SCIENZA E RICERCA

Peste in Cina: nessuna allerta ma attenzione ai fattori antropici

Il fatto: tre casi d’infezione da Yersinia pestis in Cina, in meno di un mese. Tutti e tre i pazienti – una coppia di contadini e un cacciatore – provengono dalla Regione Autonoma della Mongolia Interna, ma, secondo le autorità sanitarie cinesi, i due casi non sarebbero connessi tra loro.

A molti di noi una simile notizia, nel 2019, sembra inverosimile: è infatti opinione comune che la peste, così come il vaiolo, sia una malattia ormai debellata, un nome oscuro che appartiene solo al passato. Ma così non è, ed i tre casi diagnosticati a Pechino hanno riportato alla luce lo spettro della Morte Nera, mai veramente sopito nella memoria collettiva dopo la grande pandemia del XIV secolo, diffusasi fino in Europa proprio a partire dalla Cina, e che portò alla morte più di un terzo della popolazione mondiale.

Seppur con sempre minor incidenza, la peste non ha mai smesso di colpire: nel periodo 2010-2015, ad esempio, si contano nel mondo 3.248 casi di contagio e 584 morti. Numerosi, negli ultimi vent’anni, sono stati i focolai di malattia – a volte trasformatisi in vere e proprie epidemie, come nel recentissimo caso del Madagascar, dove nel 2017 si contarono 2.417 contagi, tra cui 209 casi letali.

Va inoltre ricordato che, in alcune regioni, la peste ha ancora carattere endemico: si parla di vaste aree, come l’Est asiatico, il Sud America, l’Africa – dove, ad oggi, si registra circa il 90% dei casi mondiali di peste – e, inaspettatamente, anche l’Ovest degli Stati Uniti (in particolare il New Mexico). I tre paesi in cui l’endemicità è più alta riflettono questa mappatura: si tratta, infatti, della Repubblica Democratica del Congo, del Madagascar e del Perù.

La peste è una malattia infettiva con un alto potenziale di mortalità, ed è causata da un batterio, lo Yersinia pestis, di cui sono normalmente portatrici le pulci che parassitano alcuni roditori come conigli, marmotte, topi. Le tre forme più diffuse del morbo sono quella bubbonica, quella polmonare e quella setticemica, che si differenziano tra loro per il modo in cui avviene il contagio e per gli organi che vengono intaccati. La peste bubbonica agisce infatti sul sistema linfatico; la forma polmonare può insorgere o come seconda fase di questa, o in seguito all’inalazione diretta del batterio; infine, la setticemia sopraggiunge in seguito alla diffusione del batterio nel sangue, ed è normalmente l’ultimo stadio dell’infezione.

Oggi, la malattia è curabile – nonostante mantenga un tasso di mortalità non indifferente: tra il 30 e il 70%, a seconda della tempestività delle cure – attraverso la somministrazione di antibiotici; seguendo alcune precauzioni igieniche di base, inoltre, è anche possibile ridurre al minimo il pericolo di contagio. Come per tutte le infezioni batteriche, tuttavia, si profila l’eventualità che il microrganismo sviluppi una resistenza agli antibiotici. In proposito, abbiamo chiesto l’opinione del professor Giorgio Palù, docente di microbiologia e virologia all’università di Padova e presidente della Società italiana di Virologia.

In Cina, in seguito ai recenti casi di contagio da Yersinia pestis, sono state poste in quarantena circa trenta persone che avevano avuto stretti contatti con i malati. È possibile che, se gli antibiotici vengono usati in via preventiva, il batterio sviluppi una resistenza verso di essi?

“Lo Yersinia pestis, in realtà, non è mai stato sottoposto a una forte pressione selettiva in ambito medico. Tuttavia il rischio di antibiotico-resistenza esiste, poiché esso potrebbe aver incontrato pressioni selettive nell’ambiente. Non dimentichiamo, infatti, che oggi gli antibiotici non vengono somministrati solo agli umani: sono utilizzati in zootecnia, in piscicoltura, e si ritrovano addirittura nei fertilizzanti, poiché spesso vengono usate acque fognarie per irrigare i campi. Nel caso dei batteri, a costituire un rischio reale è la loro capacità di scambiare plasmidi – cioè parti del materiale genetico – che hanno sviluppato una resistenza agli antibiotici anche tra specie e generi tra loro diversi: ciò può portare all’evoluzione di batteri multiresistenti, dai quali è difficile difendersi. L’OMS parla addirittura della possibilità che nel 2050 si verifichino più decessi dovuti a infezioni da batteri multiresistenti che dovuti al cancro. Se dunque lo Yersinia pestis sviluppasse questa resistenza – ereditabile anche da batteri semplici come Escherichia Coli – potremmo trovarci di fronte ad un problema di portata globale. A quel punto la ricerca dovrà orientarsi verso la creazione di vaccini non più solo per i virus, ma anche per i batteri”.

Un’altra questione importante, in rapporto alle malattie infettive, è la relazione tra la loro diffusione e il cambiamento climatico. Alcuni studi, infatti, affermano che, con l’aumento delle temperature, si creeranno le condizioni favorevoli ad una sempre più ampia diffusione di molti organismi (come le pulci nel caso della peste) che veicolano virus e batteri potenzialmente letali. È realistico tracciare questo collegamento?

“Senza dubbio. Abbiamo già visto in atto questa correlazione per le cosiddette arbovirosi, cioè le malattie trasmesse da vettori artropodi – tra cui vanno annoverate, appunto, le pulci. Ma l’influsso dell’uomo non si manifesta solo negli effetti immediati del cambiamento climatico. Grande impatto nella diffusione di arbobatteriosi come la peste hanno anche le abitudini di vita dell’essere umano: i viaggi e gli scambi mercantili intercontinentali, aumentati in maniera esponenziale negli ultimi decenni, non fanno che favorire una veloce ed ampia diffusione delle malattie – come è accaduto, ad esempio, nel 2003 con l’epidemia di SARS, che nel giro di pochi giorni si è diffusa dalla provincia cinese del Guandong a Montreal, in Canada. Altro fattore dalle conseguenze rilevanti è il mutamento forzato di habitat ad opera dell’uomo, come la deforestazione, e il concomitante fenomeno di inselvatichimento di zone in precedenza abitate, che vengono colonizzate da specie alloctone, potenzialmente pericolose per l’uomo stesso".

L’evento che ha fatto notizia in questi giorni non è, dunque, in sé tale da destare allarme; tuttavia, ancora una volta, attira la nostra attenzione sul profondo effetto che le attività antropiche hanno sugli equilibri naturali: abbiamo involontariamente innescato processi – come il cambiamento climatico e la “corsa evolutiva” tra antibiotici e batteri – che non siamo in grado di governare; e ne diveniamo consapevoli solo ora che iniziamo a subirne le inattese conseguenze.

 

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