SOCIETÀ

L'Egitto di Al Sisi, tre anni dopo Regeni

Un altro anno senza Giulio Regeni: anche per il 2019 il 25 gennaio in tutta Italia ci saranno iniziative per ricordare la tragica scomparsa del giovane ricercatore triestino, trovato morto alla periferia del Cairo il 3 febbraio 2016, e soprattutto per chiedere giustizia. Compito sempre più arduo, data l’apparente volontà da parte dei governi di mettere la sordina a una vicenda che in passato ha imbarazzato non poco le relazioni italo-egiziane.

Sul piano giudiziario è ancora tutto bloccato, il regime del Cairo continua a non cooperare nella maniera desiderata dalla procura di Roma, competente per le indagini – spiega a Il Bo Live Renzo Guolo, sociologo dell’università di Padova ed esperto di Islam e Medio Oriente –. Sul piano politico è chiaro che è prevalsa la logica della realpolitik, in nome di interessi economici e politici che vanno dalla lotta al terrorismo agli investimenti dell’Eni nell’area. È chiaro che allo stato attuale non c’è una forte pressione per risolvere il caso; si tratta del resto di una situazione che forse nemmeno il presidente Al Sisi riuscirebbe a sbloccare, dato che riguarda i rapporti di forza tra gli stessi apparati di sicurezza egiziani”.

Ma perché l’Egitto è ancora così importante sullo scacchiere internazionale?

Lo è ad esempio in relazione alla questione libica, dove è un referente importante del governo di Bengasi dominato dal generale Haftar; in secondo luogo l’Egitto è parte integrante dello schieramento anti-islamista da tempo patrocinato dall’Arabia Saudita, e non è un caso che proprio i sauditi abbiano sostenuto Al Sisi in questi anni di difficoltà economiche. Semmai ci si può interrogare su quale sarebbe l’atteggiamento del regime nel caso di una riesplosione del conflitto israelo-iraniano. Per il momento con Israele c’è una sorta di patto silenzioso contro il terrorismo jihadista, che è ancora molto presente nel Sinai, ma in caso di guerra conclamata per il governo egiziano non sarebbe affatto facile nei confronti della propria opinione pubblica assumere posizioni filoisraeliane”.

E da punto di vista interno Al Sisi come si sta muovendo? Che ruolo hanno ad esempio progetti faraonici (è proprio il caso di dirlo) come quello di una nuova capitale, oppure la recente inaugurazione della grande cattedrale copta?

“Bisogna considerare che l’esercito continua a mantenere un forte controllo sull’economia del Paese, nell’ordine del 40% per via diretta e indiretta, per cui un grande piano di investimenti pubblici serve evidentemente anche a saldarsi con gli interessi economici e produttivi della borghesia egiziana. Per quanto riguarda i copti, essi sono sempre stati ostili ai Fratelli Musulmani e sono parte integrante della maggioranza anti-islamista che ha appoggiato il colpo di stato popolare che ha deposto il presidente Morsi. Ricordiamo che si tratta di una minoranza molto importante, circa 10 milioni di persone, che per l’Egitto rappresenta anche la garanzia di molte manifestazioni di solidarietà provenienti dal mondo occidentale”.

Che differenze ci sono oggi con l’epoca del panarabismo di Nasser?

L’Egitto non è più protagonista come un tempo, anzitutto per motivi economici. Negli anni il regime ha inoltre compresso troppo le libertà della parte liberale e democratica della società civile, come si vede dalla repressione della componente laica e giovanile del movimento di piazza Tahrir, di fatto trattata dopo il colpo di stato alla stregua dei ribelli islamisti. Ci sono poi anche le ragioni ideologiche: oggi il panarabismo, che dall’Egitto influenzò profondamente anche altri Paesi come la Siria e l’Iraq, non ha più la stessa presa. Ora, mentre il nazionalismo era in qualche modo intrinseco alla cultura europea, mancano oggi linee di pensiero e movimenti assimilabili o vicini alle categorie politiche occidentali. Dal 1967, anno della guerra dei sei giorni, è andato invece sempre più crescendo il peso della componente religiosa: l’unico elemento simbolico rimasto a disposizione sembra essere rimasto il ritorno all’Islam, anche come spazio politico. Si tratta di una tendenza diffusa anche in altri Paesi, come ad esempio l’Algeria; l’unica a differenziarsi in questo senso è la Tunisia, dove negli ultimi anni sembra essere in qualche modo partito, pur con limiti e contraddizioni, un processo di transizione democratica”.

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