Nel mondo sono circa 23 milioni le persone che soffrono di schizofrenia, un disturbo mentale a cui sono purtroppo associati una serie di pregiudizi e stereotipi che alimentano lo stigma nei confronti di chi ne soffre. Lo stigma pubblico costituisce un ostacolo alla cura dei problemi mentali, perché scoraggia la ricerca di aiuto da parte di chi ne soffre e limita l'aderenza alle cure. Eppure, afferma l'OMS, “non c'è salute senza salute mentale”. Per questo motivo, promuovere una narrazione meno stigmatizzata e più inclusiva delle persone con psicopatologie è compito non solo dei professionisti e delle professioniste della salute mentale, ma anche delle scuole e dei mass media.
In questo senso, il film Mio fratello mia sorella, uscito su Netflix nell'ottobre 2021 e diretto da Roberto Capucci, rappresenta un tentativo virtuoso. La Società italiana di psichiatria ha contribuito direttamente alla realizzazione di questo lungometraggio offrendo la sua consulenza scientifica. Mio fratello, mia sorella, infatti, riesce ad abbattere, nel suo piccolo, alcuni dei principali stereotipi che colpiscono le persone con schizofrenia, come ad esempio la pericolosità, l'incapacità di intendere e di volere e l'irresponsabilità.
Il primo passo per abbattere lo stigma verso le patologie mentali è diffondere la conoscenza a riguardo. Per questo motivo, in questa puntata di In salute, abbiamo parlato di schizofrenia insieme a Paolo Santonastaso, professore di psichiatria all'università di Padova e già direttore dell'Unità operativa complessa di clinica psichiatrica dell'Azienda ospedaliera di Padova.
“Il concetto di schizofrenia nasce all'inizio del Novecento grazie agli studi di Emil Kraepelin, psichiatra tedesco che propone di riassumere in un'unica sindrome le descrizioni di alcuni diversi quadri psicopatologici che erano stati identificati fino a quel momento”, racconta il professor Santonastaso. “Kraepelin definisce questa sindrome con il nome di demenza precoce, poiché i sintomi che la caratterizzano sembrano essere associati a un processo di involuzione cognitiva che, a differenza della demenza, si manifesta in età giovanile. Successivamente, lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler contesta l'uso di questo termine perché osserva che non tutti i pazienti affetti da questo disturbo sperimentano una perdita progressiva delle capacità cognitive. Bleuler non si sbagliava: infatti, la ricerca più moderna ha mostrato che non sempre nei pazienti con schizofrenia si manifestano quei deficit cognitivi che possono precedere o seguire l'inizio della malattia e che implicano una grave compromissione cognitiva.
Il termine schizofrenia proposto da Bleuler indica, dal punto di vista etimologico, una “mente divisa” e oggi viene usato per descrivere un gruppo di disturbi che possono avere delle caratteristiche e delle evoluzioni cliniche anche molto eterogenee. Siccome nel linguaggio comune questo termine viene spesso usato con un'accezione negativa, è stato proposto di sostituirlo con il nome molto generico di “disturbo dell'integrazione” che però, almeno per il momento, non è stato accettato da tutta la comunità scientifica. Qualcosa di simile era accaduto anche con il termine “isteria” che è ormai scomparso dalle definizioni nosografiche dei trattati di psicopatologia”.
L'intervista completa al professor Santonastaso. Montaggio di Elisa Speronello
Quando si parla di schizofrenia si fa riferimento a un gruppo di disturbi molto differenti anche per quanto riguarda il quadro sintomatico.
Infatti, come spiega il professor Santonastaso, “i sintomi associati alla schizofrenia vengono solitamente distinti in sintomi positivi, negativi e di disorganizzazione. I sintomi positivi, che descrivono la comparsa di fenomeni che prima non erano presenti, sono ad esempio le allucinazioni oppure il delirio, che consiste in un giudizio errato sulla realtà che è impossibile da correggere con il ragionamento e che può essere molto difficile da gestire e da trattare.
I sintomi di disorganizzazione, invece, compaiono quando il comportamento, il pensiero o il linguaggio diventano incoerenti e non finalizzati. Infine, i sintomi negativi sono quelli associati a una riduzione delle normali funzioni cognitive. Alcuni di questi sono, ad esempio l'apatia, ovvero l'incapacità di reagire emotivamente alle situazioni esterne e l'abulia che consiste in una mancanza di volontà o di intenzionalità.
Da un punto di vista clinico, chi sviluppa sintomi positivi vive solitamente un esordio più acuto della malattia, che può manifestarsi anche nel giro di pochi giorni. In questi casi, però, i pazienti tendono a sperimentare un'evoluzione migliore della patologia rispetto a chi sviluppa invece i sintomi negativi, come il disinteresse, l'apatia, la chiusura e il rifiuto dei rapporti sociali.
Come accade spesso nel caso delle malattie psichiatriche, l'eziologia di questo disturbo è multifattoriale”, continua il professor Santonastaso. “Sono varie le cause che concorrono a determinare lo sviluppo della schizofrenia. Come accade anche nella depressione, i fattori che causano la patologia sono sia genetici sia, in larga misura, ambientali. Nel caso della schizofrenia, però, la componente ambientale gioca un ruolo soprattutto in fase prenatale. Infatti, se nel corso della gravidanza si verificano degli eventi in grado di alterare l'ambiente dell'utero materno, come per esempio un'infezione batterica o virale oppure una grave denutrizione della madre, può verificarsi un'alterazione del neurosviluppo del nascituro. Attualmente è questa è l'ipotesi più accreditata per spiegare l'origine di questo disturbo, a cui si aggiungono le cosiddette complicanze perinatali come la mancanza di ossigeno o la presenza di infezioni durante o subito dopo il parto. Eventi come questi possono interferire nello sviluppo neurale precoce del nascituro e, in presenza di particolari fattori genetici, contribuire allo sviluppo di questa malattia, i cui primi segnali si manifestano quando il neurosviluppo si è concluso, ovvero verso i 16-18 anni d'età negli uomini e i 20-22 anni nelle donne. Oggi uno degli obiettivi della ricerca clinica è quello di identificare i sintomi precoci del disturbo per poter intervenire il prima possibile. Diversi studi, infatti, hanno mostrato che un intervento precoce e intensivo può migliorare complessivamente l'evoluzione della malattia”.
Vediamo allora che tipo di supporto terapeutico possono ricevere le persone con diagnosi di schizofrenia.
“I servizi specifici per la cura della salute mentale prendono in carico il paziente sia per quanto riguarda il ricovero, sia tramite i controlli psichiatrici e il supporto psicoterapeutico nei centri di salute mentale, sia durante la fase di riabilitazione. Per favorire il percorso di riabilitazione, inoltre, esistono anche delle strutture residenziali dove i pazienti possono trascorrere periodi più o meno lunghi di tempo, che vanno mediamente dai sei mesi ai due anni.
Il ricovero è spesso necessario per le persone che soffrono di questo disturbo, che può presentarsi con episodi acuti e improvvisi. Inoltre, soprattutto nella fase iniziale, succede che i pazienti non abbiano consapevolezza del disturbo, rifiutino le cure, e vengano sottoposti al trattamento sanitario obbligatorio, una procedura che per fortuna viene effettuata molto raramente, perché costituisce pur sempre una limitazione della libertà personale, ma a cui a volte bisogna ricorrere per salvaguardare la salute del paziente. Nella maggior parte dei casi, comunque, il trattamento sanitario obbligatorio non è necessario e, solitamente, una persona ritorna in famiglia dopo un periodo di ospedalizzazione.
Il rientro in casa, però, può essere un momento problematico non solo per il paziente ma anche per la sua famiglia, che pure necessita di un sostegno psicologico. Infatti, non si può curare un paziente con schizofrenia senza prendere in carico anche la sua famiglia, che va informata e istruita riguardo alla natura del disturbo, alle sue caratteristiche e alla sua gestione.
Il paziente, oltre a ricevere supporto psicoterapeutico può beneficiare anche di trattamenti farmacologici, che costituiscono un aiuto fondamentale nella cura. Com'è stato ampiamente dimostrato, infatti, la malattia ha un'evoluzione migliore in chi segue le terapie continuativamente. Talvolta, però, perché questo accada, è necessario lavorare sulla compliance del paziente al trattamento farmacologico anche grazie all'aiuto della famiglia.
Non dobbiamo dimenticare che la schizofrenia è un disturbo importante che compromette seriamente la vita di una persona e che può impedirle di continuare a lavorare o studiare come faceva prima. In ogni caso, riuscire a rimanere attivi dal punto di vista lavorativo o dello studio è un fattore prognostico molto positivo.
Infine, tornando a parlare di stigma, il professor Santonastaso spiega quali sono i principali stereotipi e “falsi miti” associati a questo disturbo e propone alcune buone abitudini che tutti possiamo adottare per non alimentarli e diffonderli.
“Un pregiudizio molto diffuso è che il paziente con schizofrenia sia una persona violenta”, spiega. Al contrario, solo lo 0,2% dei pazienti con schizofrenia sono stati protagonisti di azioni violente o penalmente perseguibili. Piuttosto, chi ha questa patologia ha più probabilità di subire atti violenti che di esserne l'autore. Un'altra credenza comune è che il paziente con schizofrenia sia inaffidabile”, continua il professore. “Questo può succedere, ma solo in alcuni momenti di crisi acuta, che non costituiscono di certo la regola, dato che stiamo parlando di un disturbo che può accompagnare una persona per molto tempo e che si sviluppa in diverse fasi”.
Quando tali stereotipi sono diffusi in una società, la persona con problemi mentali può interiorizzarli e sviluppare il cosiddetto autostigma, ovvero la convinzione di meritare i pregiudizi che vengono loro associati. “Le persone che si rendono conto di essere oggetto di stigma iniziano a pensare a loro stesse in modo diverso”, sottolinea il professor Santonastaso. “Questo innesca una sorta di circolo vizioso per cui lo stigma pubblico intensifica quello interiorizzato e spinge la persona ad autoisolarsi”.
Come fare, allora, per superare le convinzioni stereotipate nei confronti delle persone con schizofrenia e contrastare gli atteggiamenti stigmatizzanti? Il professor Santonastaso evidenzia innanzitutto l'importanza usare un linguaggio non stigmatizzante. “Va evitato l'uso del termine “schizofrenico” per descrivere il paziente con questa diagnosi”, osserva Santonastaso. “Questa espressione, infatti, rende la malattia la caratteristica principale del paziente che ne soffre. Parlando invece di “uomini e donne con diagnosi di schizofrenia”, ad esempio, viene dato risalto alla persona con tutta la sua complessità e unicità e non al disturbo”. Infine, per superare quel senso di “lontananza” che talvolta viene percepito dalle persone con schizofrenia, è sempre bene mantenere un dialogo aperto e inclusivo che dia spazio alle voci di tutti e di tutte.