SOCIETÀ

L’Italia in rete, connettività e digitalizzazione nel nostro paese

Eravamo tra i primi al mondo. Dopo gli Stati Uniti, Germania, Gran Bretagna e Norvegia, c’eravamo noi. L’Italia è entrata in rete prima di quasi tutti i suoi vicini europei. Era il 30 aprile 1986, e il primo collegamento tra il CNR di Pisa e la Pennsylvania, negli Stati Uniti, ci ha trasportato dentro a quella rete che poi, qualche anno dopo, ha consentito la nascita e lo sviluppo di Internet. Il segnale viaggia attraverso un cavo Sip fino all’Italcable di Frascati, da cui partivano le chiamate internazionali, e poi arriva a Fucino, in Abruzzo, da dove viene mandato in orbita verso il satellite Intelsat IV che lo spedisce negli Stati Uniti. Qualche secondo dopo, arriva la risposta: eravamo connessi a quella che sarebbe, anni dopo, diventata la rete Internet.

«La più grande invenzione del ‘900» come dice Rita Levi Montalcini, nella chiusura della prima puntata della webserie «World Wide Web» da un paio di giorni disponibile sul sito Rai Play, la piattaforma digitale della RAI. Una webserie che racconta in modo accessibile e soprattutto curioso la storia del Web e che vi consigliamo di seguire.

Oggi ci sembra impossibile che solo poco più di 30 anni fa potessimo lavorare, fare ricerca, interagire con aziende e amministrazioni, studiare, rimanere in contatto con gli amici e divertirci senza avere la rete Internet

Anche perché oggi ci sembra impossibile che solo poco più di 30 anni fa potessimo lavorare, fare ricerca, interagire con aziende e amministrazioni, studiare, rimanere in contatto con gli amici e divertirci senza avere la rete Internet. Per molti di noi, quella era la realtà quotidiana. Ma la necessità di fare rete era assai urgente in un mondo che stava comunque assumendo sempre più la dimensione contemporanea, globale, dove viaggiare, studiare all’estero, collaborare con colleghi in università distanti, visitare paesi lontani non era più appannaggio solo di pochi gruppi sociali ma diventava sempre più accessibile a tanti. Il programma Erasmus, per dirne una, nasce nel 1987. I primi voli low cost in Europa li ha introdotti Ryan Air nel 1991. Ingredienti di un mondo che andava connettendosi, appunto, sempre più. Evidente era anche il fatto che la connessione virtuale, la possibilità di scambiarsi file digitali, non poteva rimanere appannaggio dei pochi che ne facevano uso fin dalla fine degli anni ‘60, nelle Università americane appunto, o nel Dipartimento della difesa statunitense.

Come molte altre invenzioni cruciali, infatti, anche la rete nasce in ambito militare, su spinta di uno dei grandi protagonisti e vincitori della II guerra mondiale, il generale Dwight David Eisenhower, ben più noto per aver guidato le truppe alleate prima nell’area Mediterranea e poi nello sbarco in Normandia e aver dunque determinato l’esito del conflitto bellico. Da Presidente degli Stati Uniti, nel 1957, lo stesso anno in cui l’Unione Sovietica manda nello spazio la prima navicella, lo Sputnik, lasciando l’intera nazione americana con il naso per aria, Eisenhower dà il via al progetto Arpa - Advanced Research Project Agency, poi ribattezzato DARPA, con l’aggiunta della D di Defense. In prima battuta,  ARPA era essenziale a far comunicare tra loro ricercatori e scienziati che stavano, appunto, prendendo parte con un certo affanno alla corsa allo spazio contro i sovietici ed erano determinati a portare gli Stati Uniti in orbita.

Ma su questo torniamo tra poco.

Facciamo invece per un momento un salto avanti, e arriviamo ai nostri giorni. Che ne è stato di quel primato italiano? Di quella conquista così importante?

Nelle scorse settimane è stato pubblicato il rapporto 2020 dell’indice DESI, il Digital Economy and Society Index messo a punto dall’Unione Europea per tenere traccia dell’avanzamento degli obiettivi della strategia digitale, di cui abbiamo già parlato nella puntata precedente di questa serie, Broadband e ultralarga: un’Europa sempre più connessa - con un punto anche sulle tecnologie disponibili, sulle definizioni e i diversi tipi di connessione in fibra. E noi siamo finiti in fondo alla classifica: davanti a noi ci sono quasi tutti i paesi che in quel lontano 1986 erano ben lontani perfino dall’immaginarsi di entrare in rete.

L’indice DESI è un indice composito, che misura la digitalizzazione della società europea attraverso diversi indicatori. Sul sito relativo è possibile anche giocare con gli indicatori stessi, attribuendo loro pesi diversi a seconda delle caratteristiche cui si vuole dare maggiore risalto nell’osservazione.

Ciascun indicatore prende in considerazione, a sua volta, la combinazione calibrata di diversi fattori. Il primo indicatore, la connettività, si misura stimando sia la diffusione della banda larga in rete fissa, mobile e relativi costi; il capitale umano, secondo indicatore, prende in considerazione sia la dimestichezza degli utenti che la competenze più avanzate come quelle impiegate nello sviluppo; il terzo, l’uso di servizi Internet, combina l’uso di base di Internet con diverse attività svolte online e con le transazioni commerciali online; il quarto indicatore, sull’integrazione dell’economia digitale, si focalizza su business e e-commerce; infine, l’ultimo, che si concentra sui servizi pubblici digitali, misura il livello di e-governance.

Per fare un singolo esempio, abbiamo qui di seguito un grafico in cui facciamo il confronto tra il nostro paese, la media europea e le specifiche performance degli altri paesi europei che sono entrati in rete prima di noi. Mentre è ancora possibile vedere i dati relativi alla Gran Bretagna, che è ufficialmente uscita solo a marzo scorso, non sono invece disponibili i dati della Norvegia.

Indipendentemente però dal peso attribuito ai diversi indicatori, l’Italia risulta comunque nelle ultime posizioni, tranne che per la connettività, che è superiore alla media europea grazie anche all’ampia diffusione di una rete mobile veloce, che offre in gran parte del territorio il 4G. L’Italia tra l’altro è tra i paesi in pole position per l’integrazione del 5G. Ma il dato che probabilmente dovrebbe preoccupare di più è quello sul capitale umano. Perché tecnologia a parte, se non c’è cultura digitale, se l’integrazione del digitale nelle diverse attività è scarsa, non c’è rete ad alta velocità che tenga.  

La strategia Italia Digitale

Cinque anni fa, il 3 marzo 2015, il Governo, allora guidato da Matteo Renzi, ha approvato la Strategia italiana per la Banda Ultralarga. Il piano aveva come obiettivo quello di sviluppare una rete in banda ultralarga sull’intero territorio nazionale, in linea con gli obiettivi dell’Agenda digitale europea. Il documento completo della strategia italiana per la banda ultralarga è disponibile anche come .pdf direttamente qui. Obiettivo centrale della strategia è portare tutti i cittadini italiani a una velocità di connessione di almeno 30 Mbps entro la fine del 2020, e l’85% della popolazione a 100 Mbps. Le risorse messe in campo, finora, sono tra i 4 e i 5 miliardi di euro.

Perché questa ossessione con la fibra? Perché i servizi che usiamo oggi necessitano di velocità, soprattutto in download (scaricamento dati) per fare praticamente quasi tutto: dal guardare un video, ormai in full HD e già, da qualche parte in 4k, con dimensioni notevoli, dall’ascoltare musica, podcast, lavorare su diversi materiali multimediali, scaricare e analizzare dati, e via dicendo. E la fibra è molto più veloce dell’ADSL: può arrivare al famoso 1 Gbps, mentre l’ADSL difficilmente supera i 24 Mbps. Ai 100 Mbps (anche ai 300 Mbps nei casi migliori) si può arrivare anche con tecnologie miste: la fibra fino alle centraline esistenti e il cavo in rame per l’ultimo tratto (FTTC/FTTP). Ma qui, poi, la reale velocità dipende da molti fattori, incluso lo stato di salute, per così dire, dei cavi in rame, dei doppini, delle centraline stesse, spesso vecchie e non più adeguate, sovraccariche e non mantenute in modo impeccabile, soprattutto in zone più isolate. E, infine, dipende da quanti operatori utilizzano quei cavi, perché dove c’è un eccesso di congestionamento c’è anche una riduzione notevole delle prestazioni.

Per raggiungere questi obiettivi, il Governo ha demandato al Ministero dello Sviluppo Economico, il Mise, l’attuazione concreta di tutte le misure necessarie, attraverso la società controllata in house Infratel. L’idea di fondo della strategia è quella di intervenire con fondi pubblici e con la creazione di condizioni adeguate per uno sviluppo omogeneo della connettività su tutto il territorio nazionale, integrando le iniziative precedenti messe in campo da operatori privati e riordinando anche il settore, laddove ad esempio reti precedentemente posate non garantiscano più la qualità necessaria. Il Piano integra dunque una strategia precedentemente approvata perché da una ricerca effettuata sul territorio italiano il Mise ha rilevato che «gli investimenti previsti degli operatori privati si sono mostrati largamente insufficienti in quanto limitati alle sole aree a maggior densità abitativa e all’utilizzo di reti con architetture FTTC (quelle che portano la fibra solo al cabinet, alla famosa centralina, e quindi non direttamente in casa o ufficio, come invece sarebbe previsto dalla strategia attuale, ndr), incapaci di garantire allo stato attuale velocità stabilmente e prevedibilmente superiori a 100 Mbps, evidenziando una limitata propensione ad investire soprattutto nelle reti ultraveloci ad oltre 100 Mbps.»

Con una considerazione che ci pare quasi dal tono quasi polemico, il documento di Strategia sottolinea anche che «Questa scarsa propensione all’investimento è ancora più rimarchevole tenendo conto del fatto che gli operatori nella quasi totalità di queste aree condividono la stessa rete secondaria in rame per fornire il servizio all’utente finale e che questa – non essendovi in Italia cable operator – è l’unica rete di accesso in cavo attualmente disponibile per le telecomunicazioni del Paese.»

Insomma, gli operatori privati non garantiscono investimenti sufficienti, nonostante di fatto condividano tutti una rete secondaria vecchia e altamente insufficiente, e quindi la situazione viene presa in mano dallo Stato. Priorità della strategia è quella di effettuare, attraverso bandi pubblici finanziati con fondi nazionali comunitari (FSC, FESR e FEASR), un intervento diretto dello Stato, garantendo la messa a punto di infrastrutture di rete ad alta velocità anche in quelle zone dove gli operatori privati hanno minore interesse a investire, per motivi economici o per semplice scelta industriale. Le prime zone che ricadono nella strategia diretta da Infratel sono dunque le cosiddette aree bianche, o aree a fallimento di mercato, sulle quali si è già arrivati a tre bandi consecutivi di interventi previsti. Una volta ultimati questi interventi, Infratel interverrà però anche nelle aree grige o nere, e cioè quelle dove già esistono reti precedentemente posate da operatori privati, per completare lo sforzo di copertura e colmare i divari di accessibilità alla rete. Oltre alle reti in fibra, la Strategia prevede anche la realizzazione di una rete wifi pubblica diffusa: su questa, e sulla situazione della connettività mobile torneremo in una prossima puntata.

Per quanto riguarda invece la rete fissa, il risultato dovrebbe dunque essere la costruzione di una rete di proprietà pubblica che sarà a disposizione di tutti gli operatori con contratti di concessioni (praticamente tutti gli operatori commerciali attivi sul territorio nazionale, a parte Tim che ha la propria rete privata Telecom). Tutti i tre bandi effettuati finora da Infratel sono stati vinti da Open Fiber, società che effettua solo la messa a punto dell’infrastruttura in fibra e poi stabilisce contratti con i singoli operatori (in modalità all’ingrosso, dunque, non al dettaglio) che a loro volta propongono a cittadini e aziende diverse formule di abbonamento e sottoscrizione. Anche sul costo della sottoscrizione il piano prevede aiuti sotto forma di voucher e incentivi.

Nel 2015, al momento in cui la Strategia è stata pubblicata, la situazione dell’Italia rispetto al resto dell’Unione Europea era la seguente:

➔      ultimi per quanto riguarda accesso a reti ultraveloci, con solo 21% delle famiglie italiane coperte contro la media europea del 62%

➔      ultimi come percentuale di famiglie che avevano sottoscritto un contratto a rete fissa in banda larga - solo la metà (il 51%) contro il 70% della media europea

➔      penultimi in termini di sottoscrizione ai servizi banda ultralarga veloce - oltre i 30Mbps - con 2,2% di sottoscrittori contro la media europea del 22%

Per rendere visibili, quasi in tempo reale, i progressi ritenuti ampiamente necessari, Infratel e il Mise hanno costruito quella che chiamiamo dashboard, una piattaforma di visualizzazione web che permette di verificare lo stato della connettività al proprio indirizzo, e in generale di avere dati sull’avanzamento dei lavori.

Potete dunque accedere alla mappa interattiva e verificare quale sia la situazione non solo nel vostro comune, ma proprio a casa vostra, qui:

Non solo è possibile verificare un indirizzo puntuale, ma anche avere una visualizzazione completa per regione e per comune dello stato dei lavori. Dato che sul sito Banda ultralarga sono visibili al momento solo i cantieri in corso per le aree bianche, però,  per avere informazioni più precise sulla disponibilità complessiva dell’offerta al vostro numero civico, potete consultare la mappa interattiva che si trova sul sito dell’Autorità garante per le comunicazioni, l’AgCom, che consente di sapere se ci sono anche reti preesistenti e di che tipo, Adsl veloce o Fibra (e in questo caso, se FTTH, fino a casa/ufficio, o FTTC/FTTP, fibra alla centralina, con poi collegamento per ultimo pezzetto con cavo in rame).

Mappa dopo mappa. Dal 24 giugno Infratel ha aperto una piattaforma che dovrebbe consentire una mappatura ancora più precisa e aggiornata delle installazioni di rete ad alta capacità, con raccolta dei dati da parte dei diversi operatori. La raccolta dati dovrebbe concludersi il 31 luglio. Al tempo stesso, il Mise ha dato il via alla costruzione di uno strumento che gli addetti ai lavori ritengono essenziale da anni: il Sistema informativo nazionale federato delle infrastrutture, o più comunemente chiamato catasto delle infrastrutture. Si tratta di un database e di una mappatura precisa di tutte le infrastrutture esistenti nel sottosuolo: reti idriche, elettriche, gas, telecomunicazioni, etc. Insomma, tutti i tubi, cavi, condotti che si snodano sotto le città e l’intero territorio italiano. Uno strumento essenziale, se ci si pensa, per risparmiare interventi inutili, per concordare ad esempio manutenzioni e altre operazioni con risparmio di soldi, di tempo e anche di fastidio per i cittadini, dato che i cantieri aperti sono sempre problematici.

Insomma, negli ultimi anni qualcosa si muove, gli appalti sono partiti, la strategia sembra essere più integrata e, complice senz’altro anche la spinta dell’Unione Europea, pare che una direzione ci sia. Come sta andando? Una prima valutazione la troviamo in un documento dal titolo “Le reti e la banda ultralarga” presentato alla Camera dei Deputati l’11 giugno scorso. Ricapitolando i vari passaggi, il documento specifica in modo chiaro la suddivisione del paese in quattro aree diverse:

  • cluster A - aree redditizie: sono le 15 città più nere, e cioè quelle più popolose e industriali, dove vivono poco meno di 10 milioni di abitanti. Si tratta anche delle zone dove sono già presenti reti, stese negli anni passati anche da parte degli operatori privati (Fastweb, ad esempio, ha cablato in fibra molte zone del Nord Italia già a fine anni ‘90, prima di stipulare accordi direttamente con Open Fiber di cui ora è partner commerciale). Queste sono le zone che hanno la maggiore probabilità di arrivare all’obiettivo di tutti a 100 Mbps entro la fine dell’anno.
  • cluster B - sono le zone, al contrario, dove non è previsto un investimento a 100 Mbps. Qui gli operatori privati intervengono con piani che portano connessioni a 30 Mbps, ma senza interventi pubblici le condizioni di mercato non sono sufficienti a garantire i ritorni minimi necessari agli operatori che investono per una connessione a 100Mbps. Si tratta di 1120 comuni che ospitano quasi la metà della popolazione italiana (poco più di 28 milioni di persone).
  • cluster C - aree marginali. Si tratta di zone dove gli operatori commerciali sono disposti a intervenire solo con sostegno statale per offrire le reti a 100 Mbps. Includono circa 2650 comuni e alcune zone rurali in cui vivono poco più di 15 milioni di persone, un quarto della popolazione italiana.
  • cluster D - le cosiddette aree bianche, quella a fallimento di mercato, dove c’è scarsa densità abitativa e dove dunque solo un intervento pubblico può colmare il gap. È una fetta importante di Italia, perché include 4.300 comuni circa, soprattutto al Sud, e alcune aree rurali, nelle quali vive circa il 15% rimanente della popolazione.

 

Una fotografia dello stato dell’arte la possiamo trovare anche nel rapporto dell’Osservatorio sulle comunicazioni di Agcom pubblicato a fine 2019:

  • le linee con velocità inferiore ai 10 Mbps sono meno del 21% delle linee broadband e ultrabroadband - erano il 70% a inizio 2015
  • il peso delle tradizionali linee in rame per la prima volta scende sotto il 50% degli accessi complessivi
  • le linee con velocità pari o maggiore di 30 Mbps sono ora più del 53% - erano poco più del 5% nel 2015

In termini di accessi:

  • complessivamente circa 17 milioni a reti broadband (tra 10 e 30 Mbps) e ultrabroadband (sopra i 30 Mbps), con diverse tecnologie
  • più di 6,5 milioni di accessi a reti a 100 Mbps con una crescita molto spinta nell’ultimo anno (+ 1,8 milioni)
  • oltre 2,7 milioni di accessi a linee con velocità compresa tra 30 fino a 100 Mbps (+340mila)

Come siamo entrati in rete

Come dicevamo in apertura, la rete ARPAnet, voluta inizialmente dal presidente Eisenhower, era nata ufficialmente il 29 ottobre 1969, quando il primo segnale (la parola LOGIN) fece un percorso tutto californiano, tra l’Università di Los Angeles, la UCLA, e lo Stanford Research Institute, tra il sud e il nord dello stato americano.

Nell’arco di pochi anni, nasce ARPAnet che connette 16 università americane. La chiave per il trasferimento dei dati diventa chiara nel giro di breve: è lo spacchettamento dei dati in unità digitali tutte della stessa dimensione, che possono viaggiare anche indipendentemente lungo la rete e essere riassemblati, all’arrivo, grazie a codici precisi di identificazione di ciascun pacchetto e a istruzioni per riassemblare il tutto. Lo spacchettamento ha consentito di trasferire dati anche consistenti in modo flessibile e sicuro lungo le reti evitando accumuli, ritardi, congestionamenti.

Nei primi anni infuriano diverse discussioni nella comunità di quelli che avevano iniziato a lavorare in rete sui protocolli da utilizzare e sui sistemi più efficaci per connettersi. Dopo ARPAnet, c’è un proliferare di altre reti: Alohanet, Satnet e così via. Tutte scritte con protocolli diversi per cui non riescono a parlare tra di loro. Finalmente, nel 1973 due ingegneri, Vinton Cerf e Bob Kahn, scrivono il protocollo TCP/IP che risolve il problema, e consente a tutte le reti di collegarsi. Nel corso di poco, TCP/IP diventa lo standard della rete e Internet la rete delle reti, come la conosciamo adesso.

Nei primi dieci anni, vengono messi a punto anche molti dei protocolli che sono alla base delle funzioni che ormai diamo per scontate dello stare in rete: il protocollo Telnet, per collegarsi ai server, il sistema di trasferimento di file FTP, l’NCP o protocollo di controllo del network. Nel ‘71 nasce il primo programma e-mail, subito dopo le LISTSERVs, la prime mailing lists, che hanno consentito il fiorire di gruppi di discussione virtuale. Non è forse casuale, visto l’ambiente nel quale tutto questo veniva sviluppato, che una delle prime mailing list fosse quella degli amanti della fantascienza, SF-LOVERS. Alcuni dei post dei primi anni ‘80 sono archiviati e ancora leggibili attraverso un archivio curato da Google groups.  

The way most people keep up to date on network news is through subscription to a number of mail reflectors (also known as mail exploders). Mail reflectors are special electronic mailboxes which, when they receive a message, resend it to a list of other mailboxes. This in effect creates a discussion group on a particular topic.

- E. Krol; The Hitchhikers Guide to the Internet

La descrizione di tutte le risorse disponibili in quel fantastico nuovo mondo che era Internet, prima che diventasse noto al mondo intero, si trova nella Guida per autostoppisti all’Internet, scritta da Ed Krol nel 1987, al tempo in cui lavorava per la NSFnet, la rete della National Science Foundation, che prenderà il posto di ARPAnet, e chiaramente ispirata alla più famosa Guida galattica per autostoppisti, di Douglas Adams, pubblicata nel 1979.

Ma torniamo in Italia

Pisa è stata la nostra California. È dal CNR di Pisa che parte il primo segnale di collegamento in rete. Un segnale che viaggia prima via cavo, dalla Toscana all’Abruzzo, e poi via Satellite per arrivare, forte e chiaro, a Roaring Creek in Pennsylvania, sulla costa est degli Stati Uniti. Alla velocità di pochi kb al sec, s’intende. Lontana anni luce, o milioni di bit, da quelle cui ambiamo oggi.

 È il 30 aprile 1986 quando Antonio Blasco Bonito, che assieme ai colleghi Nedo Celandroni ed Erina Ferro lavora nel gruppo di ricerca di CNR diretto da Luciano Lenzini, lancia il segnale che porta l’Italia dentro ad ARPAnet. E la storia ha molto a che fare con Luciano Lenzini e la sua capacità di stare in rete, quella umana stavolta, con i colleghi americani.

Come racconta in questo efficace e commovente video, LOGIN_Il giorno in cui l’Italia scoprì Internet, scritto da Riccardo Luna e diretto da Alice Tomassini, Lenzini era sbarcato a Cambridge, Massachusetts, per studiare come gli americani stavano sviluppando il settore delle telecomunicazioni.

LOGIN_Il giorno in cui l'Italia scoprì Internet (versione da 20 minuti) from riccardo luna on Vimeo.

A Cambridge, Lenzini trovato un mondo completamente diverso da quello pisano. I ricercatori americani lavoravano su un progetto molto emancipato ma erano anche fortemente inseriti nel contesto culturale e politico dell’epoca. In Università c’erano le manifestazioni contro la guerra del Vietnam e si ascoltava la musica pop. C’era una grande spinta a comunicare, a connettersi con gli altri giovani. E forse la spinta alla costruzione dei vari strumenti digitali viene anche da lì.

 E così, una volta rientrato in Italia, Lenzini prova a realizzare un sogno e d’accordo con Stefano Trumpy, il direttore del suo istituto, il Cnuce di Pisa, scrive a Bob Kahn, che lavora in DARPA proponendo di connettere l’Italia ad ARPAnet. Kahn arriva in Italia, si accorda con i ricercatori del CNUCE per la configurazione tecnica necessaria. Seguono cinque anni ed enormi investimenti di energia e risorse e però, proprio quasi al momento di fare la prova vera e propria, arriva dagli Stati Uniti la richiesta di modificare il gateway, l’apparecchiatura, una sorta di router, che avrebbe dovuto consentire la connessione vera e propria.

A quel punto Luciano Lenzini sale in aereo e va a Washington dove spiega che l’Italia non può sostenere un investimento di quel tipo. Che purtroppo deve rinunciare all’impresa. Ma Kahn è determinato, e così il butterfly gateway, quello richiesto, arriva a Pisa direttamente dagli Stati Uniti, omaggio del Dipartimento della difesa. E l’Italia risponde mandando il suo primo segnale in rete.

«La vera impresa è stata culturale, non tecnologica» sostiene Luciano Lenzini nel video. «La rivoluzione è stata quella di far parte della rete globale.» Uno sforzo che l’Italia deve ora compiere, nuovamente, per realizzare appieno i diritti di cittadinanza digitale per tutti.

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