CULTURA

A proposito di niente, l'autobiografia di Woody Allen

Bisogna solo dispiacersi che 1/3 della recentissima autobiografia di Woody Allen sia dedicato allo scabroso e inesistente affaire del 1993 con Mia Farrow e la loro figlia adottiva Dylan. Ma forse era inevitabile, e anche se nessun processo è mai avvenuto data l’inconsistenza dell’accusa che tutti conosciamo, su Allen si è abbattuta la tempesta perfetta e non è ancora finita. Non importa l’innocenza, è bastata l’infamia e il grande regista è finito nel libro dei paria, o meglio ‘semiparia’, come dice in questo libro, visto che ha avuto la fortuna di avere avvocati e soldi per resistere alla distruzione mediatica. Non c’è mai stato un processo, perché nessun processo poteva esserci, sono solo rimaste le accuse  della famiglia Farrow e le grane che ne sono venute. “Kafka da qualche parte sorride”, scrive Allen.

Il libro che doveva essere pubblicato dal gruppo Hachette Book  è stato boicottato a causa delle pressioni di Ronan Farrow, l’unico figlio naturale dei due, autore di successo della stessa Hachette e nemico del padre, fra l’altro Mia Farrow ha dichiarato qualche anno fa che Ronan non è figlio di Allen ma di Frank Sinatra, tanto per complicare ancora le cose. Alla fine l’autobiografia è stata stampata dalla più piccola Arcade Publishing e in Italia da La Nave di Teseo; ma le noie sono continuate, il suo ultimo film, Un giorno di pioggia a New York, non è mai stato distribuito negli Stati Uniti e il prossimo The Rifkin’s Festival, girato in Spagna, probabilmente avrà la stessa sorte. Allen ricorda la tesi principale di Guilt by accusation, un libro di  Alan Dershowitz, notissimo avvocato americano: in alcuni casi si è colpevoli solo perchè accusati di qualcosa. Derschowiz afferma che con il movimento #MeToo “the atmosphere changed dramatically. Evidence was no longer important […] the presumption shifted from innocence to guilt”. Allen è accusato sulla base di semplici affermazioni di essere un vecchio sporcaccione e molestatore della figlia adottiva.  

Probabilmente tutto nasce dopo la scoperta nel 1992 della storia con  Soon-yi Previn, figlia adottiva della Farrow e del direttore d’orchesta André Previn, scoperta naturalmente sconvolgente e da qui, secondo Allen, parte l’epica vendetta della Farrow, appunto le accuse di molestie. Senz’altro la relazione tra lui  e Soon-yi già a partire dalla differenza di età (lei è del ’70 e il regista del ’35) non è molto convenzionale ma  poteva rientrare nell’ordine delle cose; tuttavia se scegliessimo come punto d’osservazione il presente, forse saremmo meno moralisti, infatti i due sono sposati  e innamorati da più di vent’anni e hanno adottato due figlie che adesso vanno all’università. Veramente strano che i giudici abbiano affidato in adozione due bambine a un individuo accusato di essere un orco.

In A proposito di niente, si ritrova sempre il solito e immortale Allen; l’amore per New York e, dopo aver abbandonato il celebre attico in Central Park, per  la sua ultima casa nell’Upper East Side; l’odio per la campagna (Allen ricorda certo l’urbis amatorem di oraziana memoria); le sue insoddisfazioni artistiche come il non poter mai arrivare ai vertici di Bergman o Fellini, il non aver mai diretto un capolavoro come Ladri di biciclette. E allora dove mettiamo Manhattan Io e Annie, e Match Point? Ritroveremo in queste pagine le sue celebri tirate sulla vita , la morte e il nostro posto nell’universo, che potrebbero  stare a buon diritto in margine a Il mondo come volontà e rappresentazionedi Schopenhauer: “noi uomini siamo semplicemente programmati per resistere alla morte. Il sangue è più forte del cervello. Non c’è motivo logico per cui rimanere attaccati alla vita, ma chi se ne importa di quello che dice il cervello. Il cuore dice: hai visto Lola in minigonna?”

Nell’autobiografia sono diffuse le riflessioni intorno ai suoi film e al making of, su un suo certo disinteresse per i fatti formali del cinema e sull’attenzione quasi assoluta ai contenuti e alle storie da raccontare; diffusi anche i giudizi elogiativi su attori e attrici (Diane Keaton e Mia Farrow su tutti). Allen non tralascia di segnalare la sensualità, oltre che la bravura, delle attrici con cui ha avuto a che fare, osservazioni che hanno fatto saltare sulla sedia Dwight Garner, il puritanissimo recensore del New York Times (un giornale che ha abbracciato contro ogni logica le tesi dell’Allen pedofilo). Nella recensione, di inarrivabile stupidità, Garner lamenta gli apprezzamenti su Scarlett Johansson, definita “sessualmente radiottiva” ma anche “entusiasmante, intelligente, svelta e  spiritosa”, cose che in realtà pensiamo tutti e ringraziamo Allen per avercelo ricordato ancora una volta. 

Le pagine più belle e struggenti sono quelle dedicate all’infanzia e alla giovinezza a Brooklyn. I genitori della working class ebraica, le giornate al Midwood Theater dove Allen fugge dalla realtà attraverso il cinema, i velleitari ed esilaranti propositi di fare il baro o il prestigiatore, la scopertà di Manhattan e di Broadway, la radio e i programmi di Bob Hope, la cultura popolare con Batman o Flash Gordon o Mickey Spillane al posto di Julien Sorel o Raskol’nikov, insomma la New York degli anni ‘50: “scoprii l’arte quando marinavo la scuola e avevo bisogno di stare in un posto caldo: i musei erano gratis o costavano poco”. Decenni dopo, ripassando per una strada dove si trovava un cinema frequentato da giovane, lo trova demolito in attesa che venisse costruito un condominio e  ricorda che “una volta seduti proprio lì in mezzo, venivamo trasportati in città straniere che brulicavano d’intrighi, in deserti attraversati da romantici beduini, in velieri, trincee, palazzi e riserve indiane. Presto un condominio sarebbe sorto sulle macerie del Rick’s Cafè”. Non c’è niente da fare, “la forme d’une ville/ Change plus vite , hélas!,que le coeur d’un mortel” (Baudelaire).

Ecco il cinema, come sogno, fuga, luminoso surrogato del nemico per eccellenza, la realtà. Non a caso Allen cita la Blanche DuBois di Un tram che si chiama desiderio:”Non voglio realtà, voglio la magia”. Da modesto Prospero shakesperiano scrive: “E io ho sempre disprezzato la realtà e bramato la magia. Ho cercato di essere un mago, ma ho scoperto di saper manipolare solo carte e monete, e non l’universo”.  Si pensi alla celebre panchina in Riverview Terrace nella 59esima Strada di Manhattan, ebbene quella panchina non è mai esistita e, contrariamente a quanto si legge su Internet, fu messa lì dalla produzione solo il tempo di quella famossima scena tra Allen e la Keaton. 

Tra le pagine più interessanti ci  sono quelle sugli esordi della  sua carriera di formidabile battutista. La battuta, il witz elevato ad arte e genio comico, anche qui i maestri ammirati e omaggiati: Groucho Marx, Mort Sahl solo per fare qualche nome. Allen inizia prestissimo a scrivere per riviste e per la televisione (a diciotto anni guadagna il triplo di quello che guadagnano i suoi genitori); in seguito si esibirà nei locali e negli show seguitissimi come il Tonight Show di Johnny Carson e diventa uno dei più noti stand-up comedian di New York e degli Stati Uniti. Qui sarebbero servite, e non ci sono, delle note esplicative a nomi, luoghi e fatti che rimangono misteriosi al lettore italiano, p.e. che cos’è “la guerra castellamarese” che a un certo punto viene evocata dall’autore? Per nostra fortuna c’è Wikipedia. Infine il passaggio al cinema, dove però non bisognava solo far ridere ma inventare storie di uomini, donne e idiosincrasie.

A ottantaquattro anni il regista ha scritto la sua personale apologia socratica: ”Alla mia età, ormai ho poco da perdere. Non credendo in un aldilà, non vedo che cosa possa cambiare se verrò ricordato come un regista o come un pedofilo. Chiedo solo che le mie ceneri vengano sparse vicino a una farmacia”. 

No. Lunga e lucida vecchia a Woody Allen.

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