SCIENZA E RICERCA

SARS-CoV-2 potrebbe diventare un virus endemico

Da quando Sars-CoV-2 è andato ad ampliare la famiglia dei coronavirus di interesse umano - caratterizzandosi per una facilità di contagio che, combinata alla capacità di sviluppare forme gravi di malattia, ha costretto i governi di tutto il mondo a mettere in atto misure, più o meno rigide, di contenimento - la domanda che ognuno di noi si pone è per quanto durerà? E adesso che ci ritroviamo a dover affrontare la seconda ondata di contagi, dopo che nei mesi estivi il virus aveva allentato la sua pressione, questo interrogativo appare ancora più pressante, soprattutto perché prima di avere a disposizione un vaccino efficace e in quantità sufficiente per tutta la popolazione occorrerà ancora aspettare parecchi mesi.

Le conoscenze scientifiche sulla durata dell’immunità di chi ha già incontrato il virus non alimentano l’ottimismo: gli anticorpi tendono a decadere rapidamente, soprattutto tra le persone in cui l’infezione è rimasta in forma asintomatica o paucisintomatica, e sebbene l’immunità sia un meccanismo più complesso, in cui hanno un ruolo anche le cellule della memoria e la loro capacità di riattivarsi, la rapida decadenza del titolo anticorpale è un dato da considerare. Non è quindi da escludere il rischio che Covid-19 diventi una malattia endemica capace di propagarsi nella specie umana in modo ampio e ricorrente, seguendo dinamiche stagionali come accade con i virus dell’influenza. 

E’ l’ipotesi di un articolo dei ricercatori Jeffrey Shaman e Marta Galanti della Columbia Mailman School, recentemente pubblicato su Science, che sulla base dell'interazione tra fattori come la durata dell’immunità, le condizioni ambientali e le misure di controllo, suggerisce l’eventualità che Covid-19 possa manifestarsi annualmente con focolai diffusi tra la popolazione, oppure possa presentarsi a intervalli di tempo più lunghi senza però mai scomparire del tutto. 

Sull’eventualità che Covid-19 diventi una malattia endemica si è già espressa anche l’Oms, attraverso le parole di Mike Ryan, capo del programma di emergenze sanitarie. A metà maggio, nel corso di un briefing a Ginevra, Ryan ha affermato che non è possibile prevedere se e quando questa malattia scomparirà, ha parlato di un “lungo cammino” e ha sottolineato che il vaccino sarà indubbiamente fondamentale, ma dovrà essere “altamente efficace e disponibile per tutti. E dovremo usarlo”.

 

L’articolo di Jeffrey Shaman e Marta Galanti su Science parte constatando che la reinfezione, in cui un individuo è soggetto a molteplici e distinte infezioni dalla stessa specie di virus nel corso della sua vita, è una caratteristica saliente di molti virus respiratori. I due ricercatori evidenziano che nella maggior parte delle infezioni da SARS-CoV-2, indipendentemente dalla gravità, è stato rilevato lo sviluppo di alcuni anticorpi specifici ma precisano che, come accade anche per molti altri virus, esistono processi che possono indebolire o aggirare il carattere sterilizzante dell’immunità e consentire una successiva reinfezione in caso di nuova esposizione al patogeno. 

In primo luogo la risposta immunitaria può non essere sufficientemente solida da rappresentare una barriera davanti al virus. Una seconda considerazione riguarda il rapido affievolirsi degli anticorpi e la possibilità che, anche quando la risposta immunitaria adattativa iniziale è robusta e protettiva, il suo veloce decadimento renda l’ospite nuovamente suscettibile all’infezione. Il terzo processo citato dagli autori è la deriva antigenica, cioè il fenomeno attraverso cui un virus durante il suo continuo passaggio attraverso una popolazione ospite, accumula mutazioni che modificano le proteine di superficie eludendo così la capacità di difesa degli anticorpi precedentemente generati contro una variante virale precedente.

Il quadro ipotizzato dagli studiosi della Columbia Mailman School si diversifica in due scenari principali: se l’immunità a SARS-CoV-2 diminuisce entro un anno, come accade per i coronavirus del comune raffreddore, il risultato sarebbero focolai annuali di Covid-19. Se invece la risposta immunitaria fosse più lunga, forse anche attraverso i meccanismi di cross-reattività legati all’esposizione ad altri coronavirus endemici, potremmo sperimentare quella che inizialmente sembrerebbe un'eliminazione di COVID-19, seguita però da una recrudescenza dopo qualche anno. I due ricercatori sono inoltre autori di una ricerca che ha evidenziato come le reinfezioni da coronavirus endemici siano comuni entro un anno e nell’articolo di Science hanno ragionato anche sul ruolo delle condizioni ambientali e sull’interazione con altre infezioni virali stagionali. 

Abbiamo chiesto all'immunologa Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze biomediche dell'università di Padova, di approfondire quali caratteristiche rendono SARS-CoV-2 un virus potenzialmente endemico e che ruolo potrà avere il vaccino nel contrasto alla diffusione del patogeno. 

Intervista all'immunologa Antonella Viola sulla possibilità che SARS-CoV-2 diventi un virus endemico, capace di dare origine a epidemie ricorrenti. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar

"Le considerazioni di questo articolo di Science - introduce la professoressa Antonella Viola, docente del dipartimento di Scienze biomediche dell'università di Padova - si basano sul fatto che per il momento questo è un virus che muta poco, quindi non induce a pensare che in questa fase possano intervenire delle mutazioni che vadano nella direzione di farlo scomparire da solo, e sulla valutazione di come si comportano gli altri coronavirus stagionali, quelli del comune raffreddore, che di fatto sono virus che si sono fermati nella nostra popolazione e sono diventati endemici. Inoltre l’articolo analizza il problema dell’immunità: gli anticorpi si generano sia tra gli asintomatici sia tra le persone che sviluppano sintomi, sebbene a livelli diversi a seconda della gravità della malattia, ma l’immunità sembra essere transiente e avere una durata limitata perché gli anticorpi svaniscono nel giro di poco tempo, dai tre ai cinque mesi a seconda degli studi".

"Se la scomparsa degli anticorpi - approfondisce l'immunologa Antonella Viola - si traducesse realmente nella possibilità di una reinfezione, se fossero quindi inefficaci le altre difese che vengono messe in atto a lungo termine, come i linfociti T e le cellule della memoria, nella popolazione non si raggiungerebbe mai un’immunità di gregge duratura e di conseguenza potremmo effettivamente registrare delle ondate di contagi che si ripetono. Questo sarebbe uno scenario davvero preoccupante e si discute anche di quali potrebbero essere le conseguenze: il virus potrebbe essere tollerato in maniera diversa perché a forza di essere esposti alle infezioni potremmo sviluppare comunque una specie di protezione che permettebbe di non manifestare sintomatogia. L’articolo sottolinea però in modo corretto che potrebbe verificarsi anche la situazione opposta, vale a dire un peggioramento clinico mediato proprio dagli stessi anticorpi attraverso il meccanismo dell’Antibody-dependent enhancement che porta gli anticorpi a favorire l’ingresso del virus anche all’interno di cellule che altrimenti non verrebbero infettate e, stimolando i macrofagi, andrebbero anche a indurre il rilascio di citochine infiammatorie in grado di peggiorare la situazione".

A seconda della durata della risposta immunitaria, della dipendenza dalle variabili stagionali e anche dell’interazione con altri virus, l'articolo di Science ipotizza la possibilità che Covid-19 si presenti ad ondate ripetute nel tempo, a intervalli di qualche anno, oppure più ravvicinate e con una ricorrenza molto più breve. Lo studio non esclude altri scenari, ma il fatto che siano stati documentati casi di reinfezione a distanza di pochi mesi non è rassicurante e non offre garanzie sul fatto che il vaccino possa in futuro liberarci completamente dal ritorno del virus. 

"Al momento - spiega la professoressa Antonella Viola - i casi documentati di reinfezione sono cinque e si tratta di pazienti sui quali si è potuto studiare la sequenza completa del virus nella prima e nella seconda infezione. Questo è importante perché di casi di reinfezione si è sentito parlare spesso ma ci si è domandati se fosse piuttosto una persistenza del virus contratto con il primo contagio e rimasto all’interno del paziente nonostante il tampone avesse dato esito negativo. Quando abbiamo invece la sequenza dei virus, sia nella prima infezione che nella seconda, possiamo escludere che sia una persistenza perché ci sono delle mutazioni che ci dicono che il virus ha fatto un giro diverso ed è passato attraverso altre persone prima di tornare su quello stesso paziente. Tuttavia, sebbene questo sia documentato soltanto in cinque casi, in realtà i medici in diverse parti d’Italia e del mondo, stanno riferendo che si cominciano a vedere diversi episodi di reinfezione. Del resto se il titolo anticorpale non si mantiene era ipotizzabile che ciò potesse avvenire e anche i coronavirus del raffreddore stagionale si comportano in questo modo, non danno una protezione a lungo termine. Questo è molto preoccupante: vuole dire che anche le persone che si sono ammalate tra marzo e aprile devono continuare a fare attenzione, non possiamo dare nessun patentino di immunità e potrebbe essere messa in discussione anche l’efficacia del vaccino".

L'immunologa Antonella Viola si sofferma proprio su questo punto spiegando che "purtroppo se l’infezione non riesce a indurre un’immunità a lungo termine non è detto che il vaccino sia in grado di farlo. Può darsi che ciò accada, perché ovviamente è diverso il modo in cui l’antigene viene presentato al nostro sistema immunitario, ma non possiamo esserne certi. Al momento non lo sappiamo perché non c’è stato il tempo di fare questo tipo di studi. A fine anno avremo solamente i risultati sulla sicurezza e sull’efficacia e, al riguardo, ricordo che l’efficacia che si sta valutando in questo momento è intesa come la capacità di alleggerire i sintomi e quindi non una prevenzione dell’infezione. Se poi questo vaccino offrirà una protezione per sei mesi, per un anno o per un tempo più lungo purtroppo non abbiamo ancora modo di saperlo e lo scopriremo solo quando faremo le vaccinazioni sulle persone".

Quello a cui si sta lavorando - ricorda la professoressa Viola - è un vaccino di prima generazione e intanto andranno avanti gli studi per migliorare la sua efficacia. Un orizzonte che crea preoccupazione è però la possibilità che il virus muti e che questo vanifichi in parte gli sforzi. "Sappiamo di una nuova mutazione che si è generata in Danimarca nei visoni", approfondisce la direttrice dell'Istituto di ricerca pediatrica Fondazione Città della Speranza. "Sono animali che possono essere infettati da SARS-CoV-2 e a quanto pare possono anche trasmettere il virus all’uomo. In Olanda è stato deciso di eliminare tutti gli allevamenti proprio per evitare il rischio che il virus possa trovare un ospite in cui mutare velocemente e che questo metta a repentaglio l’efficacia del vaccino".

Per quanto riguarda invece l'interazione tra infezioni virali respiratorie simultanee la buona notizia è che non sembrano associate ad una maggiore gravità della malattia da Covid-19. Sul tema si era espresso in un’intervista a Il Bo Live anche Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute del San Raffaele e docente di Endocrinologia all'università Vita-Salute San Raffaele, spiegando che fortunatamente “avere avuto una recente infezione da virus dell’influenza non sembra peggiorare le probabilità di guarigione in caso di COVID-19”. Inoltre, ricordano Jeffrey Shaman e Marta Galanti, interventi come il distanziamento sociale, l’uso delle mascherine e l’igiene delle mani, adottati per mitigare la trasmissione di SARS-CoV-2, potrebbero essere stati alla base della ridotta incidenza dell'influenza durante il recente inverno dell'emisfero australe e l’auspicio è che nei prossimi mesi accada lo stesso nell’emisfero boreale. E’ tuttavia evidente che se l’influenza dovesse colpire in modo esteso i sistemi sanitari, già messi a dura prova da Covid-19, sarebbero in forte difficoltà.

"Quando noi siamo infettati allertiamo il sistema immunitario e quindi potrebbe essere più pronto a bloccare una successiva infezione. D’altro canto - precisa l'immunologa Antonella Viola - se una persona sviluppa l’influenza in forma severa può avere un danno anche a livello respiratorio ed essere debilitata, fattore che renderebbe più problematica la guarigione da una seconda infezione. E’ ancora troppo presto per trarre delle conclusioni al riguardo e in questo momento il suggerimento, soprattutto per le categorie a rischio di complicazioni, è senz’altro quello di vaccinarsi contro l’influenza".

Per limitare il rischio di contagi le mascherine restano intanto uno strumento chiave e l'ultimo Dpcm le ha rese obbligatorie tra i bambini di età superiore ai sei anni anche quando sono seduti al banco, contrariamente a quanto era stato stabilito nella prima fase della riapertura delle scuole. 

"La mascherine - rassicura la professoressa Viola - non sono un problema perché l’aria passa tranquillamente, sia l’ossigeno in entrata che l’anidride carbonica in uscita. Eventualmente possono non essere indicate quando si fa attività fisica perché la nostra respirazione è accelerata ma quando si è fermi, come nel caso in cui si sia seduti al banco, non c’è alcun rischio ad utilizzarle. Ricordiamo che ci sono tantissime categorie professionali che usano sempre la mascherina: un chirurgo opera anche per diverse ore di seguito indossandola e anche noi ricercatori la utilizziamo regolarmente nei laboratori. Non dobbiamo inoltre dimenticare che ci sono tantissimi bambini che vivono ad ogni ora del giorno con le mascherine perché sono pazienti oncologici, immunosoppressi o perché devono affrontare un trapianto di midollo. Occorre però utilizzarla in modo corretto, deve essere pulita e cambiata ogni quattro ore. Con questi accorgimenti la mascherina non implica rischi per nessuno e, anzi, proteggerà il nostro bambino".

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