SOCIETÀ

La radicalizzazione dello scontro Israele-Gaza: le vittime e la diplomazia fallimentare

Ci sono i bombardamenti, i missili che cadono a pioggia, che distruggono edifici e vite umane come se avessero lo stesso valore. E quasi sempre si tratta di vittime civili, di donne e di bambini che non avrebbero mai voluto giocare alla guerra. Poi ci sono le parole di chi l’ha voluta questa guerra, di chi la ostenta come una medaglia, ringhiando di “morale” e di “giustizia” di fronte alle telecamere, con la colpa che è sempre degli altri, sempre. Quasi con la soddisfazione di aver finalmente avuto un pretesto per sfogare una rabbia profondissima, repressa finora controvoglia, più per convenienza (politica o religiosa) che per convinzione. E naturalmente ci sono quelle terre, d’Israele e di Palestina, che sembrano sempre più dannate, altro che sante. C’è una comunità internazionale che assiste ora sgomenta, ora partecipe, ora schierata, ora distratta, ma che comunque osserva senza intervenire, senza avere la minima capacità d’incidere per tempo sul corso degli eventi, di far pesare il valore dei trattati internazionali, che dovrebbero essere l’unica bussola ad orientare le convivenze (pur delicate e complesse, come questa). C’è il terrorismo, che qualcuno ritiene sia l’unica voce, l’unico strumento rimasto per farsi sentire. Ma c’è anche l’occupazione di terre altrui, una deprivazione sistematica di spazi e di dignità che da decenni, non trovando soluzioni, fa covare e moltiplicare rabbie e rancori. Uno sterminio a cielo aperto, in una sproporzione delle forze in campo che fa orrore. Evidentemente c’è chi crede che questo groviglio di torti e di ragioni, di legittime speranze e di sopraffazioni, possa essere sciolto soltanto diluendolo nel sangue. E nessuno che, negli ultimi decenni, abbia avuto la statura per imporre il ritorno della ragione. Qualcuno ha tentato (Rabin, Clinton, destini diversi), ma il risultato non è mai arrivato. Oggi, fuori da quelle terre, l’attenzione è massima, perché il rischio è altissimo per la sicurezza di tutti. Perciò prudenza: al massimo si parteggia, per una parte o per l’altra (e spesso la solita convenienza, l’ipocrisia, prevale sulla convinzione). In una radicalizzazione dello scontro che sembra quasi impedire uno sguardo “terzo”: presentare anche soltanto una delle ragioni dell’una o dell’altra parte equivale a schierarsi, a mettersi una divisa, compreso il sangue di cui sono macchiate.

Il risultato di questa “politica” sta riempiendo da giorni le cronache. L’antefatto è noto: la minaccia di sfratto per 5 famiglie palestinesi (30 adulti, 10 bambini) dalle loro case di Sheikh Jarrah, un quartiere della parte Est di Gerusalemme, sulle quali i coloni israeliani rivendicano un diritto. E la legge israeliana consente soltanto agli ebrei (ma non ai palestinesi) di reclamare antiche proprietà possedute prima del 1948, nonostante quelle stesse famiglie avessero ricevuto dalla Giordania (che al tempo governava la Cisgiordania e Gerusalemme Est, fino al 1967, alla Guerra dei Sei Giorni) degli atti ufficiali che ne dimostravano la proprietà. La pronuncia della Corte Suprema israeliana, che ha ordinato lo sfratto (poi rimandato), ha innescato violenti scontri tra manifestanti palestinesi (il timore è che si tratti di un primo passo per cacciarli da Gerusalemme Est) e le forze di sicurezza israeliane, che si sono trascinati fino alla Spianata delle Moschee, luogo sacro per le tre religioni monoteiste, l’Ebraismo, l’Islam e il Cristianesimo: con centinaia di feriti, ma soprattutto con l’intervento delle truppe israeliane, che hanno di fatto preso in carico il controllo dell’area. Hamas (il gruppo terroristico che governa la Striscia di Gaza) l’ha considerato un affronto e ha lanciato razzi contro Israele, verso Tel Aviv (uno degli obiettivi era l’aeroporto Ben Gurion) e nel sud. Il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha dichiarato: «Se Israele vuole un'escalation, la resistenza è pronta, se vuole fermarsi siamo pronti anche noi». Ma Netanyahu non si è fermato, anzi.

La guerra “giusta” di Netanyahu

Dall’inizio della nuova fiammata di scontri (10 maggio) si calcola che da Gaza siano stati lanciati verso Israele circa 3000 missili, molti di fabbricazione iraniana (circa 500, difettosi, sono caduti a poca distanza, senza colpire bersagli, altri mille intercettati dal sistema antimissile israeliano “Iron Dome”). Colpiti soprattutto edifici residenziali, con un bilancio di 10 morti (8 civili, tra i quali un bimbo di 5 anni), e quasi 300 feriti. Di contro, la risposta israeliana è stata feroce: un’offensiva massiccia da cielo e da terra (l’arsenale israeliano non è nemmeno paragonabile a quello di Hamas), con bombardamenti a tappeto, quasi duecento le vittime, tra i quali 58 bambini e 34 donne (ma il conteggio è in rapidissima evoluzione). «Israele continuerà a fare tutto quanto in suo potere per evitare vittime civili», ha detto il premier israeliano Netanyahu in una conversazione telefonica con il presidente americano Biden. Dopo aver però rimarcato che «Hamas prende di mira deliberatamente i nostri bambini e posizionano i loro razzi accanto ai loro figli». Lo stesso Netanyahu ha definito nelle ultime ore l’operazione militare contro Gaza «giusta e morale: siamo vittime di un attacco totalmente non provocato. Nessun paese lo tollererebbe, Israele non lo tollererà. Questa operazione continuerà per tutto il tempo necessario». E ancora: «La colpa non è nostra, ma di chi ci attacca». Tra i vari obiettivi colpiti e distrutti sabato scorso dalle forze armate israeliane a Gaza City, anche il grattacielo al-Jala, dodici piani, sede tra l’altro degli uffici di corrispondenza di Associated Press e di Al Jazeera. L’esercito ha ribadito che si trattava di un “obiettivo legittimo”, perché ospitava uffici militari di Hamas, e che comunque aveva avvisato i civili di andarsene prima dell’attacco (ma ai giornalisti non è stato consentito di rientrare negli uffici per prendere le telecamere). Gary Pruitt, presidente e amministratore delegato dell’Ap, si è detto "inorridito" per quanto accaduto. Diversi giornalisti negli ultimi giorni avevano dormito negli uffici considerandoli come “luogo sicuro e al riparo dagli attacchi”. In una nota la stessa Associated Press ha precisato: «Non ci risulta che Hamas fosse attivo nell’edificio». La Casa Bianca, pur ribadendo la vicinanza a Israele e la condanna per gli attacchi terroristici, ha espresso “preoccupazione per la sicurezza e la protezione dei giornalisti”. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ricordato a tutte le parti che «qualsiasi attacco indiscriminato contro le strutture civili e dei media viola il diritto internazionale e deve essere evitato a tutti i costi».

Intanto a Gaza è guerra. Mentre proseguono, sempre più duri, i raid degli aerei da guerra israeliani, gli abitanti hanno lasciato le loro case per rifugiarsi nelle scuole, nelle moschee, nei luoghi ritenuti meno a rischio. Nella Striscia non c’è più elettricità: sono esaurite le scorte di carburante per la centrale elettrica. Le bombe hanno danneggiato anche un ospedale di Medici Senza Frontiere, mentre un cratere s’è aperto nella strada che porta all’ospedale di Shifa. L’Egitto ha riaperto il valico di Rafah, unico collegamento con l’esterno non controllato da Israele, e inviato sedici ambulanze nell’enclave palestinese per evacuare e curare nei propri ospedali i feriti (sono migliaia) nei bombardamenti. Secondo i soccorritori ci sono famiglie ancora bloccate sotto le macerie delle loro case distrutte. Il segretario generale dell’Onu, Guterres, ha detto che il conflitto israelo-palestinese si sta dirigendo «verso una gravissima crisi umanitaria».

No alla tregua: a chi giova il conflitto

Secondo fonti diplomatiche si continua a trattare su un cessate il fuoco, che Hamas aveva già offerto nei giorni scorsi, incontrando il no di Israele: «Non è ancora il momento», era stata la risposta. «Aspettiamo che l’IDF (Israel Defence Force) completi le missioni contro Hamas». Ma a quanto pare sta crescendo, anche in seno al governo (cronicamente dimissionario) in Israele, un fronte favorevole alla fine delle ostilità (tra i quali ci sarebbe anche il ministro della Difesa, Benny Gantz). E quanto sta accadendo ha un riflesso di assoluto rilievo anche sulla politica interna israeliana: non c’è dubbio che l’attuale situazione, pur rischiosa, favorisca Netanyahu: l’escalation di violenza ha di fatto bloccato qualsiasi trattativa per la costituzione di un esecutivo che escludesse proprio l’attuale premier (il presidente Ravlin aveva affidato l’incarico, dopo il fallimento del leader del Likud, al leader dell’opposizione Yair Lapid). Un governo che avrebbe dovuto e potuto contare su un appoggio (almeno esterno) di un partito della minoranza araba. L’unico (breve) precedente del genere risale al 1995, durante il processo di pace di Oslo, osteggiato dalla destra nazionalista che oggi, e da molti anni, guida il paese. L’omicidio di Rabin, per mano di un colono ebreo estremista, e la cieca violenza del terrorismo di Hamas e Jihad Islamica, che Arafat non riuscì ad arginare, mise fine a quella stagione. E questa nuova fiammata di guerra farà probabilmente naufragare qualsiasi ipotesi di governo che escluda il Likud, che a sua volta non riesce a formarlo. Quindi, ancora una volta, è probabile che si andrà a elezioni: le quinte in due anni. Risultato migliore, per “king Bibi”, non potrebbe esserci. Yair Lapid ha compreso il pericolo: «Quanto sta accadendo non può essere una scusa per mantenere Netanyahu e il suo governo al loro posto. Al contrario, sono esattamente il motivo per cui dovrebbe essere sostituito prima possibile».

Ma intanto la tensione cresce. Come la fibrillazione internazionale, con l’Egitto (assieme a Giordania e Qatar) sempre più impegnato (ma con risultati finora deludenti) nel ruolo di mediatore tra le parti. Il presidente americano Biden ha sentito al telefono anche il presidente dell'Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, al quale ha ribadito l’impegno “a riportare la calma”. Un colloquio non gradito dagli analisti israeliani, che accusano il presidente americano per non aver preso una posizione netta e risoluta contro “il partito che diffonde violenza e odio, l’Autorità Palestinese”. Mentre si allarga il fronte anti-Israele. Il leader turco Erdogan ha definito Israele “uno stato terrorista”, invocando l’intervento dell’Onu per arrivare a un cessate il fuoco. Anche il ministro degli esteri dell'Arabia Saudita ha accusato lo stato ebraico di flagranti violazioni contro i palestinesi. Mentre Putin osserva con attenzione la situazione, sostenendo che l'escalation israelo-palestinese rappresenta una minaccia concreta per la sicurezza della Russia.

Gli Usa di traverso: bloccata la risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu

Anche ieri pomeriggio il Consiglio di Sicurezza dell’Onu non è riuscito a trovare l’unanimità necessaria per concordare una dichiarazione pubblica. La Cina, presidente di turno, ha accusato gli Stati Uniti di bloccare un appello volto ad allentare le tensioni a Gaza. La maggioranza dei Paesi era a favore di un documento che chiedeva la cessazione immediata delle ostilità, ma l’opposizione degli Stati Uniti, quasi a rimarcare l’appoggio a Israele, non ha permesso di raggiungere una posizione comune. L'ambasciatrice statunitense Linda Thomas-Greenfield ha dichiarato: «Il bilancio umano della scorsa settimana è stato devastante», aggiungendo poi che l’amministrazione Biden «sta lavorando attraverso i canali diplomatici per cercare di porre fine a questo conflitto». Durante la riunione è intervenuto il ministro degli Esteri palestinese Riad Al Malki, usando parole durissime: «Israele sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l'umanità» - ha scandito. «Alcuni non vogliono usare queste parole, ma sanno che sono vere. E ricordatevi: ogni volta che Israele sente un leader straniero parlare del suo diritto di difendersi, è ulteriormente incoraggiato a continuare a uccidere intere famiglie nel sonno. Quanti civili palestinesi uccisi sono abbastanza per avere una condanna? Qual è la soglia per l'indignazione? La nostra gente non si arrenderà o dimenticherà i propri diritti, la libertà della Palestina è la sola via per la pace. E visto che la pace è responsabilità di questo Consiglio aiutateci a raggiungere la libertà della Palestina». Per Israele ha risposto l’ambasciatore israeliano presso l’Onu, Gilad Erdan: «Hamas ha scelto di enfatizzare le tensioni, usate come pretesto per cominciare questa guerra», ha dichiarato l’ambasciatore, ribadendo che «non ci sono giustificazioni per il lancio alla cieca di razzi contro i civili. Inoltre, i palestinesi usano scudi umani, aumentando così il numero delle vittime civili. Israele non aveva altra scelta che rispondere agli attacchi per farli cessare».  Domani si terrà un vertice straordinario dei ministri degli Esteri dell’Unione Europea.

Poche ore prima, durante l’omelia a piazza San Pietro, Papa Francesco aveva lanciato il suo monito: «Si fermi il frastuono delle armi», ha detto il Papa. «Tanti innocenti sono morti in queste ore. Tra di loro ci sono anche i bambini, e questo è terribile e inaccettabile. La loro morte è segno che non si vuole costruire il futuro, ma lo si vuole distruggere. Mi chiedo: l’odio e la vendetta dove porteranno? Davvero pensiamo di costruire la pace distruggendo l’altro?». E crescono le voci di dissenso, anche degli intellettuali, che non hanno “peso diplomatico” ma sono la spia di malessere, di un’insofferenza. Durissime le parole scelte da Moni Ovadia, attore e scrittore di origine ebraica: «La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. E la comunità internazionale è di una parzialità ripugnante. Tutto questo con lo sterminio degli ebrei non c'entra niente, è pura strumentalizzazione. Io sono ebreo, anch'io vengo da quel popolo. Ma la risposta all'orrore dello sterminio invece che quella di cercare a pace, la convivenza, l'accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? La pace si fa “tra eguali”, non è un diktat come vorrebbero gli israeliani». Secondo un altro, notissimo scrittore israeliano, David Grossman, «la violenza fra arabi israeliani ed ebrei è orribile: spezza ogni idea di coesistenza, la speranza di vivere l’uno accanto all’altro». Il Washington Post riporta proprio una sua citazione: “Ho una brutta sensazione - scriveva Grossman -. Temo che la situazione attuale continuerà esattamente come è per altri dieci o vent'anni. C’è un'eccellente garanzia di ciò: l’idiozia umana e il desiderio di non vedere il pericolo che si avvicina”. Scrive il giornale statunitense: «Sono passati 30 anni e Grossman ha ancora ragione».

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