CULTURA

Puliti – La nuova scienza della pelle e la bellezza del lavarsi meno

“Cinque anni fa ho smesso di farmi la doccia”. Questo libro comincia così, e la recensora già sulla prima frase stava per metterlo via. Anche un po’ contrariata.

Ha poi letto la seconda: “O almeno, ciò che in genere si intende per doccia”.

La storia non è nuova: Fulco Pratesi, direttore del Wwf, ha spesso raccontato alla stampa di non farsi la doccia, o di farsela davvero di rado, e che comunque “fare la pipì sotto la doccia è un atto politico”. Insomma: lavarsi di meno per proteggere il pianeta, e senza particolari disagi per se stessi e perfino per la propria socialità. Ma l’autore di questo libro, James Hamblin spiega con candore di non averlo fatto solo per questo: lo ha fatto perché ha perso l’abitudine a lavarsi, non ci si è trovato tanto male, e ha voluto proseguire per vedere, sulla lunga, che effetto fa. E perché ha perso l’abitudine? Perché un giorno ha lasciato il suo comodo e ben pagato lavoro di medico per trasferirsi a New York a fare il giornalista. Ha traslocato in una casa più piccola e scomoda, si è trovato a guadagnare molto meno e ad avere molta meno libertà di gestire il proprio tempo. Qui, alla recensora sono tremate le mani. È capitato anche a lei, più volte nella vita: fa la freelance, passa intere giornate murata viva in casa, da sola, e in effetti in quei periodi si lava assai poco. Per non parlare del puerperio, quando ha battuto il suo record negativo di docce, o del primo lockdown del 2020: sola con una bambina di sei mesi (la sua), avrà fatto sì e no cinque docce in due mesi. Di notte. Quindi, ecco. Siamo onesti: questo libro non parla di una cosa poi tanto bislacca. Parla di noi.

Una precisazione: questo libro è stato scritto prima della pandemia. L’autore la menziona in una postilla aggiunta dopo, non tanto per dire che lavarsi le mani, oh, è importante per la prevenzione delle malattie. Quanto per ribadire che l’attenzione al nostro rapporto con la natura deve essere sempre alta e che l’emersione di nuovi agenti infettivi lo dimostra.

Poi il libro comincia.

È un reportage fitto, forse nemmeno tanto ordinato ma incalzante. L’autore segue le domande che il percorso verso una vita “doccia-zero” ha fatto emergere nella sua testa.

Per esempio: dopo un trattamento di bellezza si è sentito effettivamente più bello, e allora si è detto ‘perché no?’. Ma i dermatologi avvertono che un eccesso di prodotti per l’igiene può danneggiare la pelle e poi non è che a noi, uomini del ventunesimo secolo, serva davvero una grande attenzione per prevenire la maggior parte delle malattie infettive. Anzi: sulla pelle vive un microbioma complesso, nostro alleato nella prevenzione delle infezioni che ci farebbero ammalare. E quegli orrendi acari che vivono nei nostri pori in fondo non fanno altro che garantirci un perpetuo trattamento esfoliante gratuito. E allora?

Allora vale la pena chiederci come e perché abbiamo sviluppato, in tempi recenti, tanta ossessione per un’igiene che, alla lunga, può perfino danneggiarci.

La questione è profondamente radicata nei nostri istinti: noi esseri umani viviamo in bilico tra il bisogno di socialità e la necessità di proteggerci, e il disgusto è un meccanismo utile ad allontanarci da chi potrebbe contagiarci con una malattia. A un certo punto maturiamo la paura di essere noi a disgustare gli altri, e per non compromettere la nostra socialità cominciamo a lavarci.

Poi, certo, c’è altro: i belli attirano più potenziali partner e comunque in generale stanno meglio con se stessi. E l’igiene, per secoli cioè fino a che non è diventata materia scientifica, ha avuto a che fare più con la bellezza che con la salute. Verosimilmente nessuno di noi oggi si immergerebbe a cuor leggero in una vasca termale senza clorazione e piena di antichi romani e nessun europeo di oggi sarebbe felice di condividere camera da letto, bagno e cucina con un suo antenato di mille anni fa (altra cosa per altri popoli e culture, ma non perdiamo il filo). Cioè noi occidentali per millenni non ci siamo lavati oppure ci siamo lavati pensando solo all’estetica. Quindi a un certo punto della storia i fattori culturali devono essere diventati più importanti di quelli istintivi. Per poi tornare ad allinearsi a fine Ottocento con la scoperta dei germi. Ecco che siamo tornati lì: lavarsi per essere apprezzati in società e non passare da sudicioni che attaccano le malattie. Ma forse poi la cosa ci è scappata di mano.

Hamblin incontra diversi personaggi. Uno storico del sapone che gli racconta le leggende su come sarebbe stata scoperta la reazione chimica che permette di produrlo e le avventurose storie degli industriali di fine Ottocento che inventano saponette, marketing e battaglie pubblicitarie sulla pelle dei clienti, e perfino sceneggiati che hanno dato vita alle soap opera e hanno inciso sui nostri immaginari più di quanto crediamo. E poi medici, ricercatori, giornalisti, industriali, attivisti, influencer. Racconta le magagne delle legislazioni e dei controlli sui cosmetici e i prodotti di bellezza (parlano di “purezza” ma è un settore decisamente poco trasparente). Riflette a lungo sul nostro rapporto, sia fisico sia culturale, con i germi e sulle teorie scientifiche per cui a difenderci non sono tanto i cosiddetti “batteri buoni” quanto la loro biodiversità, che entra in relazione con il nostro sistema immunitario e con la sua enorme complessità. Insegue detergenti antimicrobici, probiotici, idratanti, discute di igiene post-defecazione e di igiene pubblica e collettiva.

E conclude proponendo la sua definizione di “pulizia”, che torna al punto di partenza e si rifà al nostro essere in bilico tra socialità e protezione: è “pulizia” l’equilibrio tra igiene mirata, e ragionata, e il nostro bisogno di contatto col mondo.

Adesso, tutti a lavarsi le mani.

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