SCIENZA E RICERCA

L'amore ai tempi dei Neandertal

È una bambina di appena 13 anni, vissuta circa 90.000 anni fa in Siberia, ma sta facendo molto parlare di sé: Denny, come è stata affettuosamente ribattezzata, è infatti il primo individuo noto alla scienza per essere nato dall’ibridazione di due specie estinte del genere Homo, la neandertaliana e la denisovana (dal nome della grotta di Denisova, nei Monti Altai, dove i resti di questo nostro parente sono stati identificati per la prima volta nel 2010).

La notizia è stata pubblicata lo scorso 22 agosto da Nature, facendo seguito ai risultati conseguiti dal gruppo di ricercatori (di cui fanno parte anche gli italiani Fabrizio Mafessoni e Cesare deFilippo) guidati da Viviane Slon e Svante Pääbo  del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia. “Si tratta di una scoperta importante per almeno due motivi”, spiega a Il Bo Live Luca Pagani, ricercatore di antropologia molecolare e docente di antropologia e computational anthropology presso l’università di Padova; “il primo, squisitamente tecnico, è che la scoperta dimostra come effettivamente i Neandertal e i Denisova si siano incrociati tra loro, confermando le ipotesi molecolari già formulate da diversi studiosi. Un secondo aspetto decisivo è che, visto l’esiguo numero di individui arcaici il cui genoma è stato sequenziato fino a oggi – parliamo di poche decine –, il fatto di trovare già un ibrido ci dice che probabilmente Denny non era affatto un’eccezione”.

Pagani ha all’attivo diversi studi nel campo dell’analisi genetica di popolazioni umane contemporanee e ha anche collaborato con il Max Planck di Jena ad alcune ricerche sull’ibridazione tra Homo sapiens e Neandertal a livello mitocondriale, oltre che sulla presenza di varianti di origine neandertaliana nel genoma umano moderno. In effetti, se incroci ed ibridazioni erano così frequenti, ha ancora senso parlare di specie distinte? “Forse più che di specie oggi è meglio parlare di popolazioni umane arcaiche e moderne – prosegue lo studioso –. Da due specie diverse infatti non dovrebbero nascere individui fertili, al contrario di quello che sembra essere accaduto negli incroci tra Homo sapiens, Neadertal e Denisova. Oggi infatti sappiamo che nel genoma delle popolazioni eurasiatiche ci sono geni neandertaliani in una proporzione che va dall’1 al 2%. Inoltre i nativi della Papua Nuova Guinea e dell’Australia hanno anche dal 2 al 4% di geni provenienti dai denisovani”.

Più che di specie oggi è meglio parlare di popolazioni umane

Quando dunque i nostri progenitori Sapiens si sono diffusi in tutto il mondo le dinamiche delle loro relazioni con le popolazioni autoctone, Neandertal e Denisova, devono essere state simili a quelle tra europei e nativi americani dopo il 1492, fatte di battaglie e stermini ma anche di scambi e di casi integrazione. Anche sotto questo aspetto la scoperta di Denny lascia spunti interessanti: la mamma neandertaliana dalla bambina aveva un patrimonio genetico più prossimo ai resti scoperti nella grotta di Vindija in Croazia, risalenti a circa 55.000 anni fa, piuttosto che alle popolazioni neandertaliane ritrovate nello stesso sito e vecchie di 120.000 anni: “Un dato che ci dice che anche le altre popolazioni umane oltre ai sapiens aveva una mobilità che spaziava in tutta l’Eurasia”. E non è tutto: “I denisovani prendono il nome dall’omonima località della Siberia, ma il loro DNA è presente soprattutto nelle popolazioni umane moderne dell’Oceania, migliaia di chilometri a sud-est. Questo ci fa pensare che un tempo lo spazio compreso tra questi due estremi fosse abitato da questa popolazione arcaica”.

Le evidenze ci dicono insomma che ciascuna persona di origine europea o asiatica (per gli africani vale in parte un discorso diverso), ha almeno un lontano antenato neandertaliano e forse anche denisovano. Un aspetto che presenta ancora molti interrogativi, come ad esempio quello dei cosiddetti ‘deserti neandertaliani’: “In teoria il patrimonio genetico ereditati da questi altri progenitori dovrebbe essere distribuito in maniera casuale nel nostro DNA  – continua Luca Pagani – quando al contrario vediamo che in alcune regioni del nostro genoma è maggiormente presente, mentre in altre è praticamente assente”. Tipico caso di ‘gene neandertaliano’ è ad esempio il cosiddetto TLR, che regola il meccanismo dell’immunità naturale: “Ci difende da patogeni a cui probabilmente i Neandertal aveva già avuto il tempo di abituarsi, quando circa 60.000 anni fa vennero in contatto con i nostri progenitori sapiens appena usciti dall’Africa. Si tratta di uno dei rari casi in cui i geni neandertaliani nel nostro genoma sono stati favoriti dalla selezione naturale, mentre nella maggioranza degli altri non si sono rivelati particolarmente graditi al nostro organismo: si calcola infatti che all’inizio era neandertaliano fino al 5-6% del nostro patrimonio genetico”.

Ognuno di noi ha almeno un lontano antenato neandertaliano, e forse anche denisovano

Sta di fatto che la nuova scoperta getta nuova luce anche sullo sviluppo della nostra specie: “Una volta era diffusa l’immagine classica dell’albero, nella quale si assume che tra due rami ci sia un antenato comune piuttosto antico e che dopo la biforcazione non ci siano più scambi genetici. Una ricostruzione che oggi appare sempre più superata”. Perché, a dispetto delle nostre pretese di nobiltà, anche per gli umani la genealogia assume sempre più la forma di un Tangled tree, un albero dalla chioma ingarbugliata.

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