SCIENZA E RICERCA

Sempre meno tempo per evitare la perdita delle barriere coralline

Le barriere coralline sono senza dubbio tra gli ecosistemi che più risentono del rapido cambiamento delle condizioni ecologiche globali causato dalle attività umane. Improvvisi sbiancamenti sono avvenuti più volte negli anni, dovuti soprattutto – ma non solo – alle temperature anomale e agli alti tassi di acidificazione delle acque oceaniche in tutto il mondo.

Da decenni questi ricchissimi ecosistemi marini, di cruciale importanza per la tutela della biodiversità degli oceani, sono osservati speciali: è stato stimato che, già nel 2005, almeno il 44% degli ecosistemi corallini globali si trovavano in condizioni ambientali inadeguate, e che molti fattori di disturbo incidevano sulla loro conservazione. Le proiezioni sullo stato di salute dei coralli per i prossimi decenni confermano questa tendenza: considerando l’impatto dei singoli fattori di disturbo che agiscono nelle diverse aree dove sono ancora presenti barriere coralline, si stima che, nello scenario peggiore (cioè in un modello business as usual), l’inidoneità ambientale sarà raggiunta entro il 2055.

Ma, secondo quanto afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Manoa, Hawaii in un articolo pubblicato sulla rivista PLOS Biology, queste stime sono viziate da un errore di fondo. Gli autori dell’articolo, infatti, sottolineano come sia sbagliato considerare singolarmente i fattori di disturbo che mettono a rischio la sopravvivenza dei coralli: in natura, infatti, tali fattori agiscono sinergisticamente, e i loro effetti dannosi si sommano accelerando i processi di deterioramento dell’ecosistema.

Sono diversi i fattori presi in considerazione nello studio: ondate di calore, acidificazione delle acque, tempeste, inquinamento terrestre e impatti antropici locali (dovuti soprattutto alla vicinanza di agglomerati umani alle aree coralline, e comprendenti il sovrasfruttamento delle popolazioni ittiche, l’eutrofizzazione delle acque e altri effetti legati all’alta densità di popolazione umana in aree costiere). In molti casi questi elementi interagiscono, innescando meccanismi di retroazione positiva e potenziando i processi di degradazione. Dunque, affermano giustamente i ricercatori, per produrre una stima attendibile di quali saranno le condizioni degli ecosistemi corallini nei prossimi decenni non sarà sufficiente guardare all’impatto dei singoli fattori, ma bisognerà valutare l’incidenza che questi avranno collettivamente.

La sinergia tra fenomeni ed eventi che portano al degrado degli ecosistemi estende in modo esponenziale le aree di barriera corallina che verranno a trovarsi, nei prossimi anni, in condizioni ambientali ostili. Se tali condizioni avverse si verificano per periodi prolungati, ciò può portare gli ecosistemi a superare una soglia di tolleranza oltre la quale è probabile che si verifichi, seppur non l’estinzione delle specie che fanno parte dell’ecosistema stesso, un considerevole cambiamento nelle funzionalità e nella composizione della comunità ecologica.

Come affermano i ricercatori nell’articolo, «nessun elemento di disturbo, se preso individualmente, può essere considerato interamente responsabile del deterioramento ambientale delle scogliere coralline; ma, quando gli effetti di queste cause di stress vengono considerati congiuntamente, il risultato è che il momento in cui si raggiunge l’inidoneità ambientale è più esteso e più precoce». Adottando questo approccio, infatti, la revisione delle stime è eloquente: in uno scenario business as usual (il più pessimistico fra i tre considerati), le scogliere coralline potrebbero trovarsi, in media, in un ambiente inadatto alla sopravvivenza già nel 2035: non avremmo, dunque, 33 anni per agire, ma solamente 13. Entro il 2100, vivrebbe in condizioni avverse, subendo gli effetti di almeno un fattore di stress, circa il 64% dei coralli nello scenario migliore (caratterizzato da aggressive politiche di riduzione delle emissioni), mentre questa percentuale salirebbe addirittura al 99% nello scenario più pessimistico. Ancora, entro il 2100 dovrebbe fare i conti con più fattori di stress almeno il 93% degli ecosistemi corallini nello scenario peggiore, mentre il danno causato da più elementi antropici sarebbe limitato al 22% degli ecosistemi corallini nello scenario più ottimistico.

Tali proiezioni non rappresentano una definitiva condanna: ad esempio, bisogna tenere a mente che questi dati sono ottenuti non prendendo in considerazione il potenziale adattativo delle popolazioni di coralli. Tuttavia, il fatto che gli elementi di disturbo climatici e antropici siano presenti in maniera abbastanza omogenea su scala globale suggerisce che la possibilità di dispersione verso aree meno affette da cambiamenti ambientali sia fortemente ridotta. Inoltre, a risultare particolarmente preoccupante, a detta dei ricercatori hawaiiani, è il fatto che la finestra d’azione si riduce, rispetto ai calcoli precedenti, anche nello scenario più ottimistico. Tirando le somme, ciò significa che il tempo rimasto a disposizione per ‘aiutare’ gli ecosistemi corallini ad adattarsi alle interferenze umane è circa la metà di quel che si pensava – rimane poco più di un decennio prima che le ‘soglie di tolleranza’ vengano superate.

Mettere in luce dati così negativi rischia – e i ricercatori ne sono consapevoli – di causare nell’opinione pubblica e nei decisori politici un senso di impotenza e sconforto. Eppure, è proprio nella direzione opposta che gli autori ci incoraggiano a guardare: «[…] Il nostro obiettivo è rafforzare il senso di urgenza nei confronti di una rapida riduzione delle emissioni di gas climalteranti e di maggiori investimenti in sforzi di conservazione, così da evitare che si verifichi un ulteriore deterioramento degli ecosistemi delle scogliere coralline». Il tempo è poco: per questo è indispensabile impiegarlo nel miglior modo possibile.

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