SCIENZA E RICERCA
Malattia di Huntington, stop ai trial clinici su tre farmaci. La strada verso una terapia è ancora in salita
La strada verso un farmaco in grado di contrastare la progressione della malattia di Huntington è purtroppo ancora tutta in salita. La recente interruzione delle sperimentazioni cliniche di tre trattamenti, uno sviluppato da Roche e due da Wave Life Sciences, ha inferto un duro colpo alle speranze della comunità dei pazienti affetti da questa patologia neurodegenerativa ereditaria i cui sintomi, nell’arco degli anni, si manifestano sia sulla sfera motoria su quella cognitiva e psichiatrica.
La malattia di Huntington, che prende il nome dal medico statunitense che per primo l’ha descritta in modo completo nel 1872, è una patologia rara, ma più diffusa di quanto si immagini, che ha origine dalla mutazione di un gene che codifica una proteina nota come “huntingtina” e attiva nel cervello. Nelle persone colpite da questa malattia questo gene ripete un breve pezzo della sua sequenza - la tripletta di nucleotidi CAG (citosina, adenina e guanina) - troppe volte, innescando un meccanismo, scoperto nel 1993, che porta alla produzione della proteina huntingtina in forma mutata.
L'obiettivo dei farmaci in sperimentazione era proprio quello di agire sulla versione mutata della proteina huntingtina per cercare di rallentare l'evoluzione della patologia. Il primo stop è arrivato a metà marzo ed è stato annunciato da Roche che stava conducendo uno studio di fase III sul farmaco tominersen, l’oligonucleotide antisenso (ASO) al centro di un trial clinico che coinvolgeva quasi 800 pazienti di una ventina di Paesi in tutto il mondo. L'elevato numero di partecipanti e l'ottimismo indotto dai risultati delle fasi precedenti avevano contribuito a riporre molte aspettative su questo medicinale ma, dopo una revisione pianificata dei dati all'inizio di quest'anno, un comitato indipendente di esperti ha raccomandato la conclusione anticipata della sperimentazione, concludendo che i potenziali benefici del farmaco non superavano i suoi rischi.
Circa una settimana dopo anche l'azienda statunitense Wave Life Sciences ha fatto sapere che avrebbe interrotto le sperimentazioni cliniche, arrivate alla fase I / II, su due diversi ASO. A differenza di tominersen, che ha abbassato i livelli della proteina mutante ma non è riuscito a rallentare la progressione della malattia, nel caso dei due composti di Wave Life Sciences il problema sembra risiedere nel fatto che, nel confronto con il placebo, non sono riusciti a ridurre significativamente i livelli di huntingtina mutante.
Nei pazienti colpiti dalla malattia di Huntington la presenza anomala di questa proteina nella forma mutata determina lo sviluppo progressivo di sintomi che hanno un impatto drammatico sulla vita del paziente e sulle loro famiglie. La malattia produce infatti problemi motori, caratterizzati da un insieme di movimenti involontari e bruschi a cui si fa riferimento anche con il nome di còrea. A questa condizione, che nella fase avanzata può portare a frequenti cadute, rende difficoltosa la nutrizione e, nella fase avanzata, comporta la perdita dell'autonomia, si accompagnano anche alterazioni del comportamento e sintomi psichiatrici. Sebbene possa esordire anche in età giovanile la malattia di Huntingon tende a manifestarsi dopo i 30-35 anni e ogni figlio di un genitore portatore del gene mutato ha il 50% di possibilità di ereditarlo. In Italia si stima che le persone malate siano circa 6.500 ma “trattandosi di una malattia genetica dominante, le persone a rischio di ereditare la mutazione salgono a 30.000-40.000”, precisa il professor Ferdinando Squitieri, responsabile dell'unità di ricerca Huntington all'istituto CSS-Mendel di Roma e direttore scientifico della Fondazione Lega italiana ricerca Huntington (LIRH).
Ci siamo rivolti a lui per un approfondimento su questa patologia, per comprendere meglio il meccanismo genetico che ne è alla base e soprattutto per fare il punto della situazione sulla ricerca scientifica, sui farmaci esistenti e su quelli in fase di sperimentazione (che, a differenza di quelli finora disponibili puntano non solo ad attenuare l'impatto dei sintomi, ma anche a impedire o almeno a rallentare la progressione della malattia).
Ci sono infatti altri medicinali da cui nei prossimi mesi potrebbero arrivare risultati migliori: tra questi WVE-003, un terzo ASO sviluppato da Wave Life Sciences che, spiega la rivista Nature, ha modificazioni chimiche che migliorano la potenza del farmaco e la capacità di raggiungere i suoi obiettivi e che sarà testato in uno studio di Fase Ib/IIa. Un'altra buona notizia è la comunicazione da parte di uniQure di uno studio clinico con AMT-130 in Europa entro la fine dell'anno e che si accompagna a quello attualmente in corso negli Stati Uniti sul quale si è in attesa della valutazione dei dati da parte del Data Safety Monitoring Board.
L'intervista completa al professor Ferdinando Squitieri, responsabile unità Huntington CSS e direttore scientifico LIRH. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
"Nella malattia di Huntingon è come se, in uno stesso individuo, si mettessero insieme la sclerosi laterale amiotrofica, la malattia di Parkinson e quella di Alzheimer", introduce il professor Ferdinando Squitieri, responsabile dell'unità di ricerca Huntington all'istituto CSS-Mendel di Roma e direttore scientifico della Lirh.
La caratteristica di quella patologia è quella di "associare un disturbo del comportamento imprevedibile e molto variabile, una condizione di declino delle funzioni cognitive e poi quel movimento involontario che da sempre la contraddistingue e che viene definito tecnicamente còrea, termine che deriva dal greco e che significa danza. Le posture e i movimenti di chi è colpito da questa malattia non sono solo un limite per l’autonomia delle persone ma anche un elemento che richiama attenzioni sgradite", spiega il professor Squitieri aggiungendo che "è corretto partire dalla base anche perché intorno a questa malattia ruota un’antica storia di tragedia, sofferenza e stigma che tendono a caratterizzarla in misura superiore rispetto a molte altre patologie simili".
Le origini genetiche di questa patologia determinano inoltre pesanti "ricadute all’interno della famiglia anche in termini di notevole stress per chi sa di avere un rischio". Si tratta infatti di una malattia dominante: ogni figlio ha una possibilità su due di ereditare la mutazione ed è autosomica in quanto colpisce sia gli uomini che le donne in ugual misura.
"Questa mutazione - approfondisce il professor Squitieri - è nota ed è l’eccessivo prolungamento di un tratto all’interno di un gene conosciuto: si tratta di un trinucleotide, tre molecole del DNA che sono citosina, adenina e guanina, che, nelle persone che poi si ammaleranno, si ripete oltre 36 volte. Ognuno di noi ha il gene dell’huntingtina, che è la proteina responsabile di tutto questo, ma nelle persone che non presentano la malattia il numero di queste CAG corrisponde a quello compatibile con una normale qualità della vita".
In un individuo non colpito dalla patologia la tripletta CAG non supera le 35 ripetizioni. Al di sopra di questo numero il rischio di sviluppare la malattia aumenta in modo progressivo e quando l'espansione delle triplette è molto elevata i sintomi possono esordire anche in età giovanile o addirittura pediatrica.
L'interruzione delle sperimentazioni cliniche su tre farmaci
Davanti a una malattia contraddistinta da "un’evoluzione su cui purtroppo non riusciamo ancora ad incidere in modo convincente" lo sviluppo di un farmaco in grado di rallentarne la progressione sarebbe un punto di svolta. L'interruzione della somministrazione del farmaco sperimentale tominersen, sviluppato da Roche, nell’ambito dello studio di fase III Generation HD1 e la decisione di Wave Life Sciences di concludere gli studi Precision HD1 e Precision HD2 a causa dell'insuccesso dei due farmaci hanno deluso le speranze.
"A mio avviso - commenta il professor Ferdinando Squitieri - le aspettative erano eccessive e ritengo che questa sia una responsabilità di chi le ha trasmesse. Per quanto riguarda in particolare la sperimentazione di Roche, che è stata la prima ad iniziare, dal mio punto di vista la comunicazione è stata un po’ imprudente. E’ vero che per la prima volta si era dimostrato che un farmaco potesse interferire con l’RNA messaggero, il mediatore che facilita la formazione di una proteina dal gene, per ridurre i livelli di proteina. Purtroppo però la riduzione riguarda sia la proteina mutata che ha assunto delle funzioni tossiche, sia quella normale che viene ereditata dal genitore sano e che coesiste nello stesso individuo con quella mutata. Il farmaco sviluppato da Roche le abbassa entrambe e questa prerogativa non poteva essere trascurata. Allo stato attuale dei fatti sappiamo però ancora troppo poco i dati sono ancora in fase di valutazione. E’ possibile che l’huntingtina mutata non si sia abbassata abbastanza, oppure che si sia abbassata, come tutti pensano, ma non nei posti giusti del cervello, o che la diminuzione di quella sana abbia comportato dei problemi. Il nodo centrale è che i pazienti non hanno visto migliorare la loro condizione e soprattutto, quelli che avevano assunto la dose maggiore, sembrano essere peggiorati".
"L’altra terapia sperimentale, quella sviluppata da Wave, ha avuto una sorte totalmente diversa. In quel caso - continua responsabile dell'unità di ricerca Huntington all'istituto CSS-Mendel di Roma e direttore scientifico della LIRH - il farmaco non è riuscito ad abbassare i livelli di huntingtina selettivamente. La funzione di quella terapia era infatti ridurre solo la presenza della proteina mutata e sembrerebbe non aver ottenuto il risultato atteso. La stessa industria adesso ha l’obiettivo di avviare uno studio, anche in Italia, per valutare la capacità di riduzione dei livelli di huntingtina mutata attraverso una terza molecola che ha messo a punto. Aspettiamo che questo accada per capire se è possibile riaprire una strada in questa direzione".
Altre terapie in sperimentazione
Il professor Squitieri sottolinea però che ci sono anche altre frontiere promettenti, attualmente in corso di sperimentazione. "A mio avviso - approfondisce l'esperto - una delle possibilità più interessanti, e si tende a trascurarla perché sembra troppo semplice, rientra in uno studio di fase III attualmente in corso in Italia. Si tratta di un farmaco assunto per via orale che si chiama pridopidina e noi stiamo partecipando a questo studio come coordinatori per la parte italiana".
Il principale risultato atteso - si legge sul sito della LIRH - è un miglioramento significativo delle autonomie dei pazienti, misurate attraverso la scala di valutazione TFC (Total Functional Capacity) e quindi della loro possibilità di condurre le normali attività quotidiane. "La grande novità degli ultimi anni è che qualsiasi industria farmaceutica e qualsiasi autorità regolatoria volesse arrivare allo sviluppo e all'approvazione di una terapia deve farlo intervistando i pazienti e cercando di capire come interpretare al meglio il miglioramento della qualità della vita e le possibilità di autonomia delle persone", conferma al riguardo il professor Squitieri.
"Una volta - aggiunge - la malattia era caratterizzata da luoghi comuni e si elencava l’insieme delle caratteristiche psichiatriche, cognitive e motorie, accompagnandole dall’affermazione che fosse impossibile curare queste manifestazioni. Questo in parte rimane vero. Ma oggi sappiamo che alcuni sintomi, soprattutto quelli psichiatrici e comportamentali, possono essere controllati in modo appropriato da farmaci in uso e che la terapia dovrebbe essere sempre personalizzata anche per evitare effetti collaterali che a volte possono essere disastrosi".
Le frontiere dell'mRNA nell'ambito delle malattie rare
La pandemia da Covid-19 ha portato al centro dell'attenzione la tecnologia basata sull'RNA messaggero che è stata utilizzata per i vaccini più innovativi e che ha nella versatilità uno dei suoi punti di forza. Un recente articolo di Nature spiega che il prossimo obiettivo è quello di applicare la terapia con RNA messaggero non solo alle infezioni virali ma anche alle patologie oncologiche, a quelle autoimmuni e alle malattie rare. In particolare una sequenza di mRNA potrebbe essere usata per dare le giuste "istruzioni" all'organismo e indurlo, per esempio, a produrre una proteina vitale mancante o difettosa, correggendo così i meccanismi indotti da geni difettosi.
Il professor Squitieri concorda sul fatto che le frontiere aperte da questa tecnologia sono molto interessanti ma sottolinea la specificità di una malattia come quella di Huntington che coinvolge un organo particolarmente complesso come il cervello umano. "Oggi si parla tanto di mRNA perché si fa riferimento ai vaccini. Questi ultimi però - precisa il direttore scientifico della LIRH - hanno una struttura farmacologica completamente diversa rispetto a quella utilizzata per le malattie rare: un vaccino è infatti qualcosa che viene somministrato per sollecitare una risposta immunitaria. A ciò si aggiunge il fatto che in una malattia come quella di Huntington l’organo interessato è assai più complesso perché si tratta del cervello ed è l’organo più intimo che abbiamo. Inoltre l’evoluzione della malattia si protrae per tantissimi anni quindi dobbiamo immaginare uno scenario dove la terapia con mRNA venga eseguita per molto tempo, con potenziali effetti collaterali che possiamo non prevedere subito".
"Personalmente - afferma Squitieri - sono molto entusiasta per quello che sta emergendo dalla ricerca mondiale in questo ambito: c’è una terapia genica attualmente in corso, in fase preliminare e che si sta estendendo in Europa, basata sull’uso di un adenovirus che viene somministrato direttamente nel cervello dei pazienti nel tentativo di interferire, con questo meccanismo, nell’area cerebrale interessata. E c’è poi un’altra terapia sperimentale che coinvolgerà anche l’Italia e che ha l’obiettivo di interferire con l’RNA per via orale, quindi non attraverso un’infusione diretta nel sistema nervoso centrale come si è fatto finora. Le aspettative sono tante e le prerogative sono interessanti: tutto è molto appealing dal punto di vista tecnologico ma dobbiamo sempre ricordare che stiamo parlando dell’organo più complesso che abbiamo".
La necessità di un maggiore sostegno ai pazienti e alle famiglie
E se il percorso verso una terapia che dimostri di poter rallentare l'evoluzione della malattia non è ancora stato completato, altrettanto si può purtroppo dire in materia di maggiore sensibilizzazione sociale e sostegno ai pazienti e alle loro famiglie.
Da questo punto di vista maggio è il mese della consapevolezza sulla malattia di Huntington perché, come si legge sul sito della Fondazione LIRH "chi ne soffre o è a rischio di ammalarsi si sente ancora troppo solo, schiacciato dal peso fisico, mentale, sociale ed economico di questa malattia così difficile, che rappresenta ancora un tabù".
"Le famiglie - afferma il professor Squitieri - non ricevono ancora la giusta attenzione da parte delle istituzioni e per questo motivo la Lirh porta avanti in tutta Italia iniziative di sensibilizzazione rispetto alle esigenze delle persone malate. Le famiglie spendono troppi soldi, non vengono aiutate a sufficienza e spesso mancano dei posti dove appoggiare i propri cari nella fase avanzata della patologia. Inoltre c'è ancora una scarsa cultura anche dal punto di vista medico intorno a questa malattia".
Molti dei i bisogni dei pazienti e di chi presta loro assistenza restano infatti insoddisfatti. Non si parla solo dell'ambito clinico, pur prioritario, ma anche di tutto quello che ruota intorno alla quotidianità, al desiderio di inclusione sociale e lavorativa o alla decisione di diventare genitori (visto che il diritto alla fecondazione assistita e alla diagnosi genetica preimpianto in Italia ha avuto una storia travagliata e nei fatti non è ancora facilmente accessibile).
Per far emergere queste esigenze nei giorni scorsi è stato presentato il libro bianco "Huntington. Da affare di famiglia a questione pubblica". L'obiettivo del testo è richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e delle istituzioni, perché possano conoscere i bisogni della comunità Huntington e farsene carico. Alla presentazione online hanno preso parte le principali organizzazioni di pazienti tra cui Huntington onlus e Fondazione LIRH, il professor Luca Pani, ex direttore generale di Aifa, insieme al professor Squitieri e alla senatrice a vita Elena Cattaneo, da sempre impegnati da anni nella ricerca scientifica contro questa malattia.
Abbiamo lavorato insieme in questi mesi @OssMalattieRare @RocheItalia nella consapevolezza che solo una rete ampia e fitta, possa generare costruzione e diffusione di buone prassi sulla presa in carico e sostenere le famiglie di #secondonomeHuntington https://t.co/Xwkur5deih
— Huntington Onlus (@HuntingtonOnlus) May 18, 2021