e informali della vita da studente in legge all’Università di Mosca, dove conoscerà Raissa; la cerimonia del completamento del Grande Canale di Stavropol nel ‘74, grande successo di Gorbaciov come segretario locale del partito; il salto a Mosca con la nomina a segretario del Comitato Centrale nel ’78 e poi membro del Politburo, e le straordinarie, surreali sequenze dei funerali di Stato dei leader: prima Breznev, da tempo malato, poi la breve stagione di Andropov, vero artefice dell’ascesa di Gorbaciov, infine Cernenko, di cui assistiamo alle messinscene del regime per fingerlo, dal letto d’ospedale, attivo e presente. Infine la nomina, alla morte di Cernenko nel 1985, a segretario generale del Pcus.

Da qui, i sei anni che hanno cambiato il mondo: le riforme interne, la fine della morsa sui Paesi del Patto di Varsavia, il disgelo con l’Occidente, la cruciale gestione del dopo-Chernobyl; e ancora le intese con Reagan e la Thatcher, la denuclearizzazione, il ritiro dall’Afghanistan, il crollo del Muro di Berlino, la caduta dei regimi nell’Europa dell’Est, la Guerra del Golfo. Una parabola che si chiude con l’ascesa di Boris Eltsin e il precipitare degli eventi del 1991: il fallito colpo di Stato con il trionfo del rivale, la fine politica di Gorbaciov, la dissoluzione dell’Urss. Un crollo dovuto, secondo l’ex segretario del Pcus, non certo alla sete di democrazia di Eltsin e i suoi alleati, “politici avventati che piacciono alla gente”, ma a una pura lotta di potere: e qui affiora un rimpianto con toni da antico regime, quando Gorbaciov ammette che avrebbe fatto meglio “a mandare Eltsin da qualche parte”, magari - si potrebbe pensare - in Siberia come ai vecchi tempi. 

Certo, non ci si può attendere che Gorbaciov riconosca i limiti di un percorso politico quasi utopico: tra le poche voci sapide e discordanti del film, non a caso, c’è quella del vecchio Lech Walesa, che spiega come tutti, in Polonia, immaginassero come le riforme dell’Urss avrebbero portato al rapido collasso del sistema. Rimane la nostalgia per un leader che aveva saputo adoperarsi per attenuare le tensioni internazionali, far volgere a conclusione la Guerra Fredda, creare un clima più fattivo tra le grandi potenze: una strategia che oggi appare, purtroppo, lontanissima dall’azione dei grandi. “Ci abbiamo provato”, è l’epitaffio che Gorbaciov sceglie per sé, rispondendo alla domanda di Herzog. Torneremo ancora, un giorno, a vedere leader che cercano di conciliare potenza e diritto?

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