Specialmente in un anno elettorale, le informazioni poco accurate (misinformazione) o nettamente false (disinformazione) costituiscono una minaccia al funzionamento democratico della società. Il loro impatto, si è scoperto, è probabilmente più circoscritto di quanto si pensasse, ma resta una fonte di preoccupazione, specialmente in un’epoca in cui l’Intelligenza Artificiale generativa rende facilmente accessibile la produzione di contenuti, inclusi quelli mendaci.
Spesso si imputa la responsabilità della loro diffusione all’infrastruttura digitale di internet e dei social, ma ciò avviene solo perché su questi media è più facile misurarne e quantificarne i flussi di produzione e di consumo. La misinformazione esiste da sempre, anche sui cosiddetti media tradizionali (giornali e televisioni) e ancora più antica è la credulità umana.
Nell’ultimo decennio, migliaia di studi scientifici hanno analizzato enormi quantità di dati, soprattutto online, per comprendere la reale portata del fenomeno, arrivando a suggerire strategie per arginarlo. La maggior parte di queste si sono concentrate sul lato della domanda, ossia promuovere comportamenti virtuosi da parte degli utenti, per ridurre il consumo e la diffusione di contenuti problematici: iniziative di alfabetizzazione mediatica (media literacy) e di educazione al pensiero critico, attività di verifica dei fatti (fact-checking) e persino etichette di buona qualità a fonti ritenute affidabili (che tuttavia incontrano difficoltà a conciliarsi con il diritto alla libertà di espressione).
Sono state proposte anche misure lato-offerta, ovvero che provano a ripensare il modello economico delle grandi piattaforme digitali, il cui scopo è aumentare l’ingaggio (engagment) del pubblico con i contenuti, a prescindere dalla loro qualità. La repressione (censura o ban) si è dimostrata poco efficace, poiché espulsi ad esempio da un social, i produttori di contenuti problematici tendono a rispuntare su un altro. Serve allora andare alla base del meccanismo che incentiva la produzione di misinformazione.
Il premio Nobel per l’economia Paul Romer ad esempio ha proposto di tassare i ricavi pubblicitari delle Big Tech, mentre altri, come la senatrice statunitense Elizabeth Warren, hanno puntato a sciogliere i loro monopoli.
Entrambi gli approcci però, per diversi motivi, faticano a decollare. Un nuovo lavoro uscito di recente su Nature e firmato da un gruppo di ricercatori della Stanford University, in California, propone di contrastare la misinformazione andando a indebolire il modello finanziario che la sostiene, quindi la pubblicità, tramite una semplice operazione di trasparenza, a basso costo e più facile da realizzare rispetto a un nuovo sistema di tassazione.
Secondo i risultati dello studio infatti, comparire in un sito di misifnormazione rappresenta un danno reputazionale per un’azienda, che spesso ci finisce inconsapevolmente, affidandosi ai sistemi automatici delle piattaforme digitali che gestiscono la pubblicità online. Se messe a conoscenza di dove viene pubblicato il proprio annuncio, le aziende tendono a evitare i siti di misinformazione, facendo così venire meno i ricavi pubblicitari che li sostengono.
Come funziona la pubblicità online
Nel sistema della pubblicità online sono coinvolti tre attori principali, più il pubblico: chi produce contenuti (articoli o video su un sito web), l’azienda che intende farsi pubblicità, e una piattaforma che associa, con un sistema automatizzato, l’annuncio pubblicitario di un’inserzionista a un contenuto. Quando un utente interagisce con un contenuto viene esposto anche all’annuncio pubblicitario. L’azienda inserzionista avrà raggiunto il proprio scopo e (semplificando) pagherà una certa quota: una parte andrà al produttore del contenuto, una parte alla piattaforma, con percentuali variabili.
Le principali piattaforme di pubblicità online sono gestite da Big Tech come Google, Meta, Microsoft, Amazon. Per un’azienda è anche possibile saltare la mediazione della piattaforma e trattare direttamente con il sito titolare del contenuto, ma ciò avviene più di rado.
Un’analisi di NewsGuard del 2021 stima che ogni anno siti di misinformazione e disinformazione su temi sanitari, politici e democratici, ricavano 2,6 miliardi di dollari dalla pubblicità. Restando negli Stati Uniti, il mercato più grande, 1 dollaro su 3,16 che viene investito in pubblicità online va a siti di misinformazione.
Cosa ha fatto lo studio
Il lavoro appena pubblicato ha considerato quasi 5.500 siti web (di cui oltre 1.200 valutati come veicoli di misinformazione da NewsGuard e Global Disinformation Index), più di 42.000 aziende inserzioniste e oltre 9,5 milioni di annunci, in un periodo di tre anni, dal 2019 al 2021. La maggior parte dei siti monitorati (quasi il 90%) si reggeva economicamente sugli introiti pubblicitari e il più delle volte quelli di misinformazione erano gestiti da singoli individui.
Lo studio ha trovato che quasi l’80% degli inserzionisti che si affidava a piattaforme che automaticamente distribuiscono gli annunci finivano pubblicizzati su siti di misinformazione, mentre ci finiva meno dell’8% di chi saltava la mediazione delle piattaforme. “In altre parole” si legge nel paper, “le aziende che usavano le piattaforme digitali per gli annunci avevano una probabilità 10 volte maggiore di apparire su siti di misinformazione rispetto ad aziende che non usavano le piattaforme”.
Due esperimenti comportamentali
I ricercatori hanno poi allestito un esperimento comportamentale, anzi due. Nel primo hanno assegnato ai partecipanti (più di 4.000) una gift card per l’acquisto di prodotti di un’azienda di loro scelta. Li hanno poi messi a conoscenza del fatto che gli annunci pubblicitari dell’azienda di loro scelta comparivano su siti con contenuti problematici, ovvero che veicolano linguaggio d’odio (hate speech) o misinformazione.
Gran parte dei partecipanti ha cambiato la propria scelta e, messi a conoscenza di quali aziende comparivano più spesso su siti di misinformazione, sceglieva quelle che vi apparivano meno di frequente. In sintesi, comparire su un sito di misinformazione comporta spesso un danno reputazionale per un’azienda, poiché i consumatori tendono a evitare l’acquisto dei suoi prodotti.
Il secondo esperimento comportamentale ha riguardato invece solo decisori aziendali: direttori e manager. I risultati hanno mostrato che i partecipanti ad esempio sottostimavano ampiamente il ruolo delle piattaforme pubblicitarie digitali, ritenendo che circa il 44% delle aziende che si affida al sistema automatico finisce su siti di misinformazione. Lo studio ha trovato invece che delle 100 compagnie più attive, quasi l’80% aveva annunci su siti di misinformazione.
Direttori e manager inoltre tendevano a sottovalutare la risposta dei consumatori, ritenendo, a torto, che comparire con un annuncio su un sito di misinformazione non comportasse un danno per l’azienda. Soprattutto, sottostimavano la probabilità che fosse la propria azienda a comparirci. Per tutte queste ragioni, lo studio conclude che la maggior parte delle aziende finanzi con la propria pubblicità siti di misinformazione inconsapevolmente.
Contromisure
Gli autori dello studio suggeriscono che le aziende si muniscano di liste di siti di misinformazione, come quelle stilate da attori indipendenti, come NewsGuard o il Global Misinformation Index, per limitare il budget da spendere su questi siti tramite le piattaforme pubblicitarie.
Dal canto loro, le piattaforme pubblicitarie dovrebbero rendere trasparenti i dati sulle destinazioni degli annunci pubblicitari. Ciò consentirebbe alle aziende di prendere decisioni più informate.
Le piattaforme potrebbero poi essere più trasparenti anche nei confronti dei consumatori, mettendoli a conoscenza di quali aziende scelgono di destinare i propri annunci a siti e contenuti ritenuti problematici.
Iniziative analoghe esistono già in altri ambiti come quello dei voli aerei: Google Flights ade esempio mostra i dati delle emissioni assieme ai prezzi quando i clienti selezionano un volo da acquistare. “Permettere ai consumatori di vedere queste informazioni al momento dell’acquisto potrebbe fornire un incentivo maggiore alle aziende per tenere lontani i propri annunci da siti di misinformazione”.
Interventi di questo tipo potrebbero venire incorporati nella legislazione esistente per aumentare la trasparenza, suggeriscono gli autori. In Europa si tratterebbe dell’EU Digital Service Act (che comprende un Code of Practice on Disinformation) e negli Stati Uniti dell’Honest Ads Act e del Competition and Transparency in Digital Advertising (CTDA) Act.