Da diversi anni è comprovato che lo strato di ozono atmosferico attorno al nostro pianeta venga ridotto da sostanze dette ODS (ozone depleting substances) come i clorofluorocarburi (CFC), ma potrebbe esserci un ulteriore effetto negativo finora poco conosciuto di questi gas. Uno studio condotto dallo Scripps Institution of Oceanography di San Diego, in California, ha mostrato come queste sostanze possano incidere in maniera diretta sullo scioglimento dei ghiacciai, accelerando così il riscaldamento nel circolo polare artico. Questa zona ha infatti un tasso di riscaldamento di circa il doppio rispetto al resto del pianeta, un fenomeno noto come Arctic Amplification, di cui non si conoscono ancora bene le cause.
Nell’articolo Substantial twentieth-century Arctic warming caused by ozone-depleting substances pubblicato su Nature Climate Change il 20 gennaio 2020, Mark England e i suoi colleghi hanno sviluppato un sistema di simulazione climatica volto a quantificare gli effetti dei gas serra sulle temperature artiche. I risultati prodotti hanno mostrato diversi livelli di aumento della temperatura, in base alla presenza o meno di emissioni di CFC in atmosfera nell’arco di un periodo di 50 anni. In assenza di emissioni di CFC, il modello fornisce un aumento medio di 0,82 gradi C, mentre, in presenza di emissioni, il dato sale a 1,59 gradi C, quasi il doppio. Inoltre i ricercatori hanno osservato come al variare dello spessore dello strato di ozono, mantenendo però un livello costante di CFC in atmosfera, gli effetti sullo scioglimento del ghiaccio rimangano simili. Ciò dimostrerebbe un effetto diretto di tali gas sui ghiacciai a livello fisico, indipendentemente dall’assottigliamento dell’ozono a cui essi contribuiscono.
I commenti riguardo questa pubblicazione non si sono fatti attendere. Marika Holland del National Center for Atmospheric Research di Boulder, Colorado, osserva che “nonostante l’effetto degli ODS nel riscaldamento atmosferico sia ben documentato, la complessità dei modelli climatici rende difficile dire con certezza il grado di intensità degli effetti sul clima artico”. Secondo Susan Strahan della NASA’s Goddard Space Flight Center a Greenbelt, Maryland, “discussioni più solide potranno essere affrontate nel momento in cui sarà fornita una spiegazione fisica esaustiva di tali risultati”. Al momento, quindi, è ancora presto per poter trarre delle conclusioni certe, si tratta ancora di un punto di partenza, da cui però potranno essere condotti ulteriori studi e ricerche.
Quel che ne risulta per ora è un nuovo punto di vista sull’impatto che alcuni gas serra possono avere sull’ambiente e sul cambiamento climatico. Fino a oggi gli studi si erano concentrati maggiormente sull’effetto che essi hanno sullo strato di ozono atmosferico, in particolare nell’emisfero australe dove lo hanno portato a un’estrema riduzione (quello che conosciamo come buco dell’ozono) sopra l’Antartide. Ma potrebbero giocare un ruolo chiave diretto anche nello scioglimento dei ghiacciai e di conseguenza nell’Arctic Amplification.
Nathan Kurtz, ricercatore della NASA’s Goddard Space Flight Center spiega il fenomeno dell’Arctic Amplification
Il ghiaccio e la neve, rispetto all’acqua, hanno un valore più alto di albedo, la radiazione solare che viene riflessa da una superficie, in altre parole assorbono meno luce rispetto alla superficie del mare. Nel momento in cui i ghiacciai si sciolgono, tramite anche l’effetto dei CFC, la superficie del mare aumenta e, assorbendo più luce, si scalda ulteriormente, dando il via a un processo sempre più difficile da arrestare.
Un dato certo è che da questo studio risulta ancor più consolidata l’importanza del Protocollo di Montreal, entrato in vigore nel 1989, in cui 197 nazioni presero l’impegno di ridurre gradualmente le emissioni di gas nocivi per lo strato di ozono, portando alla registrazione di un calo degli ODS a partire dal 2000, per arrivare a una messa al bando totale entro il 2030.