SCIENZA E RICERCA

Paolo Nespoli racconta la vita in orbita

Il record italiano del numero di giorni totali passanti nello spazio lo detiene Paolo Nespoli, ingegnere meccanico e aerospaziale, che nel corso delle tre missioni a cui ha partecipato ha raggiunto un totale di 313 giorni fuori dal nostro pianeta. Ed è proprio della vita in orbita che l'astronauta milanese parlerà la sera del 13 settembre, al teatro Verdi di Padova, in occasione del CICAP Fest 2019.

Reclutato dall'Agenzia italiana spaziale nel 1998, Nespoli venne coinvolto nel 2008 nella sua prima missione, Esperia, che aveva lo scopo di portare sulla Stazione spaziale internazionale il nodo-2, cioè uno degli elementi che servono a connettere gli spazi della stazione spaziale e a permettere il passaggio degli astronauti. Tre anni dopo, partecipò alla missione internazionale di lunga durata Magisstra, il cui obiettivo principale era condurre esperimenti scientifici. La terza e ultima missione, anch'essa di lunga durata e finalizzata alla conduzione di esperimenti biologici, fisici e tecnologici, iniziava nel 2017 e si chiamava VITA.

Oltre a portare a termine i compiti di ricerca scientifica, Nespoli ha scattato durante i suoi viaggi spaziali moltissime foto, grazie alle quali è riuscito ad arricchire ulteriormente il suo contributo come astronauta e soprattutto a integrare nel suo lavoro una delle sue passioni.

Ma quali sono i problemi che un astronauta deve affrontare una volta partito per la sua missione? Come ci si sente a sapere che la vita che si sta conducendo è letteralmente fuori dal mondo? Perché un astronauta viene addestrato a lungo, ma è una volta sul campo che bisogna abituarsi a una quotidianità molto diversa.

A riguardo, Paolo Nespoli ci spiega che: “viene dato per scontato che l'addestramento di un astronauta sia lungo, minuzioso, complesso, attento e vario, perché i sei astronauti che sono sulla stazione spaziale sono l'unica forza lavoro, quindi devono esser in grado di fare qualsiasi cosa, dalle pulizie, agli esperimenti più complessi, fino a gestire i sistemi di bordo di mantenimento della vita. Qualsiasi cosa succede, è l'astronauta che la deve risolvere. Infatti, il nostro addestramento è sempre rivolto con molta attenzione a questa fase. Quello che non c'è modo di addestrare a terra è come l'astronauta si sentirà quando arriverà in una situazione dove effettivamente è un extraterrestre e dove le regole normali della vita variano. Gli oggetti e il proprio corpo funzionano in modo diverso. Il modo in cui si svolgono le normali attività nello spazio viene totalmente travolto, e per questo non c'è da addestrarsi, lo si capisce solo quando si arriva lì. Quando sei nello spazio spetta a te trovare il modo di adattarti nella nuova situazione e volgere tutti gli svantaggi e le problematiche a tuo vantaggio. Ci vuole un po' di tempo, anche quattro o sei settimane. Dopodiché si diventa extraterrestri e allora là si ricomincia a funzionare. È un po' come la vita di tutti i giorni, perché quando si impara a fare una cosa ma poi cambiano le circostanze nel contorno, bisogna adattarsi”.

La vita è un continuo divenire, e andare nello spazio ti fa vedere che se tu abbracci il cambiamento, e se invece di farti mancare le cose che non hai ti focalizzi sulle cose in più che hai, riesci a trarne il meglio e diventarne parte Paolo Nespoli

Cosa deve avere in più un giovane per diventare astronauta, oltre ai classici requisiti di forma fisica, e preparazione teorica? Quali sono le competenze trasversali che non devono mancare?

“Senza dubbio delle competenze trasversali sono il senso di ricerca, di sperimentazione, la volontà di rimettersi in gioco. Si arriva in orbita e ci sono cose che nessuno può spiegare come si fanno, bisogna scoprirlo da soli, non c'è una formula che è uguale per tutti. Per cui non bisogna aver paura di mettersi in gioco e sbagliare, perché chi sbaglia mai è solo colui che non prova mai a fare cose diverse. Sbagliare è normale, il problema è non imparare dagli errori”.

Riguardo alla convivenza con i colleghi astronauti, cosa deve avere un team spaziale per essere un team vincente?

“Bisogna avere la coscienza che in orbita, per quanto si sia addestrati, si è sempre parte di una squadra, che coinvolge sia te che gli altri astronauti che sono con te sulla stazione; è un posto isolato e confinato in un'ottantina di metri quadri in cui si vive in sei. Bisogna imparare a condividere questo ambiente e questa quotidianità che non può cambiare per sei-otto mesi, e in cui devi lavorare. È necessario quindi creare delle regole da rispettare per il vivere di tutti i giorni. Allo stesso tempo, il team non è solo quello che sta in orbita. Ci sono le persone che sono al centro di controllo, gli sperimentatori e le varie agenzie con cui bisogna cooperare. Poi bisogna avere piena fiducia nel fatto che gli altri membri del team stiano svolgendo il loro lavoro correttamente, perché si ha la propria vita in mano ma la si consegna anche nelle mani degli altri, e questo vale per tutti, a vicenda. Per cui c'è una fiducia che dev'essere assolutamente completa. Anche avere un obiettivo condiviso da tutti è fondamentale, perché se c'è uno scopo che si deve raggiungere tutti assieme, allora si deve passare sopra le piccole cose che inevitabilmente ci sono ogni giorno, ma che non sono importanti quanto l'obiettivo finale, come completare una missione facendo tutti gli esperimenti, passando il tempo in orbita non solo velocemente ma anche in modo efficiente come team, sentendosi parte della squadra, sapendo di poter dare e di voler dare il massimo del proprio contributo”.

La fotografia è sempre stata una passione? Il fatto che sia riuscito a integrarla nel suo lavoro le ha dato una marcia in più?

“Sin da ragazzo mi è sempre piaciuta la fotografia. Con degli amici, avevamo una camera oscura, facevamo foto, sperimentavamo. Andando avanti, ho sempre portato con me la macchina fotografica. Nella fotografia ho trovato un lato artistico ma anche un lato documentativo. Mi è piaciuto sempre condividere quello che stavo facendo con gli altri, e l'opportunità si è presentata nel 2010-2011, quando nella mia prima missione di lunga durata, ho iniziato a usare i social media per portare la gente nello spazio con me. Questo mi ha aiutato, perché i giorni che si passano in orbita sono tanti, e fatto di poter condividere queste viste incredibili della Terra e sentire tante risposte mi ha sicuramente dato forza. Ricordo ancora un commento su una delle mie ennesime foto di una persona che diceva di non aver mai cambiato screensaver per anni, ma dopo aver visto le mie foto, ne usava come sfondo una al giorno, non riuscendo a capacitarsi del fatto che ce ne fosse sempre una più bella la mattina dopo. È stato un fatto che mi ha riempito di piacere e di gioia”.

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