SOCIETÀ

Il semestre europeo di Angela Merkel: il bilancio tra sfide proibitive

Angela Merkel lascia il semestre di presidenza del Consiglio Europeo con un bilancio lusinghiero, nonostante la sorte l’abbia messa di fronte a una finestra temporale densa di sfide senza precedenti, da un punto di vista sanitario, economico e politico. Certo, non tutti i dossier sul tavolo hanno trovato soluzione e non tutti i protagonisti potranno dirsi pienamente soddisfatti dei risultati ottenuti. Ma il dato incontestabile è che la cancelliera tedesca passa il testimone (il meccanismo di rotazione l’ha già consegnato, fino al prossimo 30 giugno, al primo ministro portoghese, Antonio Costa) lasciando un’Europa che da un lato non si è sgretolata (il rischio, tra frugali e sovranisti, era concreto) e dall’altro ha fatto sostanziali e fondamentali passi in avanti. Visto il periodo così complesso, segnato dal dilagare della pandemia, e vista la “disunione strutturale” di alcuni paesi che compongono l’Unione, si può ragionevolmente affermare che la presidenza tedesca abbia lasciato il segno. L’ennesima medaglia per Angela Merkel, che a breve lascerà la ribalta della politica, dopo 15 anni vissuti da protagonista: ha già annunciato che non si ricandiderà per il quinto mandato alle elezioni tedesche del prossimo settembre. Ed è verosimile che, da qui ad allora, la sua attenzione sarà rivolta soprattutto ad appianare questioni interne.

 

L’accordo prezioso sul Recovery Plan

Tornando al bilancio del semestre europeo appena concluso, il suo successo più brillante, tanto auspicato quanto atteso, è stato il compromesso trovato tra i 27 stati membri sull’attuazione del Recovery Plan, il fondo da 750 miliardi di euro che l’Unione Europea ha deciso di mettere a disposizione di tutti, con differenti gradazioni d’intensità, per affrontare le conseguenze economiche e sociali della pandemia: un ciambellone di salvataggio per far restare tutti a galla. Fin dallo scorso aprile, quando si cominciava a capire la portata della pandemia, era stata la stessa Merkel, in tandem con il presidente francese Macron, a farsi promotrice dell’iniziativa, spingendo per l’accordo, mediando, motivando, convincendo anche gli stati più riottosi (Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Austria). E infine riportando alla ragione anche Polonia e Ungheria, che si erano messi di traverso, contestando la clausola, pretesa dal Parlamento europeo, che vincolava la concessione dei fondi al “rispetto dello stato di diritto”: un nervo scoperto sia per Orban, sia per Morawiecki. Un’opposizione che aveva provocato uno stallo pericolosissimo, perché il loro “no” avrebbe bloccato l’intera operazione. Ecco allora la Merkel scendere sul suo terreno preferito, quello della mediazione (a tal punto la sua specialità che non stupirebbe un suo futuro ruolo in ambito diplomatico). Il compromesso raggiunto salva la norma della condizionalità, ma ne blocca l’utilizzo (di certo per mesi, forse di più) fin quando Polonia e Ungheria (che contestano l’utilizzo “politico” del meccanismo, come un’invasione di campo negli affari interni) non potranno ottenere un verdetto sulla legalità della clausola dalla Corte suprema dell’Unione Europea. Qualche mugugno, ma le 27 firme sono arrivate. La Germania è un peso massimo dell’Unione: averla contro non è quasi mai una buona idea. Il premier sloveno Janez Janša ha definito così l’accordo: «Non buono, non cattivo. Il migliore possibile. Tipico compromesso dell’Ue». I detrattori della Merkel, dopo aver tirato un sospiro di sollievo per la bomba disinnescata, hanno accusato tuttavia la stessa la cancelliera di aver contribuito a creare il problema: di aver atteso troppo prima d’intervenire, di aver tollerato, o comunque sottovalutato, le spinte sovraniste e populiste che venivano dai governi di Varsavia e di Budapest. E, di fatto, di aver ceduto a un ricatto. Critiche anche fondate: ma l’accesso al Recovery era indispensabile per molti paesi, a partire dall’Italia. .

Brexit, a tempo quasi scaduto

L’altro obiettivo raggiunto, quasi a tempo scaduto dall’Unione Europea (e quindi comunque ascrivibile alla presidenza Merkel, anche se la cancelliera ha preferito tenere un ruolo assai più defilato), riguarda la Brexit: con la definizione di un accordo sui futuri rapporti commerciali con il Regno Unito, che dal primo giorno del 2021 non fa più parte dell’Unione Europea. Anche qui lo stallo è stato estenuante, per giorni, mesi. Fin quando, quasi improvvisamente, a ridosso di Natale, l’intesa è stata trovata. Entusiasta il premier Boris Johnson, che l’ha presentata come una sua vittoria (un’enfasi perfino eccessiva, ma ne aveva un gran bisogno, dopo aver incassato feroci critiche per la gestione della pandemia). Mentre più cauta è apparsa Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, che è apparsa sollevata («Finalmente ci lasciamo la questione alle spalle: Il Regno Unito è un Paese terzo, ma resta un partner fidato dell'Unione») e al tempo stesso dispiaciuta per il passo compiuto. Difficile, entrando nel dettaglio, stabilire chi abbia ceduto di più per raggiungere l’accordo. Di certo il Regno Unito mantiene una sovranità sulla pesca nelle sue acque territoriali, ma ha ottenuto una diminuzione soltanto del 25% del pescato in acque britanniche, nei prossimi 5 anni e mezzo, da parte di imbarcazioni europee, mentre la richiesta iniziale era per un taglio dell’80%. Sulla risoluzione delle controversie, sarà invece attivata una “clausola di riequilibrio” (qualora una delle parti dovesse violare gli accordi) che potrebbe portare all’imposizione di dazi su alcuni beni. «Sono lieta del fatto che i negoziatori europei e britannici si siano accordati su un’intesa che chiarisce i rapporti futuri fra Ue e Gran Bretagna», ha commentato, defilata, Angela Merkel.

L’Unione Europea della Salute 

Ma ci sono state anche altre luci nel semestre a presidenza tedesca. Su tutte spicca l’idea, ancora in embrione, di costituire un’Unione Europea della Salute, o una “NATO sanitaria”, come l’ha definita Jens Spahn, ministro della Salute a Berlino (che si è detto contrario agli «interventi a mosaico»), proprio per dare risposte univoche e quindi maggiormente efficaci in caso di emergenze sanitarie come quella che stiamo affrontando. E’ stata proprio la Germania a proporre di istituire nuove autority e aumentare le risorse per l’Agenzia europea per i medicinali e per il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. «Non possiamo aspettare la fine della pandemia per riparare i danni e pensare al futuro», ha commentato von der Leyen, che ha subito avallato la proposta tedesca.

Tutto sommato da inserire nella casella dei successi (anche se non mancano le critiche degli ambientalisti) anche l’accordo, siglato lo scorso 11 dicembre in Consiglio Europeo, per una riduzione del 55% delle emissioni dei gas a effetto serra entro il 2030, rispetto alle rilevazioni del 1990 (il Parlamento aveva chiesto che la quota fosse fissata al 60%). Un obiettivo che, se raggiunto, porrebbe l’Europa in una discreta posizione rispetto al traguardo dichiarato della “neutralità climatica”, da raggiungere entro il 2050. Ma ci sono diversi però. Uno su tutti: le emissioni da ridurre saranno intese come “nette”, il che permette di conteggiare anche la quota di assorbimento naturale (foreste ad esempio) nella riduzione di Co2: un’indicazione pretesa dai paesi più dipendenti dal carbone (Polonia, Ungheria) e a più alto tasso di emissioni di Co2 (Olanda, la stessa Germania). Insomma, non proprio una rivoluzione. 

I “non successi”: migranti, trasporti, Mediterraneo

La pandemia ha invece rallentato alcuni dei progetti più a lunga scadenza, facendoli scivolare in secondo piano. Nessun accordo è stato raggiunto sulla revisione del diritto di asilo e sul nuovo meccanismo di “solidarietà e responsabilità” nell’accoglienza dei migranti, con polemiche aspre (anche in Italia). Tra i dossier ancora aperti anche quello sui trasporti, assai ambizioso, con la proposta (tedesca) di una rete ferroviaria europea comune: un progetto che si scontra con enormi difficoltà e che avrà bisogno di un arco di tempo ben più lungo prima di sperare di arrivare a soluzione. O come la Conferenza sul futuro dell’UE, con i lavori ritardati anche dai disaccordi su chi dovrebbe presiedere l’assemblea. In fase di stallo anche il negoziato per l’adesione all’Unione Europea della Macedonia del Nord (c’è l’opposizione, netta, della Bulgaria). Qualcosa di più dalla presidenza Merkel ci si aspettava sul fronte della politica estera, soprattutto per alzare un argine alle provocazioni turche nel Mediterraneo orientale (ai danni di Grecia e Cipro). Così non è stato. Al termine dell’ultima videoconferenza tra i due leader, il presidente turco Erdogan, dopo aver ribadito che non avrebbe fatto passi indietro, si è limitato a chiedere che gli stati europei «adottino una posizione equa e coerente sul Mediterraneo orientale». La futura uscita di scena della Merkel, con l’Europa che perderà il suo principale negoziatore, non lascia ben sperare.

Un discorso a parte merita invece l’accordo commerciale (Comprehensive Agreement on Investment, CAI), siglato il 30 dicembre scorso tra Unione Europea e Cina, al termine di negoziati durati 7 anni. In base a quanto stabilito, gli investitori europei avranno accesso, più di quanto accadeva finora, a settori importanti del mercato cinese (automobili elettriche e ibride, telecomunicazioni). Mentre per la Cina è l’occasione di radicare la sua influenza commerciale in Occidente e “distendere” le relazioni commerciali e politiche (qui un approfondimento). Tuttavia l’accordo, condotto in prima persona dalla cancelliera tedesca e dal presidente francese Macron, ha scatenato proteste, poiché la Cina si è rifiutata d’inserire nel testo una clausola che prevedeva l’abolizione del lavoro forzato.  Critiche anche dagli Stati Uniti, che avrebbero preferito negoziare (o meglio, risanare) i rapporti con Pechino senza l’ingombro dell’accordo raggiunto. 

L'ultimo messaggio di fine anno di frau Merkel

Insomma, sei mesi intensi per Angela Merkel, che non ha sprecato l’occasione del suo ultimo (probabilmente) palcoscenico europeo per rafforzare il suo ruolo sulla scena internazionale. Un ruolo a tal punto riconosciuto che viene citato anche nell’ultimo report di “Eurasia Group”, la società di analisi fondata dal politologo americano Ian Bremmar che studia l'impatto della politica sui rischi e le opportunità nei mercati esteri. Scrive Eurasia: «La Merkel è stata la leader più importante dell'Europa. La sua uscita di scena. dopo 15 anni come cancelliera, rappresenta il massimo rischio per il continente. Dopo aver terminato la sua presidenza dell'UE, la Merkel e il suo governo si concentreranno ora verso l'interno per garantire un forte risultato all’Unione Democratica Cristiana (CDU) nelle elezioni di settembre. Questo lascerà il solo Macron, già indebolito dalla pandemia, al centro della scena europea». 

Dunque un’Europa “dipendente” da Angela Merkel, che nel suo discorso di fine anno ha ribadito l’intenzione di abbandonare la politica: «Lasciatemi dire una cosa personale: tra nove mesi ci sono le elezioni federali per le quali non mi ricandido, perciò questa è probabilmente l'ultima volta in cui io mi posso rivolgere a voi in un discorso di fine anno come cancelliera federale». E’ riuscita a portare l’Europa fuori dalla crisi? Assolutamente no. Le ferite economiche sono tuttora aperte, quelle sociali devono ancora mostrare il loro vero volto. Ha cambiato l’Europa? Anche qui la risposta è no. La spinta populista è ancora forte (secondo il rapporto Eurasia «La fatica della restrizione crea un terreno fertile per il populismo, con rischi di avanzata in Italia, nei Paesi Bassi e in Francia»). Ma se l’Europa c’è ancora, molto del merito è di “Mutti”: e l’ha lasciata con il motore acceso. Aver avuto alla guida del Consiglio una personalità del genere, in un periodo del genere, può essere considerata una fortuna.  

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