SCIENZA E RICERCA

La ricerca in Nord America

Nel 2018 il mondo ha investito in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) 2.246,43 miliardi di dollari. Il dato, di cui Il Bo Live ha già riferito, è stato reso pubblico dal R&D Magazine ed è stato calcolato a parità di potere di acquisto delle monete. La rivista specializzata americana propone un’analisi articolata della fiducia che le grandi aree geografiche del mondo pongono nella ricerca, di cui la quantità degli investimenti è un ottimo (ma non unico) indicatore. Il Bo Live riproporrà questa analisi differenziata iniziando dal Nord e Centro America, dove risiede il paese che continua a investire più di ogni altro al modo in R&S: gli Stati Uniti d’America.

Questa metà delle Americhe ha investito in totale 613,03 miliardi di dollari nel 2018, pari al 27,3% degli investimenti globali. È una cifra, in crescita, superiore a quella dell’intera Europa (Russia esclusa), che nel 2018 ha investito 463,63 miliardi di dollari. E, tuttavia, è una cifra inferiore agli investimenti complessivi dell’Asia: che di dollari ne ha messi sul tavolo 977,84 miliardi

Dunque il Nord America è seconda tra le grandi aree geografiche del mondo. Lo è da molti anni, ormai. Perché stabilmente superata dall’Asia. Ma la tendenza è verso una diminuzione del peso specifico. Nel senso che gli investimenti in Asia aumentano a un ritmo decisamente superiore a quello del Nord e Centro America.

Ora quando parliamo di quest’area ci riferiamo essenzialmente agli Stati Uniti, che con 565,76 miliardi di dollari investiti nel 2018 rappresentano il 92,3% della spesa complessiva del Nord e Centro America. Seguono molto da lontano il Canada e il Messico, che hanno investito rispettivamente 32,42 e 12,31 miliardi di dollari: pari al 7,3% degli investimenti complessivi dell’area. I restanti nove paesi, tutti del Centro America, hanno investito complessivamente 2,54 miliardi di dollari, pari allo 0,4% della spesa complessiva dell’area

La sproporzione tra il primo (USA) e il secondo (Canada) non deve indurre a una percezione errata. Con i suoi 32,42 miliardi di dollari, il Canada si pone all’undicesimo posto nel mondo: davanti all’Italia, che risulta ormai al quattordicesimo posto con una spesa di 29,74 miliardi di dollari.

Il Messico è invece al venticinquesimo posto nel mondo, con investimenti in R&S che non superano lo 0,50% del Prodotto interno lordo (PIL), centro l’1,80% del Canada e il 2,84% degli Stati Uniti. Che dunque sono primi nell’area non solo per investimenti assoluti, ma anche per investimenti relativi. 

Veniamo, dunque, agli Stati Uniti. La fiducia nella ricerca, se misurata con il dato quantitativo degli investimenti, è di antica data ed è piuttosto stabile: gli USA di alcuni decenni spendono in R&S tra il 2,5 e il 3,0% del proprio Prodotto interno lordo. Per oltre i due terzi sono investimenti privati e per un po’ meno di un terzo investimenti pubblici. E da molti decenni (quelli successivi alla Seconda guerra mondiale) gli Stati Uniti sono primi al mondo non solo per investimenti, ma anche per qualità della ricerca (si veda a titolo di esempio il numero di premi Nobel scientifici vinti da ricercatori che lavorano negli USA) e per intensità di innovazione tecnologica. 

È su questa base che gli Stati Uniti nel dopoguerra hanno stabilito la loro leadership militare, economica e (per certi versi), anche culturale nel mondo. 

Tuttavia il contesto sta cambiando. Ora altre aree del pianeta stanno seguendo la “ricetta americana”. Tanto che si prevede che nel giro di pochi anni gli USA perderanno il primato di paese che investe di più in R&S a vantaggio della Cina. Ed è con questa chiave di lettura che molti analisti interpretano la competizione crescente tra il paese egemone (USA) e il paese emergente (USA). Che è una competizione economica e militare certo, ma generata da quella scientifica e tecnologica.

Gli USA non vogliono perdere la leadership scientifica nel mondo, la Cina vuole acquisirla. 

Non sappiamo come finirà questa gara. È certo, però, che in questo momento sta guidando i processi geopolitici (compresi quelli militari) e geoeconomici del pianeta.

Ma non c’è solo competizione, nel mondo. C’è anche collaborazione. Un indicatore è il crescente tasso di internazionalizzazione della ricerca. Sono sempre più i progetti scientifici condotti da gruppi di ricercatori appartenenti a svariati paesi. A questo processo partecipano sempre più gli asiatici, che vincendo antiche ritrosie (del Giappone, della stessa Cina) si stanno aprendo al resto del pianeta.

Alcuni guardano con sospetto a questo processo. Il timore è che i paesi che non appartengono al “mondo occidentale” possano sfruttare l’internazionalizzazione per “spiare” e acquisire in maniera fraudolenta le nuove conoscenze che non saprebbero produrre.

In realtà, spiegano gli esperti dell’R&D Magazine, gli Stati Uniti (e l’intero occidente) hanno da guadagnare da questa crescente integrazione della ricerca condotta nel mondo. E non solo nella ricerca di base (più persone lavorano insieme, maggiore è la probabilità di giungere a scoprire cose nuove), ma anche nelle applicazioni tecnologiche. L’R&D Magazine fa alcuni esempi: l’innovazione nel settore automobilistico del Giappone ha indotto le aziende americane a produrre macchine più efficienti, più facili da guidare e meno costose

Ma a guadagnare non sono solo gli USA, La ricerca chimica in Cina, sostengono gli analisti della rivista americana, sta consentendo di produrre sostanza chimiche di base con minore inquinamento, maggiore qualità e minore utilizzo di risorse naturali. Allo stesso modo la ricerca made in USA in campo informatico produce benefici per tutti e consente di accelerare in ogni area del pianeta i processi di innovazione tecnologica. E anche la ricerca nel campo delle scienze agrarie consente di mettere a punto tecniche che potranno contribuire a combattere la fame nei paesi meno sviluppati.

Certo, in questa analisi sembra mancare un fuoco sulle disuguaglianze che la produzione di nuova conoscenza sta producendo. Quelle disuguaglianze per cui il Premio Nobel (americano) per l’Economia Joseph Stiglitz parlava già molti anni fa delle «promesse infrante della globalizzazione». 

E tuttavia è certo che gli Stati Uniti continuano a essere i leader nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica. È altrettanto certo – lo dicono gli economisti e lo dice la storia – che la produzione di nuova conoscenza è un fattore primario di sviluppo, economico e non. La speranza è che la competizione tra i giganti non assuma caratteristiche tali da far regredire e il processo di collaborazione (leggi internazionalizzazione della ricerca) e le politiche ancora troppo timide di redistribuzione dei benefici prodotti dalla scienza. Perché, come sosteneva Francis Bacon all’inizio della rivoluzione scientifica del Seicento, lei, la scienza, non deve essere a vantaggio di questo o di quello, ma dell’intera umanità. 

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