SOCIETÀ

La “Paz total” della Colombia con i guerriglieri

Il nuovo anno in Colombia comincia all’insegna della pace, almeno sulla carta. Una pace che Gustavo Petro, primo presidente di sinistra del paese sudamericano, eletto appena sei mesi fa, aveva da subito messo al centro del suo programma politico. Poi il Congresso colombiano, il 26 ottobre scorso, aveva approvato la legge di “Paz Total”, che autorizza il presidente a intavolare trattative di pace, negoziati e processi di “sottomissione alla giustizia” con gruppi di guerriglieri e bande criminali che da anni imperversano soprattutto in alcune regioni, attaccando la popolazione civile e in competizione tra loro per il controllo delle colture di coca, dei laboratori e delle rotte del traffico di droga, oltre all’estrazione illegale di minerali preziosi. Quei negoziati hanno portato frutto. E il frutto è una tregua, firmata da un lato dal presidente colombiano, e dall’altro dai leader dei cinque gruppi armati più violenti del paese. Un “cessate il fuoco” che ha comunque una data di scadenza: 30 giugno 2023, prorogabile “a seconda dei passi in avanti nei negoziati”. Speranza e diffidenza quasi si sovrappongono nel commentare questo accordo, che punta ad attenuare l’enorme onda di violenza che da anni affligge la Colombia (quasi 300 morti soltanto nel 2022). Ma la tregua potrebbe anche aprire scenari nuovi, portando a una sorta di “riconoscimento formale” di queste associazioni dichiaratamente dedite al crimine. «Questo è un atto coraggioso», ha scritto Petro sul suo profilo Twitter il 31 dicembre scorso. «Il cessate il fuoco bilaterale obbliga le organizzazioni armate e lo Stato a rispettarlo. Ci sarà un meccanismo di verifica nazionale e internazionale. La pace totale sarà una realtà».

Il passaggio è più delicato di quanto possa apparire a un primo sguardo. Perché l’attività delle bande criminali è assai diffusa e redditizia, in una nazione ancora oggi leader mondiale nella produzione di foglie di coca. Secondo uno studio realizzato dall’Istituto nazionale per la pace “Indepaz” in Colombia sono attive 26 organizzazioni armate illegali, con migliaia di “soldati”. Ma gli interessi in gioco nella partita del narcotraffico, com’è evidente, superano e di molto i confini nazionali. Finora la “tregua” con lo stato è stata accettata (in colloqui “separati”) dai guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale (ELN, circa 3500 uomini), dai dissidenti delle Farc (le Forze Armate della Colombia, un gruppo di “autodifesa contadina” che nel 2016, dopo 50 anni di conflitto, firmò un accordo di pace non da tutti condiviso: e per questo all’allora presidente della Colombia, Juan Manuel Santos, fu assegnato il Nobel per la pace), dalla Segunda Marquetalia (nata da una scissione tra i dissidenti Farc), dalle Forze di Autodifesa Gaitanista della Colombia (più noto come “clan del Golfo, una delle più potenti organizzazioni paramilitari di destra, principale fornitore di cocaina, attraverso l’America Centrale e i Caraibi, ai cartelli messicani di Sinaloa, Los Zetas e Jalisco New Generation), e dai paramilitari ribelli della Sierra Nevada (che “governano” la produzione di cocaina nel nord-est della Colombia, verso il confine con il Venezuela). Una tregua che il governo legittima con le esplicite richieste arrivate dalla società civile, dalla Chiesa e dalle comunità locali più coinvolte che chiedevano la fine delle violenze. “L'obiettivo di questo cessate il fuoco – ha spiegato il governo in una nota - sarà quello di sospendere l'impatto umanitario sulle comunità etnico-territoriali e contadine, e sulla nazione in generale, ed evitare incidenti armati tra la forza pubblica e le organizzazioni al di fuori della legge che hanno sottoscritto l'accordo". A rendere ancor più credibile e solido l’accordo, sarà la presenza come “supervisori” della Missione di verifica delle Nazioni Unite, dell'Ufficio del difensore civico e della Chiesa cattolica. Lo stesso Carlos Ruiz Massieu, rappresentante dell’Onu in Colombia, ha commentato con favore il raggiungimento dell’accordo: «Le Nazioni Unite – ha dichiarato - sostengono tutti gli sforzi volti a ridurre la violenza nei territori, proteggere le comunità colpite dal conflitto e costruire la pace in Colombia». Il ministro dell’Interno colombiano ha anche precisato che “il rispetto dell’armistizio sarà valutato ogni due mesi”.

Un’economia basata sul crimine

Ma restano concreti i dubbi sulla reale efficacia che una simile tregua possa avere nell’immediato futuro, sempre ammesso che gli accordi vengano rispettati alla lettera. Secondo un recente sondaggio realizzato dalla “Fundación Ideas para la Paz”, l’85% dei colombiani intervistati si è dichiarato a favore del processo di pace con i gruppi armati, ma soltanto il 26% crede che migliorerà la sicurezza nazionale, mentre il 29% ritiene che migliorerà le condizioni di vita delle comunità. Gli avversari politici del presidente Petro sono tra i più attivi nel rimarcare le contraddizioni dell’accordo: «Non c’è alcun impegno da parte di questi gruppi armati a interrompere le loro attività criminali, incluso naturalmente il traffico di droga», ha sostenuto Rafael Nieto, ex vice ministro dell’Interno e della Giustizia nel 2003 e nel 2004, quando a governare c’era Alvaro Uribe. «Il cessate il fuoco assicura ai gruppi violenti soltanto che non saranno combattuti o contrastati dalle forze di sicurezza colombiane». Scrive il quotidiano Colombia Reports: «Il cessate il fuoco del governo con i gruppi armati illegali non implica un’interruzione delle ostilità tra i gruppi stessi, ostilità che genera gran parte delle violenze contro la popolazione civile. C’è poi il problema dell’applicazione della legge comune, poiché tutti i gruppi armati illegali si affidano al crimine organizzato, in particolare al traffico di droga, all’estrazione mineraria illegale e all’estorsione, per finanziare le loro organizzazioni». Come dire: non basta una firma su un accordo per scardinare un’economia basata sul crimine. Un circolo vizioso alimentato dalla povertà in cui versa una gran parte della popolazione colombiana delle regioni più rurali, un dato che la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi stima, per l’intera Colombia, al 38%, superiore alla media già drammaticamente alta, 33,7%, dell’America Latina: per molti di questi contadini, la coltivazione delle piante di coca è l’unica fonte di guadagno. «Quelli che chiamiamo narcos sono le truppe, i peoni, i contadini che non hanno più nulla da fare, i figli dei contadini: ma questo non è traffico di droga», ha dichiarato il presidente Petro alcuni mesi fa. «Il traffico di droga riguarda i legami e il potere, e dobbiamo colpirli se vogliamo davvero che ci sia pace in Colombia». 

Ma colpirli come? Il progetto “Paz Total” prevede la creazione di un fondo per garantire investimenti sociali nelle aree più remote colpite dalla violenza e dalla presenza di gruppi armati illegali: ma al momento si tratta soltanto di un buon proposito. Il ministro della Giustizia colombiano Néstor Osuna è rimasto sul vago: «Dobbiamo cercare un’alternativa per i coltivatori di coca che permetta loro di vivere meglio, trasformarla in un’economia legale», escludendo tuttavia la legalizzazione della produzione e del commercio di cocaina, almeno per ora. «Non si tratta di sradicare la pianta, si tratta di avere un'economia sicura», ha poi precisato. Quanto ai gruppi armati, la legge “Paz Total” prevede alcuni “benefici” per i firmatari, tra i quali la sospensione dei mandati di arresto emessi contro i membri che rappresentano le organizzazioni, la riduzione delle condanne già emesse e la “non estradizione”, in cambio delle rivelazioni sulle “rotte” utilizzate per esportare la cocaina (a patto però di consegnare “parte delle fortune ottenute illegalmente”). Principi solidi e condivisibili (Human Rights Watch ha inviato lo scorso agosto una lettera di apprezzamento al presidente Petro per il suo progetto), ma realizzarli nel concreto sarà tutt’altro che semplice. Attorno alla produzione e al traffico di cocaina ruotano interessi colossali che non si faranno spazzare via da un semplice accordo di cessate il fuoco. Come spiega Luis Fernando Trejos, analista politico e docente all’Universidad del Norte Colombia, intervistato da InSight Crime (un'organizzazione giornalistica e investigativa senza scopo di lucro): «Molte di queste organizzazioni fanno parte delle catene della criminalità transnazionale. È possibile che le loro controparti internazionali, una volta che un gruppo locale smobilita e depone le armi, si muovano rapidamente o per incoraggiare lo stesso gruppo a riarmarsi o per creare un altro gruppo per mantenere attiva la produzione di cocaina per rifornire i mercati internazionali. E non sappiamo quale sarà la risposta dello stato ai gruppi che non vorranno partecipare al progetto Paz Total, né a quelli che lo abbandoneranno, una volta iniziato». Sempre InSight Crime, lo scorso settembre, aveva posto la questione al senatore del Polo Democratico Alternativo (PDA) Iván Cepeda, alleato del governo Petro. E la risposta è stata netta: «Non esiste un piano B: chi non depone le armi e non si adegua alla legge dovrà affrontare rappresaglie militari». Ma le organizzazioni criminali potrebbero, oltre a evitare il carcere, trarre anche un altro vantaggio da questa “esigenza di pace” del governo colombiano: farsi accreditare non più come bande di narcotrafficanti ma come soggetti politici a tutti gli effetti, magari sperando un giorno di avere addirittura rappresentanti al Congresso. 

«È il fallimento del proibizionismo»

E Insomma, una scommessa assai rischiosa per Gustavo Petro, lui stesso ex guerrigliero (ha fatto parte del gruppo M-19) prima di diventare sindaco di Bogotà, salito alla presidenza come difensore dei poveri, degli ultimi, dei dimenticati. Un presidente che continua a guardare oltre (vuole bloccare le future estrazioni di carbone) e che, evidentemente, non teme le strade in salita. Che parla di “prospettive di pace” per la Colombia, che auspica un “cambiamento di approccio nella lotta contro la droga”, che accusa l’Onu di aver “incoraggiato il proibizionismo”. «La guerra alla droga ha fallito e ha portato solo morte», ha detto Petro nel suo primo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, lo scorso settembre: «Chiedo da qui, alla mia America Latina ferita, di porre fine all’irrazionale guerra alla droga. Di smettere di criminalizzare gli anelli più deboli della catena, i coltivatori di coca, e concentrare gli sforzi sul colpire le organizzazioni criminali che traggono profitto dal traffico di droga». E l’accordo di pace appena raggiunto con i guerriglieri è soltanto il primo passo di questo percorso: «Questo non significa che il traffico di droga finirà in un attimo: non sono ingenuo al riguardo», ha puntualizzato Petro. «Finirà soltanto quando il proibizionismo finirà e cominceremo a gestire il problema della droga come merita: come un problema di salute pubblica e di prevenzione». In questa sua battaglia è sostenuto anche dalla Commissione globale per le politiche sulle droghe. Il suo presidente è proprio l’ex presidente colombiano Juan Manuel Santos, quello che firmò la pace con le Farc. «Quello che stiamo vedendo è il fallimento della politica proibizionista». È d’accordo anche un altro membro della Commissione, l’ex presidente messicano Ernesto Zedillo: «Il proibizionismo non funziona, la criminalizzazione non funziona, la repressione non funziona, la militarizzazione non funziona, e la prova di questo è nei risultati. L'uso di droghe deve essere depenalizzato e l’offerta deve essere regolata». 

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