SCIENZA E RICERCA
Marconi 150: tra la terra e il mare. Il brevetto 7777 e il detector magnetico
Guglielmo Marconi nel 1895. Foto: Adoc-photos / Contrasto
Era l’inverno del 1896 quando Guglielmo Marconi approdò in Inghilterra accompagnato dalla madre, Annie Jameson. Entrambi erano ben determinati a coronare i sogni imprenditoriali del giovane inventore, che alcuni mesi prima era riuscito in un’impresa straordinaria: utilizzare le onde elettromagnetiche per inviare un segnale che oltrepassasse un ostacolo fisico.
A Londra, Marconi brevettò il suo sistema di telecomunicazione a distanza, fondò la sua prima compagnia, la Wireless telegraph and signal co., con l’aiuto del cugino Henry Jameson Davis e, soprattutto, proseguì i suoi esperimenti con le onde elettromagnetiche con il sostegno del ministero delle Poste inglese, della Marina britannica e, successivamente, anche di quella italiana, interessati quanto lui agli sviluppi di quelle nuove tecnologie per le telecomunicazioni in mare.
“Marconi non possedeva una laurea; era un autodidatta che aveva studiato privatamente e aveva appreso i principi dell’elettromagnetismo in maniera intuitiva ed empirica”, racconta il professor Marco Santagiustina, docente al Dipartimento di ingegneria dell’informazione all’università di Padova. “Era interessato principalmente agli sviluppi pratici di questa tecnologia piuttosto che alle basi scientifiche che ne spiegavano il funzionamento, differenziandosi così dalla maggior parte degli altri studiosi del suo tempo. Questi ultimi erano per lo più fisici sperimentali e teorici concentrati sulla comprensione del fenomeno delle onde elettromagnetiche, più che sulle possibili applicazioni per la comunicazione punto a punto. In questo senso, possiamo considerare Marconi come il Bill Gates o lo Steve Jobs del secolo scorso”.
Perché il telegrafo senza fili potesse davvero essere utilizzato per le comunicazioni via mare, era chiaro che il segnale inviato dovesse essere in grado di superare ben più di due chilometri di distanza. Per questo motivo, Marconi lavorò per potenziare la trasmissione del segnale e migliorare la sensibilità in ricezione.
“Il limite principale del sistema costruito da Marconi nel parco di Villa Griffone, dove aveva ottenuto i suoi primi importanti risultati per lo sviluppo delle radiocomunicazioni, era dovuto alla scarsa capacità del generatore di inviare un segnale abbastanza potente”, spiega Santagiustina. “Le scariche elettriche prodotte dai due elettrodi dell’antenna – costituiti da rocchetti di Ruhmkorff – erano transitorie. La loro intensità tendeva cioè a smorzarsi nel tempo, fino ad esaurirsi del tutto. I rocchetti di Ruhmkorff erano infatti oggetti da laboratorio piccoli e rudimentali, utili per generare poche centinaia di watt, ma inadatti a produrre correnti molto elevate. Marconi decise quindi di sostituirli con dei generatori veri e propri, in grado di raggiungere qualche kilowatt di potenza, aumentando così la potenza della trasmissione”.
Tuttavia, perché le tecnologie di Marconi potessero trovare applicazione in ambito navale, non era sufficiente l’aumento della potenza; era infatti cruciare riuscire a isolare singole frequenze per la trasmissione.
“Il segnale emesso dall’antenna marconiana era composto da tantissime frequenze”, spiega Santagiustina. “Era invece fondamentale separare i diversi canali di trasmissione in modo tale che diverse navi potessero comunicare allo stesso tempo senza che i loro messaggi si sovrapponessero.
Marconi progettò perciò dei sintonizzatori composti da un insieme di elementi elettrici, come bobine e condensatori, che consentivano di filtrare il segnale generato in modo tale che venisse trasmessa solo la parte che rientrava in un ridotto spettro di frequenze. In altre parole, rese le antenne in grado di trasmettere solo con alcune precise oscillazioni”.
Con il celebre brevetto 7777 sulla sintonia dei circuiti trasmettenti e riceventi, Marconi depositò i dettagli della tecnologia in questione, che veniva utilizzata sia in trasmissione che in ricezione. L’imprenditore fece sì che ogni nave e ogni stazione ricevente potessero sintonizzarsi sulla frequenza a cui veniva trasmesso il messaggio inviato, in modo tale da captare solo quello ed evitare così le interferenze. “Si tratta del principio secondo cui funzionano le nostre radio”, sottolinea Santagiustina. “Quando ascoltiamo una stazione radio, significa che siamo sintonizzati su una determinata frequenza a cui l’emittente sta trasmettendo”.
La separazione dei canali non solo permise a più stazioni radio di comunicare contemporaneamente, ma migliorò di gran lunga anche la ricezione, rendendo le antenne molto più sensibili al solo segnale desiderato. “Per capire la portata di quest’innovazione, immaginiamo di ascoltare una persona che parla a bassa voce in un ambiente molto rumoroso, come un bar o una strada trafficata”, continua Santagiustina. “Quando invece ci troviamo in una stanza silenziosa, riusciamo a sentire il nostro interlocutore molto più facilmente. Questo è il motivo per cui il brevetto 7777 permise a Marconi di aumentare la distanza a cui era possibile inviare i segnali. Anche quelli più deboli diventarono infatti molto più intellegibili quando venne eliminato il rumore di fondo, compreso quello proveniente dall’atmosfera e generato, ad esempio, dalle scariche elettriche durante i temporali”.
Nonostante l’aumento della potenza in trasmissione, le antenne a filo usate da Marconi possedevano comunque un limite intrinseco: non permettevano di indirizzare con precisione il segnale nella direzione desiderata: questo è il motivo per cui oggi si usano altri tipi di antenne, come le parabole, che concentrano il segnale verso un unico punto. A causa della diffrazione delle onde elettromagnetiche in direzioni diverse da quelle utili, il segnale che giungeva a destinazione era debolissimo. Era necessario, quindi, sviluppare degli strumenti di ricezione estremamente sensibili.
Per capire quanto sia fondamentale la sensibilità di un ricevitore per le telecomunicazioni, Santagiustina cita come esempio il caso della sonda Voyager 1, che dal 1977 è deputata all’esplorazione del Sistema solare esterno. “Ancora oggi riceviamo i segnali inviati da questa sonda, nonostante essa trasmetta a una potenza molto bassa”, racconta il professore. “Riusciamo a mantenere il contatto perché disponiamo di ricevitori estremamente sensibili, capaci di sintonizzarsi sulla frequenza a cui trasmette il Voyager, eliminare il rumore e distinguere così il segnale inviato”.
All’inizio del Novecento, Marconi realizzò un’altra invenzione che gli permise di migliorare ulteriormente la sensibilità dei suoi ricevitori. Si trattava del detector magnetico, che sostituì il coherer (o coesore), ovvero il dispositivo composto da polveri di metalli che aveva utilizzato per la costruzione dell’antenna a monopolo nel parco di Villa Griffone.
“Il coesore era uno strumento poco sensibile che aveva bisogno di molto campo elettromagnetico per ricevere un segnale”, racconta Santagiustina. “Il detector magnetico non si basava sulla stimolazione delle polveri metalliche, bensì sull’azione di alcuni fili magnetici che passavano attraverso delle calamite e che, opportunamente mossi, riuscivano a ricevere con più sensibilità il segnale in ingresso.
Questo dispositivo brevettato da Marconi fu senza dubbio importante per ottenere quel salto di qualità di cui aveva bisogno, ma fu anche rapidamente superato dalle scoperte di altri fisici e sperimentatori di quel periodo, come Carl Ferdinand Braun (con cui Marconi avrebbe condiviso il premio Nobel per la fisica nel 1909) e John Ambrose Fleming (che l’imprenditore coinvolse nella sua impresa come consulente esterno), i quali inventarono apparati ancora più sensibili per la ricezione”.
Gli sviluppi tecnologici finora descritti permisero a Marconi di aumentare significativamente la distanza delle sue trasmissioni. Nel 1899 collegò le due sponde della Manica e agli inizi del Novecento il telegrafo senza fili divenne sempre più diffuso a bordo delle imbarcazioni. L’uso di questo dispositivo si dimostrò infatti fondamentale per il salvataggio in mare.
“Bisogna comunque considerare anche l’esistenza di alcuni fenomeni naturali che giocarono a favore di Marconi e che gli permisero di trasmettere il segnale a molti chilometri di distanza”, osserva Santagiustina. “Le onde elettromagnetiche alle frequenze che utilizzò Marconi sfruttano infatti alcune peculiari caratteristiche del mare e della ionosfera. Le onde elettromagnetiche tendono a riflettersi sulla superficie del mare, un po’ come la luce in uno specchio. L’onda riflessa rimbalza verso il cielo e lì si perderebbe completamente, se non fosse per la presenza della ionosfera. Si tratta dello strato più alto dell’atmosfera, composto da gas ionizzati che possiedono delle cariche elettriche. A seconda della frequenza e dell’oscillazione del segnale, questo può beneficiare di alcune particolari proprietà di propagazione degli strati ionizzati. Le onde, quando incontrano la ionosfera, possono venire rifratte o riflesse, riuscendo così a raggiungere l’antenna ricevente”.
L’effetto ionosferico avrebbe giocato un ruolo fondamentale anche nell’impresa più straordinaria che l'inventore si accingeva a compiere: utilizzare le onde elettromagnetiche per collegare i due lati dell’Atlantico. Nel 1905 Marconi stabilì il primo collegamento transoceanico senza fili tra le stazioni di Poldhu, in Cornovaglia, e di Terranova, in Canada. Quel traguardo – che, come vedremo, non fu affatto facile da raggiungere – avrebbe reso Marconi uno degli uomini più famosi del Novecento.
Speciale 150 anni dalla nascita di Guglielmo Marconi
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