SCIENZA E RICERCA

Una rete ecologica globale per salvare il futuro della vita

Crisi climatica e crisi ecologica sono inscindibilmente legate l’una all’altra, e avanzano rapidamente su traiettorie parallele. Il 2020 – che avrebbe dovuto essere un anno di svolta nell’impegno globale per il clima – è stato un anno di tristi record, in cui si sono susseguiti incendi, temperature ben più alte delle medie stagionali, eventi climatici estremi.

Con il 2021, si inaugura un decennio cruciale per l’attuazione degli impegni di mitigazione della crisi ambientale sottoscritti più di cinque anni fa da 192 Paesi, con la firma degli accordi di Parigi. Secondo gran parte della comunità scientifica, infatti, i prossimi anni rappresentano l’ultima concreta possibilità di invertire la tendenza e di evitare che si superino i famigerati “punti di non ritorno” oltre i quali si ritiene che i complessi sistemi climatici ed ecologici che, finora, hanno regolato gli equilibri della biosfera possano andare fuori controllo.

Finora – è il caso di ricordarlo – non si è fatto abbastanza: dei target dell’Agenda 2030 in scadenza nel 2020, pochi sono stati rispettati; la medesima sorte è toccata agli Aichi Targets per la tutela della biodiversità. Il volume delle emissioni di gas climalteranti continua ad aumentare di anno in anno, e i piani di riduzione delle emissioni, varati recentemente da diversi Paesi, sono giudicati dagli scienziati non sufficienti per raggiungere la neutralità climatica in tempi brevi. Eppure, le soluzioni sono disponibili da tempo: la comunità scientifica ha fornito dati, conoscenze e strategie d’azione sufficienti. È compito della politica e delle istituzioni, dunque, raccogliere il testimone.

L'intervista completa a Eric Dinerstein e Michele Sofisti. Montaggio di Elisa Speronello

Un segnale incoraggiante arriva (sorprendentemente) dagli Stati Uniti: il neo-eletto presidente Biden ha, infatti, da poco presentato un piano di protezione della biodiversità che prevede di porre sotto tutela il 30% della terra e del mare statunitensi entro il 2030. Biden segue, così, le orme di altri Paesi che stanno adottando questa strategia: si tratta della High Ambition Coalition for Nature and People (HAC), un gruppo non ufficiale di nazioni – ad oggi circa 50 – che hanno assunto l’impegno di proteggere almeno il 30% degli ecosistemi marini e terrestri entro i prossimi dieci anni.

Questa iniziativa sorge da una proposta scientifica ben strutturata e molto pragmatica, formalizzata in uno studio presentato su Science Advances, in cui si prospetta la possibilità di realizzare un Global Safety Net, cioè una rete globale di aree protette, che dovrebbe arrivare a comprendere, entro il 2030, circa il 50% delle terre emerse. A guidare lo studio è stato Eric Dinerstein, biologo esperto di conservazione, attualmente direttore del “Programma per la Biodiversità e le Soluzioni per la Natura” della ONG Resolve. Dinerstein dialoga con il Bo Live insieme a Michele Sofisti, geologo, in passato amministratore delegato di grandi aziende e oggi Advisor per Resolve e referente di Resolve Europe.

«Il futuro dell’umanità è oggi insidiato da quattro minacce esistenziali», esordisce Dinerstein. «La prima è sotto gli occhi di tutti: si tratta della crisi climatica. La seconda è la crisi della biodiversità: siamo nel pieno della sesta estinzione di massa nella storia della Terra. La terza è strettamente legata alle prime due: le specie che si estinguono, infatti, non sono isolate, ma vivono in un contesto ecologico – e molti ecosistemi si stanno avvicinando al collasso. Infine c’è la pandemia, anch’essa di natura ecologica, e correlata alle precedenti. Dobbiamo trovare soluzioni che permettano di affrontare tutte queste minacce contemporaneamente, e non solo una per volta: è questa l’esigenza alla base del progetto del Global Safety Net».

Vorrei poter affermare che abbiamo molto tempo a disposizione, ma non è così. Ci restano soltanto dieci anni, e non abbiamo scelta Eric Dinerstein

Attualmente è zona protetta il 15,1% degli ecosistemi terrestri: sulla base delle evidenze scientifiche raccolte, il gruppo di ricerca guidato da Dinerstein evidenzia come sia necessario, per fermare la crisi della biodiversità e per stabilizzare il clima, porre sotto tutela un ulteriore 35,3% in pochi anni, realizzando l’obiettivo di proteggere “metà della Terra” già delineato da Edward O. Wilson. Vi è una motivazione precisa per cui gli autori si concentrano sugli ecosistemi terrestri, piuttosto che su quelli acquatici: proteggere ambienti ancora totalmente o parzialmente intatti permetterebbe di salvaguardare la biodiversità locale – in particolar modo le specie rare e a rischio di estinzione –, garantendo così l’equilibrio degli ecosistemi, che continuerebbero a fornire quei servizi ecosistemici che, come nel caso del sequestro di anidride carbonica, sono uno strumento indispensabile per fermare o rallentare il cambiamento del clima.

Nell’articolo sono individuati tre obiettivi: conservare la diversità e la ricchezza della vita sulla Terra; aumentare sequestro e stoccaggio di anidride carbonica; la creazione di corridoi di collegamento tra le aree naturali protette. «Perché proprio il 50%? Perché, se vogliamo che la vita sulla Terra continui a prosperare, non dobbiamo superare i famosi 1,5° C di aumento annuale medio della temperatura a livello globale. Per far sì che ciò non accada, la natura offre soluzioni; ma è necessario che gli habitat naturali restino intatti, perché continuino a prelevare anidride carbonica dall’atmosfera», spiega Dinerstein. «Non abbiamo bisogno di far ricorso a complicate e costose tecnologie, perché il sistema più efficiente di sequestro del carbonio è già esistente in natura: è l’albero. Il nostro compito, dunque, è proteggere questa tecnologia naturale, lasciando che la vegetazione cresca, anche recuperando le zone deforestate. Nel nostro studio, abbiamo creato una mappa nella quale sono individuati gli ecosistemi che contribuiscono in misura maggiore a sequestrare dall’atmosfera i gas serra: questi devono essere posti sotto protezione più velocemente, e con maggior vigore.

Vorrei poter affermare che abbiamo molto tempo a disposizione, ma non è così. Ci restano soltanto dieci anni, e non abbiamo scelta. Abbiamo procrastinato, abbiamo reagito con lentezza a queste minacce esistenziali: il tempo utile per agire è ormai ridotto al minimo».

Il Global Safety Net consente di attuare un approccio olistico, che affronti in maniera organica le varie dimensioni del problema. Come si sottolinea nell’articolo di Science Advances, infatti, la coincidenza spaziale di aree importanti sia per la conservazione della biodiversità sia per lo stoccaggio di anidride carbonica è ampiamente confermata, e dunque “incentrare gli sforzi di conservazione soprattutto sulle regioni che registrano un alto tasso di ß-diversità [il numero di specie rare, endemiche e uniche di un habitat], sugli habitat dei grandi mammiferi, sulle aree incontaminate e sulla natura selvaggia darebbe ottimi risultati anche sul fronte della stabilità climatica” (p. 7).

A chi sottolinea le difficoltà di realizzare un simile progetto entro pochi anni e con il coinvolgimento di tutti gli attori politici globali, Dinerstein risponde: «Non siamo ingenui: siamo ben consapevoli degli ostacoli. Tuttavia, mettendo in pratica alcune azioni chiave potremmo effettivamente raggiungere la stabilità climatica entro il 2030. La strada è tracciata. Inoltre – e questo è ancora più entusiasmante – il piano d’azione da noi tracciato non ha costi proibitivi: secondo le stime, saranno necessari investimenti del valore di 100-500 miliardi di dollari l’anno. Sembrano cifre enormi, e sicuramente è più di quanto si sia mai speso per politiche ambientali, ma, se paragonate a quanto stiamo spendendo per arginare l’attuale pandemia, si tratta di somme irrisorie.

Il punto essenziale è che anche la pandemia è una conseguenza della nostra distruttiva interazione con il mondo naturale. Sappiamo che, nel prossimo futuro, vi saranno altre pandemie di origine zoonotica. Dal 2000, almeno quattordici virus hanno compiuto il “salto di specie” da animali serbatoio all’uomo, e più continueremo a radere al suolo le foreste tropicali, togliendo agli animali il proprio habitat naturale e costringendoli ad un contatto sempre più ravvicinato con l’uomo, più questi fenomeni saranno frequenti».

Non ci sarà alcun mercato nel quale investire, tra venti o trent’anni Eric Dinerstein

L’appello di Dinerstein e colleghi è una chiamata alle armi rivolta agli Stati e alle istituzioni internazionali. Secondo la scienza, i prossimi dieci anni sono l’ultima chance: questa volta non si può fallire. A tal proposito, Dinerstein e Sofisti sono ottimisti: «La politica si sta finalmente muovendo nella giusta direzione – afferma il primo –, e vedere molti Paesi impegnarsi per proteggere il 30% delle loro terre in dieci anni è già un segnale positivo, anche se ancora non sufficiente. Un grande passo verso la costruzione del Global Safety Net sarebbe, ad esempio, l’inaugurazione di una reale collaborazione con le comunità indigene: le nostre mappe mostrano chiaramente come proprio nei territori delle popolazioni indigene i tassi di sequestro di anidride carbonica sono altissimi, segno del benessere degli ecosistemi locali. Se alle comunità indigene venisse riconosciuta la possibilità di gestire autonomamente i propri territori si garantirebbe, in pochissimo tempo, la realizzazione del 43% della rete di protezione globale».

A lavorare per questo obiettivo non devono essere solo gli Stati: è essenziale che sia coinvolto anche il settore privato, i cui capitali costituirebbero una garanzia di successo. È quanto sostiene Michele Sofisti, che argomenta: «Il comparto privato fonda le proprie strategie di marketing sulla comunicazione: ma è proprio questa che manca, nella comprensione dell’enormità del problema ambientale. Se riusciremo a deviare anche solo una piccola parte degli investimenti del settore privato in favore della causa ambientale, potremo salvare il futuro della vita. Più investimenti, dunque, e soprattutto un impegno costante, da parte delle aziende ma anche da parte delle persone comuni. I cittadini sono elettori, ed è essenziale che prendano consapevolezza dell’urgenza della questione e votino per politici realmente dediti alla causa della salvaguardia del mondo naturale».

Dinerstein conclude: «Non ci sarà alcun mercato nel quale investire, tra venti o trent’anni: ora, dobbiamo tutti investire nel nostro futuro. La trama stessa della vita si sta disfacendo: è giunto il momento che anche le grandi aziende lo capiscano, e che si rendano conto di avere un ruolo centrale nel contribuire alla ricostruzione».

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