SOCIETÀ

Pandemia: il calo delle nascite più marcato dove il welfare è meno forte

Nei primi mesi dell'esperienza della pandemia c'era chi ipotizzava che l'isolamento forzato e il maggiore tempo speso all'interno della famiglia avrebbero portato a un aumento delle nascite. 

E' bastato però poco tempo per capire come questa previsione fosse errata: in un quadro generale di maggiore incertezza e di apprensione per le prospettive professionali ed economiche molte coppie hanno deciso di rinviare o annullare i propri progetti di avere un bambino e per un Paese come l'Italia, in cui il calo delle nascite prosegue ininterrottamente dal 2008, questo si è tradotto in un nuovo minimo storico.

Nel 2020 sono infatti stati iscritti all'anagrafe per nascita 404.104 bambini, circa 16 mila in meno rispetto al 2019 e il calo della popolazione è stato reso ancora più consistente dall'aumento della mortalità, in parte legato proprio a Covid-19.

Naturalmente nelle valutazioni sull'andamento delle nascite nel 2020 la pandemia può essere chiamata in causa solo parzialmente e solo nella parte finale dell'anno ma, come vedremo meglio in seguito, se confrontiamo i primi cinque mesi del 2021 con lo stesso periodo dell'anno precedente notiamo (con qualche eccezione tra marzo e aprile, senza però un recupero complessivo) che il trend di diminuzione delle nascite continua. E l'Istat ha recentemente confermato che le stime per il 2021 portano a ritenere "altamente verosimile" una discesa delle nascite al di sotto della soglia delle 400 mila unità. 

Ma quell'inverno demografico che caratterizza il nostro Paese si manifesta con tendenze simili anche in altre aree del mondo ad alto reddito? E la pandemia da Covid-19 ha favorito un così marcato declino delle nascite in tutti i paesi ricchi? 

Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Pnas e condotto dai demografi Arnstein Aassve, Nicolò Cavalli, Letizia Mencarini e Samuel Plach dell'università Bocconi di Milano insieme al collega Seth Sanders della Cornell University di Ithaca ha messo sotto la lente i tassi di natalità di 22 Paesi ad alto reddito e ha scoperto che oltre all'Italia, dove si è osservato il crollo maggiore, i cali più consistenti sono avvenuti in Ungheria, Spagna e Portogallo, mentre in nazioni che tradizionalmente possono vantare sistemi di welfare più avanzati la diminuzione delle nascite è stata molto più contenuta oppure non si è registrata affatto.

E' opportuno fare subito una precisazione: considerando i numeri grezzi, i tassi di fertilità sembrano essere in calo in 18 dei 22 Paesi esaminati, ma il lavoro proposto dagli studiosi ha preso in considerazione i possibili fattori confondenti, come la stagionalità o i trend del passato che a loro volta hanno portato a profonde modifiche nella struttura per età delle diverse popolazioni. 

E così da un lato abbiamo Paesi come Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Germania e Olanda dove l'analisi dei dati sulla fecondità non evidenzia un impatto diretto della pandemia e altri, come quelli dell'Europa meridionale, ma anche gli Stati Uniti, dove invece Covid-19 ha posto un ulteriore forte freno alla natalità.

Sull'Italia l'effetto è stato particolarmente accentuato con un -9,1% di nascite rispetto ai trend passati, valutati a partire dai dati mensili sui nati vivi da gennaio 2016 a marzo 2021. Queste informazioni, spiegano gli autori, sono recuperate dallo Human Fertility Database che compila statistiche di alta qualità sui nati vivi da fonti nazionali per un numero selezionato di Paesi.

Abbiamo approfondito lo studio insieme alla professoressa Letizia Mencarini, docente di demografia all'università Bocconi di Milano, per comprendere meglio la metodologia utilizzata e le riflessioni a cui conducono i risultati.

"Un aspetto che sarà molto importante da valutare è se anche nel comportamento riproduttivo la pandemia porterà ad un aumento delle disuguaglianze e delle possibilità: mi sembra che si possa aprire uno scenario in cui una parte di popolazione più privilegiata per posizione lavorativa ed economica può continuare a realizzare i propri desideri riproduttivi, mentre per un’altra parte di popolazione, che ha più paura del futuro ed è legata anche a settori economici che hanno risentito in misura maggiore della pandemia, la scelta di fare figli sia molto più complessa", commenta al riguardo Mencarini

L'intervista completa alla professoressa Letizia Mencarini, demografa dell'università Bocconi di Milano. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

Il modello proposto dallo studio

"Abbiamo condotto questo studio - introduce la professoressa Letizia Mencarini, docente di demografia all'università Bocconi di Milano - perché i vari Paesi pubblicano il numero dei nati a livello mensile e annuale, poi in seguito fanno delle elaborazioni più raffinate in cui riescono anche a produrre il tasso di fecondità totale che è il numero medio di figli per donna. Se però si confrontano solo i numeri dei nuovi nati per ogni Paese non si riesce bene a capire a cosa siano dovuti i cali e se a determinarli sia la diminuzione della fecondità o siano invece modifiche della struttura per età".

L'aspetto metodologico riveste quindi un ruolo molto importante perché "i bambini che nascono ogni anno in un Paese sono frutto di due cose: la propensione a fare figli, cioè il numero medio di nascite in una coppia, ma anche quante sono le coppie presenti in quel Paese. Nell’Italia pre-pandemica c’era già stato un calo delle nascite e siamo infatti nuovamente scesi, come era successo a metà degli anni ’90, sotto 1,3 figli per coppia. Questo significa che le coppie fanno meno figli, ma bisogna anche considerare che stanno entrando nell’età feconda delle generazioni di giovani che sono particolarmente esigue perché loro stesse sono figlie della bassa fecondità dei loro genitori. Questo meccanismo vale per tutti i Paesi ma ci sono delle differenze perché in alcuni, grazie alla fecondità più alta e all’immigrazione, non c’è questo calo potenziale di genitori".

Letizia Mencarini è stata anche tra le autrici di un precedente studio, pubblicato a luglio del 2020 su Science, che aveva già indicato come improbabile un effetto baby boom successivo alla pandemia e aveva messo in luce le differenze tra l'emergenza sanitaria dovuta al virus SARS-CoV-2 e altri eventi traumatici di portata mondiale che si sono verificati in passato, come guerre, malattie o carestie, in cui ai picchi di mortalità aveva poi fatto seguito un forte aumento delle nascite. In quell'occasione la demografa aveva già approfondito su Il Bo Live i fattori, collegati alla pandemia, che sembravano spingere verso una riduzione dei tassi di fecondità, soffermandosi sulle criticità dovute alla recessione economica, all'organizzazione dei carichi familiari, con il forte aumento del carico di cura che era andato a gravare soprattutto sulle donne, e sulle difficoltà di applicazione dello smart working quando ci sono dei bambini a casa.

All'epoca non era però ancora trascorso il tempo necessario per valutare l’effetto reale di quello che era successo durante il lockdown, mentre in questo nuovo studio gli autori hanno avuto a disposizione i dati sulle nascite del 2020 e quelli dell'inizio del 2021. Si tratta quindi di un periodo che consente di analizzare quanto avvenuto nella fase iniziale di diffusione del virus, quella più emergenziale. 

I risultati: l'impatto della pandemia sui tassi di fecondità e un'Europa a due volti

"In questo studio - entra nel dettaglio la professoressa Mencarini - abbiamo elaborato un modello che guarda ai concepimenti avvenuti nei mesi della prima ondata pandemica. Siamo partiti dai dati dei diversi paesi, ma non eravamo contenti dei primi risultati perché occorreva ancora non solo confrontarli con i dati degli anni precedenti ma anche con il trend di fecondità già in atto e con la struttura per età. Abbiamo quindi cercato di annullare questi effetti confondenti, che cambiano a seconda dei Paesi, per arrivare a comprendere quale sia stato l’impatto sulle nascite dovuto alla pandemia".

E qui emerge un'elevata eterogeneità che potrebbe sfuggire se non si "puliscono" i numeri da tutti gli elementi confondenti. Considerando i numeri grezzi, i tassi di fertilità infatti sembrano essere in calo in 18 Paesi su 22 (le eccezioni sono Danimarca, Finlandia, Germania e Paesi Bassi). Ma, come spiegato in precedenza, i dati includono fattori come i trend in atto, la stagionalità e la struttura per età: se si esclude il ruolo di questi elementi, obiettivo che aveva il modello elaborato dagli autori dello studio, i tassi di natalità hanno mostrato un calo significativo solo in sette Paesi (in ordine decrescente Italia, Ungheria, Spagna, Portogallo, Belgio, Austria e Singapore). 

"Quel -9,1% che riportiamo per l’Italia, precisa al riguardo Mencarini - non è il dato vero della diminuzione delle nascite, che in alcuni mesi è stato anche più alto e a dicembre del 2020 ha raggiunto il -20%, ma rappresenta il calo delle nascite al netto dell’effetto dovuto alla struttura per età della popolazione e al calo che già era in atto. Se passiamo ad un confronto tra paesi vediamo che in alcuni il trend è invece positivo: nel periodo della pandemia, anche al netto di questi fattori confondenti, i tassi di fecondità sono aumentati".

Su queste dinamiche può aver inciso anche l’andamento stesso della pandemia che non ha colpito con la stessa intensità e nelle stesse tempistiche tutte le aree del mondo. "Però - osserva la demografa dell'università Bocconi di Milano - il fatto che i soliti Paesi del centro-nord Europa non abbiamo risentito di questo contraccolpo ci fa pensare per analogia a quello che è successo dopo la crisi economica iniziata nel 2008. Ci sono cioè alcuni paesi in cui effettivamente le nascite ne hanno risentito di più perché l’incertezza portata da alcune situazioni di crisi creano apprensione nelle coppie rispetto al futuro. Se si ha paura dell’incertezza economica, e la pandemia ha avuto un impatto sotto questo profilo, si tende a rinviare la decisione di fare dei figli".

Un piccolo recupero all'inizio del 2021

Dai primi mesi del 2021 emerge adesso qualche segnale di ripresa dei tassi di natalità in quasi tutti i Paesi. "Sono dati che non sono stati compresi nel nostro studio perché non c’erano quando abbiamo condotto l’analisi ma adesso sono disponibili. E anche in Italia tra febbraio e marzo la fecondità è un po’ aumentata: è un periodo a cui corrisponde, nove mesi prima, l’estate del 2020 quando la pandemia si era notevolmente allentata e c’era anche un certo ottimismo verso il futuro", spiega Mencarini. 

"Tengo a sottolineare - continua la demografa - che non si tratta di un baby boom ma di un piccolo recupero e bisognerà vedere cosa è successo nei mesi successivi in rapporto alle successive ondate pandemiche con tutte le relative oscillazioni nei comportamenti e nelle decisioni".

"Questo ci fa anche capire quanto ormai fare figli sia una decisione ben ponderata: se non ci sono le condizioni in un determinato momento le coppie scelgono di aspettare una fase più favorevole. E’ un tema importante perché ci conferma come ci siano situazioni di difficoltà in cui il desiderio di avere dei bambini venga sacrificato di fronte alle paure e alla mancanza di fiducia da parte dei giovani. In Italia negli ultimi tempi sono state introdotte o implementate molte misure orientate a supportare chi sceglie di avere figli, come ad esempio l’assegno unico o i congedi per i padri, ma bisognerà vedere se queste iniziative sono sufficienti a spezzare queste incertezze e paure rispetto al futuro", conclude Mencarini.

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