CULTURA

Il lavoro del semiologo tra passato e presente

Ci sono segni il cui significato diamo per scontato: una stretta di mano, un cartello stradale, un modo di dire. Eppure, questo non vale per i semiologi, cioè studiosi come Paolo Fabbri, che ha da poco compiuto 80 anni e che resta uno dei maggiori esperti in Italia sull'argomento.

La semiotica studia la significazione, ovvero la relazione che associa un segno (una parola, un gesto, una convenzione) a un significato, basata su quell'insieme di condizioni che ne determina il senso. In tutto ciò, non si tratta di capire cosa dicono questi segni, ma come lo dicono. Non ci sono segreti da svelare riguardo ai significati. Tutti riusciamo cogliere il senso delle usanze e delle convenzioni sociali in cui siamo immersi e di ciò che ci viene detto, compresi i gesti e le occhiate; siamo capaci di distinguere un'affermazione da una battuta, una richiesta da una domanda retorica, e così via. Quello che resta da indagare, però, ed è questo l'intento del semiologo, è il perché avvenga questa comprensione. In altre parole: come un segno rimandi a un senso.

L'uomo si è sempre interrogato sulla natura del linguaggio, sullo studio dei segni e sulla loro funzione. Alla fine del 1800, in particolare, filosofi del linguaggio come Austin, Frege e Grice hanno iniziato a porsi domande più specifiche riguardo allo scopo e al funzionamento del linguaggio, ai diversi generi di enunciati, e agli atti che è possibile compiere con il solo uso delle parole.

La semiotica si allaccia a questa tradizione, ma affronta questioni differenti, come spiega il professor Giuseppe Spolaore, docente di semiotica per il corso di laurea in scienze della comunicazione all'università di Padova.

“Da un lato c'è una tradizione che è quella della filosofia del linguaggio e che risale sostanzialmente a Platone e ad Aristotele; dall'altro c'è una tradizione di studio dei segni che possono essere linguistici o non (che comprendono, per esempio, anche il fumo come segno del fuoco), che ha anch'essa una storia molto lunga, ma che si differenzia dalla filosofia del linguaggio tra fine ottocento e inizio novecento ad opera di Ferdinand de Saussure e di Charles Sanders Peirce. L'idea generale è quella di uno studio più ampio rispetto a una semplice riflessione sul linguaggio. Studio che riguarda tutti i sistemi segnici: tutti i modi in cui si può esprimere un contenuto”.

C'è quindi un momento in cui si sviluppa una tradizione di studi semiotici che diventa consapevole. Tali studi riguardano qualcosa in più rispetto al linguaggio: indagano tutti i sistemi di significazione. In questo senso, l'area di interesse della semiotica è più ampia rispetto a quella della filosofia del linguaggio.

“La semiotica ha una tradizione culturale che ha due anime”, chiarisce inoltre il professor Spolaore, “una fa riferimento a Saussure e può essere pensata come un'estensione della linguistica ad altri sistemi segnici, come per esempio il sistema dei semafori o dei segnali stradali. L'altra tradizione, quella di Peirce, è di orientamento logico, in cui l'enfasi è sull'inferenza, sul ragionamento”.

Sulle basi teoriche fondate da Saussure si sviluppa la tradizione strutturalista, i cui eredi sono i semiologi generativisti, tra cui Paolo Fabbri. Dall'altro lato si trova la tradizione interpretativa, la quale fa riferimento a Peirce e che in Italia viene associata alla figura di riferimento di Umberto Eco.

Eco intendeva la semiotica più come un campo di studio, che una disciplina. Con questo, egli intendeva dire che all'interno della semiotica generale, in modo analogo a ciò che succede con la filosofia, o con la fisica, o con la medicina, si trovano diverse specifiche aree di applicazione, cioè mirate a determinati contesti e linguaggi. Così come all'interno della medicina si trovano la cardiologia, la neurologia, la chirurgia, la semiotica si compone delle sue specializzazioni: semiotica del cinema, del design, del testo, del fumetto...

Differente è il modo in cui Paolo Fabbri intende il lavoro dello studioso di semiotica:

tagliare all’interno di questo campo aperto di questioni semiotiche una serie coerente di concetti e categorie, cercando di interdefinirli fra loro e orientarli verso un’unica pertinenza: quella del senso umano e sociale, dunque della sua significazione P. Fabbri, G. Marrone, Semiotica in nuce (vol. 1), Booklet Milano, 2000, p. 10

Secondo questo punto di vista, è preferibile concentrarsi sugli elementi in comune alle diverse aree di applicazione vedendole come parte di un'unica materia di studio, considerata una vera e propria “vocazione scientifica”.

“Si tratta di un'idea molto ambiziosa”, commenta a riguardo il professor Spolaore. “Non ci si limita a pensare a una disciplina che può essere anche molto diversa a seconda dei diversi ambiti di applicazione, ma si ha l'aspirazione di trovare dei meccanismi del senso che valgono per contesti anche molto diversi tra loro. Questa è la grande ambizione di fondo della semiotica generativa”.

Che riscontro trovano le idee di Paolo Fabbri negli studi di semiotica contemporanea? Ci sono ambiti di applicazione particolarmente rilevanti al momento?

“L'impressione è che alcune delle grandi volontà unificatrici siano state ridimensionate. Ma le cose sono in effetti un po' complicate. È parte di un'idea della semiotica il fatto che si possono ripensare i fondamenti di una disciplina a partire dalle applicazioni. Questa è una cosa che succede in molte discipline. Si parte con alcuni principi molto generali da applicare e poi si vede via via come metterli alla prova. Questo è quello che equanimemente si può dire della semiotica oggi, ovvero che molti studiosi si concentrano soprattutto su fenomeni specifici, come le teorie di marketing, o la teoria della letteratura o la costruzione dei valori, o altri ambiti in cui si arriva molto vicini al confine con la filosofia. La speranza di molti è che dalle applicazioni poi si possa ritornare a rivedere e a ripensare alla semiotica nel suo complesso, anche in una tradizione ambiziosa come quella generativa”.

Insomma, gli ambiti di applicazione sono molti. La semiotica condivide molte cose con la filosofia, ricorda il prof. Spolaore, occupandosi infatti di molte questioni “di fatto” – ovvero di come sia la realtà là fuori – ma anche di valore. “Però condivide molto anche con altre discipline più specifiche, come la semantica lessicale, la linguistica, i culture studies, la teoria della letteratura, in aree di applicazione vicine alla semiotica, come il branding, cioè il modo di svilupparsi dei brand. Proprio per la sua grande generalità, la semiotica si trova quasi per definizione alle spalle di grandi ambiti di studio. Come accade per la filosofia, la quale una volta comprendeva anche la fisica, allo stesso modo nella semiotica vi è un fenomeno di erosione, dovuto al fatto che molte tradizioni che erano molto saldate a quella della semiotica, come per esempio la narratologia, abbiano trovato poi una loro collocazione autonoma e che ora vengono pensate come campi di studio a sé. Ecco come questa multidisciplinarità poi diventa letteralmente una separazione tra varie discipline”.

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