SCIENZA E RICERCA

Marconi 150. Dal morse al suono: la nascita della radiodiffusione

Il 6 ottobre 1924, la voce della violinista Ines Viviani Donarelli annunciò la prima trasmissione radiofonica in Italia. Era nata la URI – prima antenata della RAI – a due anni di distanza dalla fondazione della BBC in Inghilterra. Guglielmo Marconi aveva contribuito attivamente alla nascita di entrambe le emittenti. Pur essendo maggiormente interessato agli usi delle onde elettromagnetiche per le comunicazioni uno-a-uno (come il telegrafo senza fili), che a quella uno-a-molti (come il broadcasting, e la radio intesa come mezzo di comunicazione di massa), non si sarebbe lasciato sfuggire l’opportunità di partecipare in prima persona a un’altra svolta epocale nella storia delle telecomunicazioni: il passaggio dalla radiotelegrafia alla radiofonia. Stavolta, però, avrebbe contribuito non come sperimentatore diretto, bensì in qualità di imprenditore.

“Negli anni Venti del Novecento, gli esprimenti condotti da Marconi con le onde corte si rivelarono vantaggiosi anche per l’implementazione del broadcasting”, spiega il professor Marco Santagiustina, docente al Dipartimento di ingegneria dell’informazione all’università di Padova. “Infatti, trasmettere a onde corte consentiva di utilizzare antenne di dimensioni più ridotte e realizzare, di conseguenza, impianti di trasmissione più facilmente gestibili, facili da installare anche sopra i tetti degli edifici”.

La sola riduzione della lunghezza d’onda, comunque, non era sufficiente di per sé a gettare le basi per la radiofonia. Era necessario ripensare l’intero sistema di trasmissione per riuscire a inviare non più solo punti e linee dell’alfabeto morse, ma anche segnali sonori, come la voce umana o la musica di un concerto, ad esempio. “I componenti base di questa innovazione tecnologia furono il diodo e il triodo”, continua Santagiustina. “Si trattava di valvole termoioniche: oggetti in grado di garantire il passaggio della corrente in un’unica direzione, da un polo negativo chiamato catodo (che veniva riscaldato per attivare il flusso), a un altro, positivo, chiamato anodo. L’effetto termoionico (ovvero la capacità di un metallo riscaldato di emettere elettroni e generare quindi un flusso di corrente) era stato già scoperto da Thomas Edison, il quale aveva osservato che un filamento incandescente all’interno di una lampadina rilasciava degli elettroni che potevano essere rilevati da un elettrodo aggiuntivo posto all’interno del bulbo. Egli, però, non aveva trovato un’applicazione pratica di questo fenomeno”.

Ci avrebbe pensato John Ambrose Fleming, collaboratore alla Marconi company, che nel 1904 sfruttò l’effetto termoionico per inventare il diodo a vuoto. Si trattava di un tubo di vetro vuoto all’interno, alle estremità del quale si trovavano due terminali polarizzati (l’anodo e il catodo, appunto). Una volta riscaldato, il diodo di Fleming consentiva perciò il passaggio della corrente in una sola direzione. “Il tubo a vuoto sostituì il coesore e, in generale, i rilevatori del segnale allo stato solido – che contenevano al loro interno delle polveri metalliche – che Marconi aveva utilizzato in ricezione fin dai suoi primi esperimenti”, precisa Santagiustina. “Il diodo di Fleming avrebbe rappresentato il punto fondamentale di tutta l’elettronica per decenni, costituendo la tecnologia alla base del funzionamento della radio, della televisione e anche dei primi computer. Nel 1907, Lee de Forest inventò il triodo: aggiunse al diodo di Fleming una griglia che permetteva di controllare la quantità di corrente che passava attraverso il dispositivo e aumentarla, ottenendo quindi un effetto di amplificazione del segnale”.

Quelli appena descritti sarebbero diventati i componenti tecnologici fondamentali dei circuiti oscillatori alla base del broadcasting, che erano molto differenti rispetto a quelli utilizzati per la telegrafia a distanza. “Gli oscillatori per la radiodiffusione, che comprendevano diodi e triodi, erano in grado di generare un flusso costante di corrente a una frequenza di trasmissione ben precisa”, spiega Santagiustina. “Per realizzare il broadcasting era infatti fondamentale la sintonizzazione del segnale – ovvero la capacità di filtrare le onde trasmesse per selezionare solo su quelle a una determinata frequenza, eliminando quindi il rumore di fondo. Per la radiodiffusione era fondamentale che questo processo avvenisse non solo in ricezione, ma anche in trasmissione: ogni stazione radio, in altre parole, doveva essere in grado di trasmettere un segnale a una frequenza ben precisa che veniva assegnata a lei soltanto, per distinguerla dalle altre.

Marconi aveva già brevettato dei sistemi di sintonia, ovvero delle tecnologie in grado di filtrare le frequenze utili in trasmissione e in ricezione per evitare le interferenze. Tuttavia, le loro funzionalità erano estremamente limitate, soprattutto per quanto riguardava la trasmissione di segnali audio. Gli oscillatori basati sull’utilizzo di diodi e triodi si rivelarono invece più adatti allo scopo, perché consentivano di generare un segnale molto preciso a una certa frequenza.

Inoltre, mentre le stazioni per la radiotelegrafia trasmettevano un segnale intermittente – dato che proprio l’intermittenza del segnale permetteva di distinguere i punti e le linee dell’alfabeto morse – per far arrivare la voce era necessario generare un segnale sinusoidale periodico, che fosse costante nel tempo. Questo tipo di segnale, però, non conteneva di per sé un’informazione, proprio perché era continuo. Per associare dell’informazione al segnale, era necessario introdurre qualche variazione al suo interno. L’uso di diodi e triodi consentiva di modificare alcune proprietà dell’onda, in particolare l’ampiezza. In questo modo, il segnale veniva reso più o meno intenso nel tempo, permettendo di codificare le informazioni attraverso queste variazioni. La modulazione di ampiezza fu quindi il primo metodo utilizzato per incorporare informazioni in un segnale periodico”.

Per la ricezione, a quel punto, serviva un metodo efficiente per demodulare il segnale. Questo fu possibile grazie all’implementazione di un sistema chiamato eterodina, inventato da Reginald Fessenden, che aveva condotto i primi esperimenti in questo campo. “L’eterodina prevedeva anche in ricezione l’utilizzo di oscillatori a base di diodi e triodi, la sovrapposizione dei quali di recuperare la modulazione del segnale e ottenere quindi l’informazione che esso conteneva”, spiega Santagiustina.

“Per riassumere, la comunicazione in broadcasting avveniva in questo modo: veniva generato un segnale elettromagnetico a una frequenza precisa che trasportava l’informazione, e lo si modulava in ampiezza. In ricezione, esso veniva demodulato da un oscillatore alla stessa frequenza; infatti, dalla combinazione di questi due segnali all’interno di un triodo, si riusciva a ottenere il suono originario, che poteva quindi essere trasmesso agli altoparlanti”.

Dagli anni Venti e Trenta in poi, dunque, l’uso della radio come mezzo di comunicazione di massa si diffuse a livello globale. In Italia, le trasmissioni radiofoniche furono impiegate come mezzo di propaganda del regime fascista e poi, durante la guerra, anche per lo scambio di messaggi in codice tra la Resistenza e gli alleati, grazie a Radio Londra, una serie di programmi della BBC destinati al pubblico europeo. Il 22 luglio 1937 tutte le stazioni radiofoniche interruppero le trasmissioni per due minuti, in segno di lutto per la scomparsa di Guglielmo Marconi, morto due giorni prima all’età di 63 anni.

Marconi, come già anticipato, non aveva lavorato in prima persona agli sviluppi tecnologici che portarono alla nascita della radiodiffusione (ovvero gli oscillatori che comprendevano i diodi e triodi di Fleming e De Forest, e gli schemi di modulazione e demodulazione e il sistema eterodina di Fessenden). Egli aveva però riconosciuto il potenziale di applicazione di tali innovazioni e le aveva fatte sviluppare dagli esperti che lavoravano nel suo impero di imprese, allora dominante nel settore delle telecomunicazioni senza fili, portando la radio in Inghilterra, in Italia e nel resto del mondo.

“Nei decenni successivi, gli stessi principi su cui si basava la radiofonia sarebbero stati sfruttati per la nascita della televisione, in cui la modulazione del segnale in trasmissione codificava non solo il suono, ma anche le immagini”, racconta Santagiustina. “Il tubo catodico dei primi televisori era un’evoluzione del diodo di Fleming. Esso emetteva un fascio di elettroni che eccitava i fosfori sullo schermo, i quali rendevano quindi visibili le immagini.

Nel corso dei decenni, l’elettronica ha compiuto enormi passi avanti. Oggi, ad esempio, non si trasmette quasi più in modulazione di ampiezza. L’informazione viene codificata variando altre proprietà del segnale, tra cui la fase (un parametro che indica il punto in cui si trova un’onda nel suo ciclo di oscillazione), che consente di codificare i segnali più rapidamente e con maggiore efficienza. Eppure, nonostante i tanti avanzamenti tecnologici, molti dei principi base delle trasmissioni a distanza restano gli stessi. Anche il transistor, il componente di base delle radio di oggi, è un’evoluzione del diodo che non richiede però la presenza di tubicini a vuoto. Si tratta di un sistema allo stato solido, a base di silicio, di dimensioni incredibilmente ridotte, per cui un piccolo chip può contenerne migliaia, se non milioni. I transistor si trovano nella maggior parte dei dispositivi dell’elettronica attuale, tra cui i nostri cellulari, ad esempio.

Con l’avvento del digitale, anche la televisione funziona in modo diverso. Oggi si trasmettono bit che codificano un segnale audio e video, il quale viene decodificato in ricezione e comanda i led – che, comunque, sono dei piccoli diodi luminosi – che si accendono e si spengono su uno schermo piatto. L’elettronica evolve costantemente con l’obiettivo di sviluppare componenti e dispositivi sempre più piccoli, sofisticati, efficienti e a basso consumo energetico, ma che nella maggior parte dei casi realizzano le stesse funzionalità usate da Marconi”.

 

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